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sabato 22 novembre 2008

POESIA INDIANA
RATI SAXENA
(1954)

Le ragazze di buona famiglia

Le ragazze di buona famiglia
non fanno volare aquiloni.

Gli aquiloni hanno colori
i colori desideri
e i desideri spine.

Gli aquiloni sono carta
la carta si strappa
e il corpo diventa impuro.

Gli aquiloni hanno corde,
corde che si perdono
e la loro strada è persa allora.

C’è come un volo negli aquiloni
che combattono le nubi
sino a spezzarsi i nervi.

Così ragazze di buona famiglia
non fanno mai volare aquiloni.
Rati Saxena


(Le serpent tout entier, da: "One window and eight bars". Traduzione dall' inglese a cura di Federico Federici. Cantarena, 2008, edizioni in tre lingue: Hindi, Inglese, Italiano)



Quando lui suona il tamburo

Quando lui prende il tamburo
l’acqua a mare evapora
e sulla sua fronte che gli è cara
e le gocce del sudore.

Quando batte sul tamburo
una grande stella spacca e cade,
hanno un fremito le tende alla finestra
che gli è tanto cara

questa dolce pena che lo impregna
sprizza via dal battere il tamburo
la terra si dimentica la strada

sul tetto di colei che ama
è venuto per posarsi un piccolo volatile,
piovendo dal cielo
lei stende i suoi capelli
e bagna in giro tutti gli alberi
nel suo profumo dolce

quando lui suona il tamburo.
Rati Saxena


(Le serpent tout entrier, da: "One window and eight bars". Traduzione dall' inglese a cura di Federico Federici. Cantarena, 2008, edizioni in tre lingue: Hindi, Inglese, Italiano)



La notte scorsa
i lombrichi hanno perso la strada di casa
si sono infilati in buche di serpi.
Non trovando più posto
le serpi hanno messo in subbuglio il mare.
No, non temere
nulla è accaduto ai pesci.
Sono rimaste in acqua
come in cerca di qualcosa
quasi senza nemmeno nuotare.

Nessuno ha chiamato
la terra che gorgoglia
o il cielo
o il mare.

Sono rimasta io
sveglia su un albero
la notte scorsa.
Rati Saxena


(Le serpent tout entier, da:"Mountain nights". Traduzione dall' inglese a cura di Federico Federici. Cantarena, 2008, edizioni in tre lingue: Hindi, Inglese, Italiano)


*
"Anche le mie poesie sono diverse da quelle degli altri poeti Indiani, perché scrivo in isolamento e per questo scrivo quello che è in me – senza influenze dalla poesia Hindi contemporanea. Ecco perché quello che riuscirai a capire sarà un bene per i miei versi, darà loro una dimensione nuova, perché, vedi, la traduzione potrà dare nuova vita alla poesia, i miei testi parleranno una lingua nuova con chi mi leggerà in Italia." (estratto da una lettera di Rati Saxena a Federico Federici)

POESIA CINESE
LU XUN
(1881-1936)


Separazione dei fratelli

Per vivere bisogna correre tutto il giorno,
Noi fratelli siamo costretti a separarci.
E la cosa che rattrista maggiormente,
E’ la lampada solitaria in una lunga notte di pioggia.

Ritorno a casa, ma per poco, parto di nuovo,
E la sera aggiunge maggiore dolore.
Gli innumerevoli salici lungo la strada
Sono l’immagine della sofferenza.

Ci separano sempre per un anno.
Per mille li* il vento porta la nave del viaggiatore.
C’è una parola che va ricordata,
Nello scrivere, il successo non dipende dal cielo.
*Il li è un’unità di misura corrispondente a circa 500 metri
Lu Xun

(da:”Ballate del dissenso”.Traduzione di Paolo Galvagni, su Poesia, anno V, ottobre 1992, n. 55, Crocetti Editore)


Sogni

Molti sogni sollevano frastuono nel crepuscolo.
Quando un sogno soffoca il precedente,
Dal sogno seguente viene cacciato.
I sogni passati sono neri come inchiostro.
Anche i sogni presenti sono neri come inchiostro:
E quello presente e quello passato esitanti dicono:
“ Guarda ho davvero un bel colore”.
Forse il colore è bello, nell’oscurità non si capisce,
E inoltre non si sa chi sia a parlare.

