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mercoledì 24 ottobre 2012

POESIA GRECA

 GHIANNIS RITSOS
(1909-1990)



da Delfi


[...] Ma a cosa serve tutto questo?

A volte queste colonne, nel sulfureo chiaro di luna, somigliano
ai denti rotti di un dio gigantesco, e le gradinate del teatro
sono come le mascelle nude di giganti morti,
mascelle nude, calme e indifferenti
senza ormai piú l’avvilente necessità
del cibo, del bacio, del grido, senza piú
l’umiliazione della sconfitta, l’alterigia della vittoria, solo
Con l’immobile e impersonale vittoria della nudità.

A cosa serve dunque tutto questo? – commenti, ripetizioni,
interpretazioni, traduzioni, reviviscenze, imitazioni?
Questo pomeriggio ho notato
sui marmi del teatro antico eretti
i nostri scenari contemporanei, dappoco, di cartapesta
e iuta verniciate,
nella luce del giorno che smoriva; – colonne di cartapesta,
fiaccole di cartapesta per una rappresentazione di Eschilo
o di Euripide, – non ci ho fatto caso;
finiva lo spettacolo; gli spettatori applaudivano,
schiamazzavano,
si accalcavano già verso l’uscita, compravano ceci
abbrustoliti
mentre il tramonto tingeva di rosa le ombre e i marmi.

Pure, su tutto il trambusto e la confusione, sulle traduzioni,
diresti che rimane integro e inalterato il grido silenzioso
dell’Intraducibile,
grido inudibile, profondo, imperioso, lontano, estraneo,
eppure nostro; – grido che ti rinnova
il desiderio di tradurlo; e scopri già
una dolce affinità tra la luce della sera e i marmi,
tra le povere colonne di cartapesta e il tempio di Apollo,
tra le maschere antiche, i coturni, gli scettri
e questi bastoni dei contadini
e i fazzoletti neri delle madri [...].

Ghiannis Ritsos
Delfi. La sonata al chiaro di luna
traduzione a cura di Nicola Crocetti
introduzione di Moni Ovadia
Crocetti Editore 2012

martedì 18 settembre 2012

POESIA ITALIANA


ENRICO CERQUIGLINI
(1962)

La fuga di dio


                                    A mio padre, morto, per il mondo, il 21 marzo 1999

Restai fuori, padre, quando scese la porta
a serrare il sentiero azzurro.
Fuori smarrito sangue tra barba e petto.
Escluso dal silenzio,
ho sentito chiara la tua voce – amara come questa notte –,
in balìa di sensi e di croci.
Escluso da tutto – inappartenente giglio senza colore –
tranciato da ogni respiro, inadatto a reggere il libro,
barcollante senza simili in cui specchiarmi,
solo senza consolazione nel coltivare disperanza e
dolore.
Padre, se vuoi, disserra quella porta, una sola volta:
furtivo scivolerò nel silenzio
rannicchiato nel buio.

Padre, rendimi al nulla.

Enrico Cerquiglini
(da: Fine Attività, 2008)

sabato 15 settembre 2012

POESIA ITALIANA

Roberto Roversi
(1923-2012)


V.


La miseria d’Italia numero cinque una nuvola
molto bianca una nuvola bianca
calando all’improvviso molto bianca – bianca
ha divorato il gatto steso grigio in un sole autunnale
guardava la gente passare e la gente
nella sottostante strada dentro il traffico domenicale.
Via la nuvola il gatto l’ha stretta fra i denti ciabattando
furtiva
come la scia di una nave che si addentra cauta nel
porto lasciando le onde grandi del mare
io vedo come accadono le cose fiorite o sfiorite
sono lacrime di una piccola suora diseredata
ma so che cavalco sulla lama della spada
tagliente e la luce sanguina.
Anche la foglia nell’aria non ha più speranza di vita.
Mi domando dove trovare il tempo sapere negli anni che
durano un giorno
per continuare lo scavo dentro la terra di sassi e toccare
la buona radice del pioppo sovrano
tutto è livellato oramai piallato appiattito.
Sovrana la solitudine della grande campagna conduce
la danza
l’uccello nero cala gridando sul solco
per il terrore della navicella spaziale che fulmina
l’aria tracciando ferite di giallo.
Milioni di chilometri e Giotto il pittore divino
si muove fra le pecore dello spazio
tocca gli astri non si brucia le mani
potrà dipingere ancora il mondo
ricordare il buio di dio
riconoscere l’occhio dell’uomo da quello della serpe.
Invadere col fuoco l’infinito così lieto e vicino
senza bruciarlo.

