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lunedì 23 aprile 2018

GIOCONDO COLANGELO

GIOCONDO COLANGELO

(11) Apparso per la prima volta con delle partiture poetiche inedite nell’antologia Poeti del Molise, Giocondo Colangelo (1954) ha fatto seguire, dopo la pubblicazione di queste sue scritture autobiografiche, una plaquette di versi e calembours dal titolo Senza recita, Casa Molisana del Libro, 1982, che tra neutralità dei vecchi schemi e alleanza a un dire nuovo, segna sulla carta della quotidianità le tangenziali dell’esistenza e le cifre del vissuto, tratteggiando il ricordo e il sogno verso punti di fuga e di morte, secondo suggestioni letterarie ben precise (Whitman e Rimbaud sono solo alcuni dei poeti presi a riferimento), tra motivi ora ironici, ora delicatamente memoriali, al di fuori di ogni riconferma e restaurazione di modelli archetipi senza, tra l’altro, sconfinare nei territori degli squilibri formali, per lasciare, come dice l’autore, le sue poesie alle spalle, per perderle e, secondo l’insegnamento di quel prete di un libro di Borges, Bioy Casares, che insisteva sulla necessità di perdere l’anima per salvarla, ritrovarle, all’interno del rapporto odio-amore, fino a dilacerare il tessuto esistenziale e ricucirlo da ogni strappo e ferita, prima della inevitabile resa o sconfitta.
Quanto alle ulteriori prove o verifiche, a livello di consistenza, di cui parlava Pasquale De Lisio, recensendo Senza recita su Proposte molisane 82/1, pag, 197, non crediamo che esse debbano costituire delle condizioni essenziali per riconfermare giudizi e chiavi di lettura. Senza recita resta, al di là delle (im)probabili sortite poetiche dell’autore, un momento altro o a sé di quel fervore letterario, come esperienza parallela degli avvenimenti culturali prodotti negli anni Settanta-Ottanta.
Con molta probabilità il documento poetico di Colangelo sta a indicare il rifiuto di una Forma declamata e artefatta, ovvero, la negazione al bel canto e allo stile delle cifre di Cocteau.
Senza recita propone nella sua struttura, momenti di vita vissuti nel silenzio e nella emarginazione, nel quadro delle varie esperienze fatte dall’autore. Da qui l’uso di una parola poetica che rifiuta il ninnolo tradizionale, l’idillio e l’arabesco, e che pure sta a dimostrare e a indicare una delle tante strade percorse dalla poesia nel conflitto dei segni e dei significati.

DEDICATO A UN PURO AMICO IMMAGINARIO

Ci siamo cacciati in un brutto pasticcio Fred,
non vedo come faremo a venirne fuori!
Queste ombre sanguinolente non ci mollano più,
il capezzale di morte è lì sul nostro cammino,
alla foce del fiume ci attendono, non ci andremo!
Ti dedico questi granuli di sabbia,
sabbia del deserto, deserto della mia stanza,
mentre fuori mille cervelli
stanno esplodendo in orgasmi di utopie,
domatori inferociti divorano i leoni,
(moro in facoltà fa l’occhietto al collettivo),
hare krishna infangato da calessi in corsa
piange sul ciglio della strada,
James Joyce urla nella tomba:Rivoglio le mie lettere,
Monsieur Bernard applaudito al comitato
rimpiange vecchie glorie,
“have a good time, baby” lanciato nello spazio
rientra dall’uscita d’emergenza,
“lascia andare le parole” sussurrato all’orecchio,
non ho molto tempo vuole dire.
Quest’ultima visione,
non mi rimane altro prima di partire.
Una stanza illuminata,
Mary col suo adolescente nudo sulle ginocchia,
“altri quindici giorni e poi sono fuori”,
un vecchio cortile circondato d’aiuole,
ci siamo lui io e tanti altri,
Mary col broncio perché si ride di lei;
-cento anni per capire che la chiave delle Illuminazioni
era lì, dietro la porta -.
Lui in divisa, intossicato di vita, sorride all’amico,
gli promette bevendo un lunghissimo spleen.
(Genzano 27.2.76)

Stanotte son di guardia alle stelle,
la luna non c’è,
se la son pappata rabbiosi sergenti.