Nell’oscurità non si capisce, con la febbre e il mal di testa.
Vieni, vieni, sogno trasparente.
Lu Xun

(da:”Ballate del dissenso”. Traduzione di Paolo Galvagni, su Poesia, anno V, ottobre 1992, n. 55, Crocetti Editore)

venerdì 21 novembre 2008

Wang Wei
(699-759)
e P’Ei Ti


La conca del muro di Méng

La mia nuova casa
è all’inizio del muro di Mèng,
fra vecchi alberi
e resti di cadenti salici.
L’altro, dopo di me,
chi sarà?
Vana la sua mestizia
per questa che fu mia.

La mia nuova capanna
è sotto il vecchio muro:
a volte salgo
all’antico recinto.
Il vecchio muro
nulla ha più del passato,
uomini d’oggi, incuranti,
vengono e vanno.
Wang Wei e Pei Ti

(da: “Poesie del Fiume Wang”, Traduzione dal cinese di Martin Benedikter, Einaudi, 1972)



Il recinto dei magnoli

D’autunno il monte accoglie
gli ultimi raggi;
voli d’uccelli seguono
i primi stormi.
Bagliore di smeraldo
a tratti sparso s’accende.
La foschia della sera
non ha dove restare.

Dalla volta di luce
all’ora che tramonta il sole,
la voce degli uccelli
si confonde con l’altra, del torrente.
La verde via del ruscello
volge alla lontananza;
gioia della solitudine,
avrai tu mai fine?
Wang Wei e P’ei Ti

(da: “Poesie del fiume Wang”, Traduzione dal cinese di Martin Benedikter, Einaudi, 1972)



Il sentiero delle sofore

Sul sentiero in disparte,
al riparo delle sofore,
nel segreto dell’ombra
rigoglia il verde muschio.
Rispondono, alla porta:
appare, solo, e mi saluta, il servo.
Credevo già venuto
il monaco del monte.

A sud della porta,
lungo le sofore,
è il sentiero sul ciglio,
che mena al lago I.
Quando giunge l’autunno,
piove molto sul monte;
le foglie che cadono
nessuno le raccoglie.
Wang Wei e P’ei Ti

(da:”Poesie del fiume Wang”, traduzione dal cinese di Martin Benedikter, Einaudi, 1972)

giovedì 13 novembre 2008

POESIA AMERICANA
LOUISE GLUCK
(1949)



Il giglio d’argento

Le notti sono di nuovo fresche, come le notti
di inizio primavera, e di nuovo silenziose. Ti
disturbo parlare? Siamo
soli ora: non abbiamo ragione di silenzio.

Guarda, sopra il giardino sorge la luna piena.
La prossima non la vedrò.

In primavera, quando sorgeva la luna, voleva dire
che il tempo era finito. Bucaneve
si aprivano e chiudevano, i grappoli
di semi degli aceri cadevano in pallide ondate.
Bianco su bianco, la luna sorgeva sulla betulla.
e nella forcella, dove l’albero si divide,
foglie dei primi narcisi, al chiar di luna
un morbido argento verdastro.

Ora siamo andati troppo avanti insieme verso la fine
per temere la fine. Queste notti, non sono più nemmeno
certo
di sapere cosa vuol dire la fine. E tu che sei stata con un
uomo:

dopo le prime grida,
è vero che la gioia, come la paura, non dà suono?
Louise Gluck

(Traduzione di Massimo Bacigalupo:da “L’iris selvatico”, Poesia, anno XVI, marzo 2003, n. 170, Crocetti Editore)

Cavallo
Cosa ti dà il cavallo
che non ti posso dare io?

Ti guardo quando sei sola,
quando monti nel campo dietro la fabbrica del latte,
le tue mani immerse nella criniera scura
della giumenta.