Roberto Roversi
da "Poesia al fuoco della Storia"

mercoledì 4 luglio 2012

POESIA NIGERIANA

Wole Soyinka
(1934)




CONVERSAZIONE TELEFONICA

Il prezzo sembrava ragionevole, il luogo
indifferente. L'affittuaria aveva giurato di vivere
fuori sede. Non rimaneva nulla
se non la confessione. "Signora" avvisai,
"detesto buttar via tempo in viaggi inutili - sono africano."
Silenzio. Trasmissione zittita di
buone maniere pressurizzate. La voce, quando venne,
spalmata di rossetto, pigolio di lungo
bocchino dorato. Ero stato beccato, che imbecille.
"QUANTO SCURO?"... Non avevo sentito male... "LEI È CHIARO
O MOLTO SCURO?" Bottone B. Bottone A. Tanfo
di respiro rancido di pubblico nascondino telefonico.
Cabina rossa. Cassetta rossa. Autobus rosso
a due piani che schiaccia l'asfalto. Era vero! Svergognata
dal silenzio scortese, la resa
spinse lo stupore a pregare semplificazione.
Lei era piena di riguardo, variando l'enfasi -
"LEI È SCURO? O MOLTO CHIARO?"
Venne la rivelazione.
"Lei intende - come cioccolato semplice o al latte?"
Il suo assenso era clinico, schiacciante nella propria leggera
impersonalità. Rapidamente, regolatomi a quella lunghezza d'onda,
scelsi. "Seppia Africano occidentale" e come pensiero aggiunto,
"Come dice il mio passaporto." Silenzio per spettroscopico
volo di fantasia, fino che la sincerità fece risuonare il suo duro
accento sulla cornetta. "COS'E'?" concedendo
"NON HO IDEA DI COSA SIA." "Tipo castano."
"È SCURO, GIUSTO?" "Non del tutto.
Di faccia, sono castano, ma signora, dovrebbe vedere
il resto di me. Il palmo della mia mano, le piante dei miei piedi
sono di un biondo ossigenato. Lo sfregamento, dovuto -
che stupido pazzo - allo starmene seduto, ha reso
il mio sedere nero corvino - un momento, signora!"- percependo
il suo ricevitore rizzarsi in un fragore di tuono
fin nelle orecchie: "Signora," supplicai, "non vorrebbe piuttosto
controllare di persona?"

Wole Soyinka

(tratto da poesieracconti.it)


giovedì 21 giugno 2012

POESIA ITALIANA

GIOSUE' CARDUCCI
(1835-1907)


 
DAVANTI SAN GUIDO

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino -
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!

Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei -
Guardando io rispondeva - oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è più quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.

E massime a le piante. - Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol;
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;

E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà.

Ed io - Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La Tittì - rispondea -; lasciatem'ire.
È la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano!

Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? -
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò

Giosuè Carducci
(dalla raccolta Rime Nuove)



lunedì 28 maggio 2012

POESIA AMERICANA

SHARON OLDS
(1942)


Morte e morale


Il morire di mio padre non è cosa malvagia.
Non è un bene e non è un male,
è al di fuori del mondo morale, completamente.
Quando le infermiere svuotano il sacchetto del suo catetere,
versando il pallido, ambrato liquido
nella tazza graduata dell’ospedale, non è
né bene né male, è solo
il corpo. Anche il suo dolore, quando il viso
si contrae, e la bocca fa come uno schiocco risucchio
quando le mascelle arretrano
non è qualcosa di cattivo, nessuno gli sta facendo questo,
non c’è colpa e non c’è vergogna,
c’è solo piacere e dolore. Questo
è il mondo dove ha vita di sesso, il mondo
dei nervi, il mondo senza chiesa,
noi lo baciamo in questo luogo, gli pettiniamo indietro i capelli
ingelatinati, sua moglie e io, una
per lato, puliamo il rivolo di
saliva come argilla d’avorio dal lato della sua bocca.
Il suo corpo sente che ci occupiamo di lui
fuori dal mondo della morale, come se
facessimo l’amore con li nei boschi
e sentissimo, lontano, in un campo,
gli inni distanti di un raduno,
più piccoli delle più piccole gocce di rugiada
dei boschi verde scuro sul suo corpo mentre ci abbassiamo per toccarlo.