Il gatto nel cortile
gioca a rincorrere il coniglio,
mentre l’uccellino incollato
sta morendo sul muraglione.
Stanotte son di guardia alla luna,
le stelle non ci sono,
se la son pappata rabbiosi sergenti.

In una simile notte
senza lucciole
dev’esser morto Esenin,
in una simile notte
sul muraglione scuro
il mio passerotto muore.

Ufficiale di picchetto chiudi bene
il cancello stanotte,
non lasciar passare i ricordi.

*

Ospemiles di Firenze
ad attendermi tutti burloni fiorentini.
il primo accenno a Ciapaqua
e i libri di Burroughs nella borsa.

Gli amici mi venivano a trovare.
Nicola mi portò l’assassino,
ne fumammo insieme
e ridemmo di Mary.

Vecchia Olanda nella mente.
Mary era sempre lì
col suo adolescente nudo sulle ginocchia.
La notte copulavamo felici.

Telecuore con esofago barrierato
dette esito negativo
e glicemia e azotemia
erano solo una scusa per succhiarmi del sangue.

Bronchite catarrosa subacuta
fu la carta vincente.
Con i miei quattordici giorni di convalescenza
nel taschino della giacca

salutai gli amici burloni e Firenze,
Nicola dietro il bancone e Mary.
“Altri quindi giorni e poi sono fuori”
furono le sue ultime parole.


Finalmente novembre,
sono quasi alla Fine.
-Bisogna aver rispetto
per tutto ciò che finisce -

Il mese è dedicato ai morti,
anche a te Pier Paolo
ucciso dalla tua sessualità.
Me l’ha detto quest’oggi

la mia radiolina,
è successo dalle parti di Ostia,
e pensavo che solo a gennaio
stavo in biblioteca, seduto, a parlare di te.

“ Non ho paura della morte, ne avevo
solo da ragazzo” allora dicevi.
E Cimo che continuava a ripetermi:
“ Deve essere proprio un intellettuale pazzo”.

“Era un trasgressore di tutti i codici”
scriverà di te un tuo amico.
Ora quest’Italia furfante
si è persino dimenticata di te,

che facevi tanto per scuoterla.
Ma non temere l’oblio,
i poeti vivranno in eterno,
e tu certo, non eri da meno..

*

Me chi mi ama? Dannazione!
Rinchiuso fin dall’infanzia in galere scolastiche
ad affogare il cervello nella noia
tamburellando masturbazioni
rincorrendo la vita, irragiungibile.
Sogno di essere felice ma non lo sono.
Me chi mi ama?
Trobar clus nella notte buia.
Lucio nella latrina di servizio a salmodiare poesia.
Dopo la sua partenza per Lucca non mi ha più salutato.
Ed ora…un cranio pieno di libri,
senza valore ormai.
Nei sogni pieni di incubi possono riviverli, se voglio.
Fantastiche storie dell’Aldilà.
Me chi mi ama?
Solo il gatto Manoski. Quando ha fame.
A chi mai confessarlo?
Il mio pensiero — precursore del vento —
mia sola dama di compagnia,
Sto vivendo nella mia mente.
Questo (ed altro) aspettando l’autobus
In un frizzante mattino autunnale,
a Roma.

A M.
Chi ucciderai ancora? Chi porterai alle stelle?
Che altre menzogne inventerai?
(Osip Mandelstam)


FIGHT ON

RITMO è la percussione
di questo pezzo di Peter Tosh
un reggae arrangiato
da musici e pittori fiamminghi del Cinquecento
Lacrima è quella che non hai versato
per me
Drogato è il ricordo
delle estenuanti attese
dagli addii di sasso
dalla tua lacrima non versata
ma non questo ritmo
oh come vorrei essere io l’alchimista
e a notte tarda dopo la serata
rincasare verso la mia donna di colore
io il giamaicano
l’arabo che languisce nel metrò parigino
il vecchio alcolizzato con l’armonica
che ogni sera suona alla Station olandese
giocondo colangelo figlio di Michelangelo
murato in queste quattro (mila) mura di libri
che se scrive una canzone per domani
è solo per ritrovare il fanciullo che era ieri.