Allora so cosa sta dietro il tuo silenzio:
disprezzo, odio di me, del matrimonio. Eppure
vuoi che ti tocco, gridi
come gridano le spose, ma quando ti guardo vedo
che non ci sono bambini nel tuo corpo.
Allora cosa c’è?

Niente, penso. Solo fretta
di morire prima che muoia io.

In un sogno, ti ho osservata montare il cavallo
su campi secchi e poi
smontare, voi due camminavate insieme;
nel buio, non avevate ombre.
Ma le senti venire verso di me
perché di notte vanno dappertutto,
sono padrone di sé.

Guardami. Pensi che non capisco?
Cosa è l’animale
se non un passaggio fuori da questa vita?
Louise Gluck
(Traduzione di Massimo Bacigalupo, da “The Triumph of Achilles”, 1985, Poesia. anno XVI, marzo 2003, n. 170, Crocetti Editore)


JAMES WELCH
(1940-2003)


VIENE NATALE ALLA PIANA DELLE VIPERE
Natale viene così: uomini saggi
senza fretta, candele comprate a credito (basso il prezzo
dei vitelli) guerrieri faccia in giù nel sonno del vino.
I venti ingannano per trar calore dal fumo.

Amici siedono in baracche rattoppate, guardano oltre
le finestre di plastica, aspettando provviste.
Charlie Blackbird, a venti miglia da chiesa
e bar, pugnala il suo fuoco con la pietrina.

Quando gli ubriachi prosciugano i radiatori per amore
o bisogno, i capi mangiano neve e parlano di cambiamenti,
con la voglia di ridere che gli martella i fianchi.
Gli alci scherzano sugli altipiani.

La Stregona, pipa di terracotta e tabacco da masticare,
chiama per nome ogni bufera e predice
le cinque sputando nel televisore.
I bambini le si fanno addosso per chiedere una storia.

Qualcosa sull’onore e la passione,
guerrieri di ritorno con carni e canti,
una speciale stella della sera rapida visione di nascita,
Blackbird si prepara il fuoco. Fuori, un rapido
trentacinque sotto.
James Welch
(Traduzione di Gianni Menarini, “Giovani poeti americani”, Einaudi,1973)

lunedì 3 novembre 2008

SYLVIA PLATH
(1932-1963)



L’aspirante

Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l’hai?
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia.
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma,

Rattoppi o qualcosa che manca? Ah
No? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una mano

Che la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
E a fare ogni cosa che gli dirai,
La vorresti sposare?
E’ garantita,

Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore,
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme –

Un po’ rigido e nero, ma niente male,
Lo vorresti sposare?

E’ impensabile, in frantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile
Credi a me, ti ci farai sotterrare.

E adesso, scusa, hai vuota la testa
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci fuori dal guscio.
Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca.

Ma in venticinque anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare,
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare.

E funziona, non ha una magagna,
Qua c’è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?
Sylvia Plath

(Traduzione di Giovanni Giudici, “Almanacco dello Specchio” n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori)

Lady Lazarus

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
Ci riesco –

Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Un fermacarte il mio

Piede destro,
la mia faccia un anonimo, perfetto
Lino ebraico

Via il drappo
O mio nemico!
Faccio forse paura?

Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.

Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me

E io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.

Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.

Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
Si accalca per vedere

Che mi sbendano mano e piede –
Il grande spogliarello.
Signori e Signore, ecco qui

Le mie mani,
I miei ginocchi,
Sarò anche pelle e ossa.

Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.

Ma la seconda volta ero decisa
A insistere,a non eccedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.

Morire
E’ un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.

E’ facile abbastanza da farlo in una cella.
E’ facile abbastanza da farlo e starsene lì.
E’ il teatrale

Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale
Urlo divertito e animale:

“Miracolo!”
E’ questo che mi ammazza,
C’è un prezzo da pagare

Per spiare
Le mie cicatrici, per auscultare
Il mio cuore . eh sì, batte.

E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po’ del mio sangue

O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor
Eh sì, Herr Nemico.

Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creatura d’oro puro

Che a uno strillo si liquefa.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.

Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate-

Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.

Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.

Dalla cenere io rinvengo
Con le mie ossa chiome
E mangio uomini come aria di vento.
Sylvia Plath

(Traduzione di Giovanni Giudici, Almanacco dello Specchio n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore)
Questi due testi sono il resoconto poetico di vari suicidi tentati dalla Plath, uno dei quali, riuscito la mattina dell’11 febbraio 1963. “Taluni critici” scrive Giovanni Giudici nella introduzione e traduzione di Lady Lazarus, otto poesie, su l’Almanacco dello Specchio,“tendono spesso a considerare il suicidio di un poeta come corollario e addirittura parte integrante dell’opera, che ne diventerebbe, pertanto, una o più o meno consapevole preparazione. – Nel caso della Plath (che quando ci riuscì era già al terzo tentativo) ciò potrebbe apparire quasi vero alla lettura dei testi. Ma potrebbe valere anche l’ipotesi contraria che la presenza del tema –suicidio- o – autocancellazione- in alcune delle sue poesie più riuscite fosse in effetti un modo rituale di esorcizzare l’irrazionale del cupio dissolvi; la poesia è spesso finzione scenica dove il tanto parlare di morte può significare in realtà un disperato amore del vivere”


ROBERT LOWELL
(1917 – 1977)


Alla mamma


Sono venuto una terza volta
a vivere nella tua Boston, austera e lussuosa,
ho quasi alzato il telefono per comporre il tuo numero,
dimenticando che non hai numero.
Il tuo umorismo esagitato,
l’opposto che all’inglese,
l’opposto di divertente per un figlio,
adesso è mio-
il tuo sangue scattante, la voglia di vita sul tuo viso,
la riluttante increspatura di dramma della voce.

Eri
Josephine Beauharmais, la femme militaire.

I gibbosi marciapiedi di mattoni di Harward
mi danno dei bei calci,
come se avessero il permesso dell’età,
persone che camminavano o inghiottivano a stento,
quando ero studente,
digrignano i denti arrabbiati come vecchi scoiattoli
con bende di capelli bianchi attorno alle orecchie.
Mi vedo cambiare nei cambiamenti dei miei amici –
possa io vivere più a lungo, ma non battere alcun primato.
Diventando noi stessi,
perdiamo il nostro sangue freddo per i bambini.

Una pianta scadente può ravvivare tutta una stanza –
Le tue non erano scadenti – bulbo, guaina, stelo seducente,
il giglio che alza la sua bandiera un momento
corrugandosi sulla ghiaia bianca di un vaso più bianco.
Il tuo salotto era un rimprovero. Vorrei essere là con te,
senza contare i minuti, ma non per sempre –
come tuo solito, sfioravi mensola e ringhiera
con l’indice d’un guanto immacolato in cerca di polvere.

“Perché continuiamo a aspettarci che la vita sia facile,
quando sappiamo che non lo sarà mai?”

Mi piaceva sentire scandali su di te. Molto veniva
dagli altri, le tue compagne di scuola, ora polvere anch’esse.

Mi ci è voluto il tempo da quando sei morta
per scoprire che sei umana come me…..
se io lo sono.
Robert Lowell

(Traduzione di Francesco Rognoni, su “Poesia”, anno XV, Gennaio 2002, n. 157)
T.S. ELIOT
(1888-1965)


La sepoltura dei morti

Aprile è il mese più crudele, genera
Lilla da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese, giungendo sulla Stamberggersee.
Con uno scroscio di pioggia, noi ci fermammo sotto il colonnato,
E proseguimmo alla luce del sole nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
E quando eravamo bambini stavamo presso l’arciduca,
Mio cugino, che mi condusse in slitta,
E ne fui spaventata. Mi disse, Marie,
Marie,tieniti forte. E ci lanciammo giù.
Fra le montagne, là ci si sente liberi.
Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud.

Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra, nessun suono d’acque.
C’è solo ombra di questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.

Frich weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind
Wo weilest du?

“Fu un anno fa che mi donasti giacinti per la prima volta,
Mi chiamarono la ragazza dei giacinti”.
Eppure quando tornammo, a ora tarda, dal giardino dei giacinti,
Tu con le braccia cariche, con i capelli madidi, io non potevo
Parlare, mi si annebbiavano gli occhi, non ero
Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio,
Il cuore della luce
Oed’ und leer das Meer.