Quanto al ”Taccuino del sognatore ” accluso a “Senza recita “, qualche tavola di lettura riteniamo di doverla recuperare, anche a costo di trasgredire sul piano metodologico, ma è un peccato veniale che vale la pena di commettere. In altri termini si vuole riportare in superficie da “Le impressioni parigine” tutto “ l’humus poetico” e il “ sentimento critico “ del poeta in relazione alla sua visita al Louvre e alla chiesa di Notre-Dame di Parigi , In effetti opera anche qui un vagabondaggio culturale sul mondo esterno, con una minuziosa descrizione sui fatti e gli avvenimenti che si presentano durante il giorno nella cosmopolita Parigi popolata di ambulanti e giocolieri, di colonie di arabi e di venditori di quadri e oppio, di clochard e di miserie grandi e piccole che si consumano all’ombra delle rues e delle bidonvilles:


da : “ IMPRESSIONI PARIGINE “

TUTTI VOGLIONO VEDERE

Tutti vogliono vedere . Alla chiesa di Notre-Dame la gente si accalca per vedere il Tesoro. L’ingresso è di tre franchi. Per gli studenti niente riduzione. Ai due lati della chiesa, dentro la basilica del Sacrè-Coeur si vendono i ricordini. Piccole dosi di religione da riportare a casa, agli amici. La chiesa di Cristo è trasformata in un mercato. Turisti dappertutto, i giapponesi con le macchine fotografiche perfino nelle orecchie. Fotografano Cristo. Una vecchina domanda a un sacerdote, nel suo strano dialetto spagnolo dove vendono dei crocifissi “Comment ?” è la risposta. La vecchina insiste:” por comprar de los crucifijos, por comprar Jesucristo “. Il prete capisce, sorride. Glielo indica. Questo secolo consumistico ha trovato il sistema di commercializzare pure Cristo. Lo si vende, si compra, si paga per guardarlo. Ce n’è per tutti i gusti. Il Cristo per i poveri, di pochi franchi, e il Cristo per i ricchi. Una massa di venduti che vendono. Ma , a parte il mercato, la basilica del Sacrè-Coeur ti colpisce per la grandiosità della rappresentazione religiosa. Entrando, di fronte a te, in alto, un Cristo immenso con le braccia allargate ti domina. Ai suoi lati, papi, santi. Sono molto piccoli rispetto a Lui. Però sempre più grandi di altri personaggi che seguono. L’autore di questa rappresentazione ha voluto creare una scala di valori nella gerarchia religiosa. L’ordine d’importanza nella gerarchia è dato dalla grandezza. Rappresentazione alquanto banale, ma efficiente. Si è dominati da questo Cristo immenso. In questa chiesa l’uomo non esiste. La prima volta che vi entrai stavano celebrando una messa. Il prete all’omelia dava l’idea di voler fare un discorso politico. Parlava con lo stesso ritmo e timbro di voce con cui si fanno i comizi. La politica in chiesa? Non c’è da stupirsi. Durante le guerre i francesi, popolo di nazionalisti, si radunavano in chiesa per pregare. Finite le guerre eccoli di nuovo in chiesa per “ celebrare “ la vittoria. Amen.

Barboni nella metropolitana, agli angoli delle strade, sdraiati nei giardini pubblici. Sembra la città dei pezzenti, Parigi. Puzzano d’alcool lontano un miglio, puzzano di morte. Tanti arabi. Vengono dalle ex - colonie. Fanno i lavori più umili. Uomini delle pulizie nel mètrò. Non vedono mai la luce. L’altro giorno al Jardin des plantes un arabo sdraiato su una panchina, solo. Triste, già morto. Consumava così le sue ore, i suoi giorni, i suoi anni. Sarebbe venuta voglia di andargli incontro, abbracciarlo. “Fratello, non lasciarti morire! Ritorna nella tua terra, sii felice”. Non l’ho fatto. Come potevo.. Sono andato via. E’ rimasto come l’avevo trovato. Un pezzo di Marocco venuto a morire in terra straniera, in terra francese.

Niente. E’ proprio vero, hanno trasformato le loro chiese, i francesi, in mercato. Mercoledì 22 agosto alle venti e trenta concerto per organo di Lionel Rogg. Prezzo quindi franchi. Portano Bach in chiesa e lo vendono, loro. Proprio come Cristo. Non c’è che dire. Mi sono imbucato. Non c’è che dire. Giorni fa per farmi i capelli, senza shampoo, nella lontana periferia, in un umilissimo coiffeur, 33 franchi ha voluto, lui, il barbiere. Trentatrè franchi, che equivalgono a seimilatrecentosessantanove dannate lire. Niente. E allora mi sono imbucato in chiesa. Bisogna rubare ai ladri, è l’unico sistema per sopravvivere, in un posto di ladri.