Madame Sosostris, chiaroveggente famosa,
Aveva preso un brutto raffreddore, ciononostante
E’ nota come la donna più saggia d’Europa,
Con un diabolico mazzo di carte. Ecco qui, disse,
La vostra carta, Il Marinaio Fenicio Annegato
(Quelle sono le perle che furono i suoi occhi. Guardate!).
E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce,
La Dama delle situazioni.
Ecco qui l’uomo con le tre aste, ecco la Ruota,
E qui il mercante con un occhio solo, e questa carta,
Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso,
E che a me non è dato vedere. Non trovo
L’impiccato. Temete la morte per acqua,
Vedo turbe di gente che cammina in cerchio.
Grazie. Se vedete la cara Mrs. Equitone,
Ditele che le porterò l’oroscopo io stessa:
Bisogna essere così prudenti in questi giorni.

Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano,
E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano
Su per il colle e giù per la King William Street,
Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con morto suono sull’ultimo tocco della neve.
Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson!
Tu che eri a Mylae con me, sulle navi!
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?
Oh, tieni il cane a distanza, che è amico dell’uomo,
Se non vuoi che con l’unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto!
Tu hypocrite lecteur! – mon semblable – mon frère”!
T.S Eliot

(da:La terra desolata. Trad. di Roberto Sanesi, Mondadori, luglio 1974)
WALLACE STEVENS
(1879-1955)


1

Ma nell’Europa centrale
le pannocchie dei campi
hanno la forma fluida
delle onde del sonno

per contrastare i galli e i gerani
che cantano nelle ore più tremende

e poi
si può guardare la luce
con il necessario per attendere
l’alba
mentre i pensieri sul letto
come minute di poesia:

farsi rimordere la coscienza
per il male compiuto
e forse non è neppure ben descritto
questo angolo affascinante
del novecento
Wallace Stevenson

(Traduzione di Gregorio Scalise su “Poesia”, anno VI, gennaio 1993, n. 58)

La donna al sole

E’ solo che questo calore e movimento sono come
Il calore e il movimento di una donna.

Non è che ci sia un’immagine nell’aria
Né l’inizio o la fine di una forma:

C’è il vuoto. Ma una donna d’oro compatto
Ci brucia col tocco della veste.

E’ un’abbondanza dissociata d’essere,
Più definita per ciò che è lei-

Perché lei è disincarnata,
E porta l’odore dei campi estivi.

E confessa il taciturno e insieme indifferente.
Invisibile ma chiaro, il solo amore.

Wallace Stevens

(Traduzione di Nadia Fusini, su “Poesia”, anno VI, gennaio 1993, n. 58)




EDGAR LEE MASTERS

(1868-1950)




La collina

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
il debole di volontà, il forte di braccia,
il buffone, il beone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,
uno arse nella miniera,
uno fu ucciso in una rissa,
uno spirò in galera,
uno cadde da un ponte faticando per moglie e figli-
Tutti, tutti, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith,
il cuore sensibile, l’anima candida, la rumorosa,
l’orgogliosa, la felice?-
Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di parto vergognoso,
una di amore contrastato,
una per mano di un bruto in un bordello,
una d’orgoglio infranto inseguendo la follia del cuore,
una dopo una vita, lontano, a Londra e Parigi
fu riportata al suo piccolo spazio vicino a Ella, Kate e Mag-
Tutte, tutte, dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono zio Isaac e zia Emily,
e il vecchio Towmy Kinkaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva parlato
con uomini venerabili della rivoluzione?-
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Li riportarono figli morti dalla guerra,
e figlie prostrate dalla vita,
e i loro bimbi orfani, in pianto.
Tutti, tutti, dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dov’è Jones, il vecchio violinista
che giocò con la vita tutti i suoi novant’anni,
sfidando il nevischio a petto nudo,
bevendo, strepitando,
non pensando né a moglie né a famiglia,
né all’oro, né all’amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia di pesce fritto d’altri tempi,
delle corse di cavalli di tanti anni fa
al Boschetto di Clary
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.
Edgar Lee Masters

(da:Antologia di Spoon River, traduzione di Luciano Paglialunga, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996)

Il Giudice Somers

Come si spiega, ditemi,
che io, il più erudito degli avvocati,
che conoscevo Blackstone e Coke
quasi a memoria, che pronunciai la più bella arringa
che mai la Corte avesse udito, e scrissi
un esposto che meritò l’elogio del giudice Breese-
come si spiega, ditemi,
che io giaccio qui senza un segno, dimenticato,
mentre Chase Henry, l’ubriacone del paese,
ha un cippo di marmo, con sopra un’urna,
dove la Natura con irridente malizia,
ha fatto crescere una malerba tutta fiorita?
Edgar Lee Masters

(da:Antologia di Spoon River, traduzione di Luciano Paglialunga, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996)

Francis Turner

Non potevo né correre né giocare
da ragazzo.
Da adulto potevo soltanto sorseggiare dalla coppa,
non bere-
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
confortato da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe, di pergole dolci di viti –
là quel pomeriggio di giugno
a fianco di Mary –
baciandola con l’anima sulle labbra
d’improvviso l’anima prese il volo.
Edgar Lee Masters

(da: Antologia di “Spoon River”, Traduzione di Luciano Paglialunga, Piemme, Casale Monferrato, 1996)

POESIA IRLANDESE
John Montague


(1929)






La gabbia

Mio padre, l’uomo meno felice
ch’io abbia conosciuto. Il suo viso
serbava il pallore
di chi lavora sotto terra:
gli anni di Brooklyn perduti
a sentirsi scuotere il pavimento
dai treni del metrò.

Ma, irlandese tradizionale,
dimesso dal suo sportello
(dell’I.R.T. di Clark Street)
beveva whiskey liscio, finché
raggiunse l’unico elemento
in cui ormai si sentisse
a suo agire: oblio brutale.

Eppure si tirava in piedi
quasi tutte le mattine
per marciare giù per la strada
prodigando il suo sorriso
in ogni direzione al vicinato
buono (non negro)
al rintocco della chiesa di Santa Teresa.

Quando tornò
andammo a passeggiare insieme
nei campi di Garvaghry
per vedere il biancospino sulle siepi
estive, come se
non fosse mai partito,
era una curva della strada
che ancora custodiva
delle primule. Ma
non sorridemmo
nella condivisa complicità
di un sogno perché quando
lo stanco Odisseo ritorna
Telemaco deve andarsene.

Spesso quando scendo in una
Metropolitana, americana o inglese,
vedo la sua testa calva
dietro le sbarre della piccola edicola,
con il segno di un vecchio incidente
d’auto che gli pulsa
sulla fronte spettrale.
Johnn Montague
(Traduzione di Ottavio Di Fidio: da “Una luce eletta”, Poesia, anno III. N. 50, giugno 1990, Crocetti Editore)





THOMAS KINSELLA

(1920)

Assenzio

L’ho sognato ancora: improvvisamente fermo
Sto in una macchia, tra alberi umidi, attonito, minutamente
Tremante, e sento un’eco legnosa fuggire.

Il terreno muschioso, quasi incolore, scompare
Nelle piovose profondità tra le forme arboree.
Sono tutto teso ad assaporare quell’eco un secondo di più.

Familiare se solo riuscissi a trattenerla….se solo ci riuscissi…
Un albero neo dal doppio tronco- due alberi
Fusi in uno- innalza indistinti i suoi rami.

Crescendo in un’infinitesima danza i due tronchi
Si sono attorcigliati l’uno all’altro, connessi
In lenta voluta da una cicatrice….che riconosco….