Esco dallo Studio Saint - Sèverin dopo aver visto per l’ottava volta il film - concerto di Bob Marley, quello del giugno 77 al Raimbow. Ho fumato nella toilette del cinema con due ragazzi arabi di Algeri. Prendo Rue Saint- Saint-Sèverin e taglio per Rue de la Harpe così sono subito a Boulevard St. Germain. Sono le venti circa. E’ l’ora in cui cominciano ad affluire sul boulevard i venditori ambulanti di oggetti fatti a mano, braccialetti, collanine, orecchini. Arrivano anche i venditori di quadri, di posters e i suonatori ambulanti, o occasionali, che cercano di svoltare la serata. Ogni sera così. Davanti alla chiesa St. Germain - des - Prés il circo. Il lanciatore di fiamme, il mimo, gli acrobati, il prestigiatore e l’uomo delle catene. E’ un ragazzo biondo ,quello. L’ho osservato per alcune sere. Sempre la stessa scena. Ogni sera. Si fa legare dai passanti una lunga catena di ferro intorno al corpo. La fa incastrare con due lucchetti e dopo dieci minuti, con le contorsioni del corpo, riesce a sfilarsela. La gente applaude. Poi è la volta dei vetri rotti. Vi si sdraia sopra con la schiena e si fa salire sul corpo dieci persone. Voilà. Il gioco è fatto. Nemmeno un taglio. Altri applausi. E’ infine la volta delle fiamme. La gente è contenta. Finito il numero passa con un cappello tra il pubblico, sono generosi. Lui ringrazia per ogni monetina che riceve. Dopo il tin metallico china la testa e cinguetta un merci. Se ne va. Anch’io. Faccio la rue de Rennes. All’angolo, davanti alla farmacia, i soliti invertiti. Sono ragazzi, si baciano e abbracciano tra di loro, per provocare i passanti. Ci sono anche lesbiche. Per strada sono come cullato dalla musica. Cammino come in un sogno di Dalì. Timothy Leary dice che è l’unico pittore dell’LS.D., senza L.S.D.. Sono solo e felice.Una volta tanto. E’ per via del fumo. Tutt’intorno è un luccicare di colori. Le macchine sfrecciano, superbamente. Le sento amiche. Sono arrivato in un attimo, in albergo. La musica si dissolve in ascensore, come in un sogno. Il Raimbow, Bob Marley, scomparsi. Però ogni tanto qualche nota ritorna. Mi aspettano ora il vino e il formaggio. Anche una pesca. E’ da ‘ sta mattina che non mangio. Sono fortunato. In Giamaica hanno qualcosa come meno di niente. L’ho visto al cinema. Solo la musica e tanto sole. Il resto è miseria. Bidonvilles.
Per ora basta. Spegnerò la luce su questo giorno. Leggerò Céline prima. Forse.

Volevo vendere due libri ai bouquinistes. Un totale di novantadue franchi. Non l’ho fatto. Volevano darmi massimo venticinque franchi, per i due libri, quei rabbini. Volevano speculare sulla mia miseria. In parole povere truffarmi. Quei ladri. Il furto legale è più schifoso di quello illegale. Ha le spalle coperte. Al sicuro.

L’ho scrutati subito, in fondo all’anima. Hanno pensato: “Ha bisogno di soldi, lo prenderemo alla gola“. Ma io non glieli ho dati. Ho intuito il gioco. Me ne sono andato. Prima li ho esaminati bene, però. Sono una marea di persone anziane, tra cui una buona metà ha superato l’età della pensione. Pochissimi giovani. La gran parte è composta di vecchie che non hanno alcuna intenzione di mollare. Se ne potrebbero stare tranquille in pensione, ma non lo fanno. Se ne stanno lì a farfugliare prezzi, a vendere cartoline sbiadite dal tempo e libri scritti da fantasmi. La morte le coglierà sul lungosenna, aggrappate all’ultimo franco, all’ultimo respiro. Una prece. Che tristezza. Nessuna mi ama. Sono piombato in un abisso di solitudine.