Veloce un arco lampeggia fendendo l’aria,
Una pesante lama vola. Un colpo legnoso:
Ferro s’affonda nella polpa mozzandole il fiato.
Lo sognerò ancora.
Thomas Kinsella
(Traduzione di Riccardo Duranti, su Almanacco dello Specchio, n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori, 1976)


SAMUEL BECKETT

(1906-1989)



Sanies II
C’era un paese felice
L’American Bar
di Rue Mouffetard
c’erano delle uova rosse lì
il vapore la delizia il sorbetto
lo chagrin dei vecchi pelle e ossa
sgangherato corpo felice
perso nel mio vecchio vestito lurido
navigando barcollando su fino a Puvis il guantone di tulipano
frusta frustami con tulipani gialli mi tirerò giù
questi luridi vecchi pantaloni
il mio amore mi ha cucito vive le tasche vive-oh davvero disse meglio così
immacolato poi entro gli stracci marroni scivolando
verso l’affresco risalendo libero il fiordo di uova tinte e strisce di cuoio con
campanelli
sparisco pensate nel locale
i ruffiani giocano a bigliardo eccoli che gridano i punti
la Barfrau fa molta impressione col suo potente didietro
ci sono Dante e la beata Beatrice
prima della Vita Nuova
le palle cozzano scalogna amico
Gracieuse è la Belle-Belle giù nello scarico
Percinet stivalato colla mascella al cobalto
fanno giochi ingobbia-ingobbia
succhia succhiare non cambia nulla
L’Alighieri se n’é andato au revoir a tutto questo
crollo del tutto in una risatina di dispetto
sentite
sulla sala un terribile silenzio
un brivido sconvolge Madame de la Motte
si spande scomparsa giù lungo le sue fettine
il gran didietro schiumeggia e si calma
presto presto il cavalletto i i mollatori per il rito
vivas puellas mottui incurrrrsant boves
oh subito subito prima che rinvenga la gogna bambù per la bastonatura
una luna amara sculacciata alla moda
oh Becky smetti non ti ho fatto niente smettila maledetta
smettila mia buona Becky
metti via le tue vipere Becky, ti pagherò lo stesso
Signore abbi pietà di
Cristo abbi pietà di noi

Signore abbi pietà di noi
Samuel Beckett
(Antologia poeti stranieri, Arte Domus, 1989)




sabato 1 novembre 2008

POESIA INGLESE
BRIAN PATTEN
(1946)


La confessione del piccolo Johnny

Questa mattina
mi sentivo piuttosto giovane e sciocco
ho preso la mitragliatrice che mio padre
aveva nascosto dalla guerra, sono uscito
e ho eliminato un certo numero di piccoli nemici.
Da allora non son più tornato a casa.

Questa mattina
una folla di poliziotti con cani da fiuto
vagabondano per la città
con i miei connotati stampati
nella mente, chiedono:
L’avete visto?
Ha sette anni,
gli piacciono Pluto, Topolino il Grande
e Biffo l’Orso,
l’avete visto da nessuna parte?

Questa mattina
seduto solo in uno strano campo da gioco
borbottando hai commesso un errore, hai commesso un
errore
continuamente tra me
medito sulla mia prossima mossa
e non posso muovermi.
I cani da fiuto mi scoveranno
Essi hanno i miei lecca lecca.


Brian Patten
(Traduzione di Perla Cacciaguerra, da:” Il piccolo Johnny fa un viaggio in un altro pianeta”,Almanacco dello Specchio, n.5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori, 1976)
HEANEY SEAMUS
(1939)


La metropolitana

Fu qui, sotto la volta del tunnel,
tu a correre davanti nel tuo cappotto da viaggio,
io dietro come un agile dio per raggiungerti
prima che ti mutassi in giunco

o in qualche nuovo fiore, bianco
e carminio. Caddero dal cappotto svolazzante
uno a uno i bottoni in breve traccia
tra metropolitana e Albert Hall.

Luna di miele sotto la luna, per il concerto
tardi, e muore l’eco dei nostri passi. Ora
pietre di luna torno come Hànsel a cercare,
il cammino a ritroso percorro,

come Hànsel raccolgo i tuoi bottoni
fra il vento e fioca luce di stazioni.
Partiti i treni, umide le rotaie
nude e tese a seguirti come me

e dannato io sia se guardo indietro.


Heaney Seamus
(Traduzione di E. Esposito, da”Poesia del Novecento in Italia e in Europa, Feltrinelli,2000)