Sharon Olds
(da Poeti americani - Einaudi - Traduzione di Elisa Biagini)

martedì 1 maggio 2012

POESIA RUSSA

TIMUR KIBIROV
(1955)

Gli anni passeranno. Rammenterai.
E proprio questo alloggio,
il mobilio di compensato e il cavallo
di plastica, e il mio quaderno.

Dove cerco di fissare
tutto questo, e le calosce fradicie
sul calorifero, e il vicino Gosa
e Tomik che si ostina  a pisolare

fra le fresche lenzuola – saranno per te un paradiso.
E luminosa e irraggiungibile
questa meschina e stolida vita,

dove con mamma si bisticcia, e si parla,
contando i rubli, e si dimentica la vergogna
mentre Mnemosine lei continua la sua opera.

Timor KIBIROV
(traduzione di  N. Cicognini da:Poesia del Novecento in Italia e in Europa, a cura di Edoardo Esposito, Feltrinelli Editore, 2000)

giovedì 5 aprile 2012

POESIA BULGARA

MIRIANA BASHEVA
(1947)

UN CARATTERE DIFFICILE (TEZHÂK HARAKTER)

Come una pietra al collo,
come il segno di un coltello,
come un velo nero,
un soldo di rame antico,
io ti porto sempre addosso,
non importa se mi pesi
dalla testa ai piedi,
non importa se soffro!
Come il segno di una magia,
pozione per la mia febbre,
come la forte rakia,
un dado bianco, già gettato -
con il freddo, con il fuoco - tutta la vita -
ti giuro o ti benedico,
buongiorno e addio,
amor morboso mio.
Miriana Basheva (1976)

[Traduzione dal bulgaro: Antonia Tzenova]

sabato 24 marzo 2012

POESIA ITALIANA


VASCO PRATOLINI
  (1913-1991)


 
                                     A Luigi Incoronato
Aprile

Con questo tuo figlio che lasciai bambino,
il nastro nero alla manica dell’impermeabile,
abbiamo parlato di te ma a strappi.

Come un fiero segreto.
Tu hai”concluso”, certo, ma credi di aver risolto,
davvero credi che resistere sia facile e “andare avanti”,
non dico per noi, per tuo figlio, meno doloroso?
Domani si laurea, farà il magistrato, hai ragione, forse
ragazzi come lui porteranno giustizia ed è stato
utile vivere questi anni che sono cresciuti.
Vasco Pratolini
da: Almanacco dello Specchio Mondadori  n. 4 -1975


Dicembre

Non  c’è bilancio
Un anno come oggi qui a Torino
si stringe il gelo tra le dita.
Mirafiori ribolle  d’un’ira che adesso
oltre a  conoscerle domina le sue ragioni.
Ieri il cane morto
ai piedi del gran pino era una presenza
Vigilante su Casa Lama dove brindavamo
con vecchi amici.

C’è solo aspettazione.
L’unica certezza è che domani non sarà un altro giorno
come tanti.

Vasco Pratolini

giovedì 1 marzo 2012

Omaggio a Lucio Dalla


Lucio Dalla era un musicista originale, di grande valore che ha inventato uno stile italiano e anche napoletano. Per lui succederà quello che è successo con Gaber e De Andrè: le sue opere migliori verranno studiate e apprezzate, si capisce che è nuova letteratura e poesia”. (Renzo Arbore)



POESIA SPAGNOLA

LUIS GARCIA MONTERO
(1958)


Nei giorni di pioggia

III

Ci visita l’amore. La casa possiede
una memoria cieca
di sole sulle braccia
e la passione, arida d’erba, sulla pelle.

Dobbiamo veramente abbracciarci
in questa mattina grigia d’ogni nostalgia
e patteggiare con la luce
che comincia a disturbarci
sotto le porte
come un guardone nascosto
che dobbiamo sopportare.

Sono troppe cose
.
Si vede che il tempo vola indifferente,
a noi estraneo
che abbiamo parlato tanto della vita
per giungere in tempo ai suoi occhi aperti,
al suo capezzolo rosato
e alla bella volta dei corpi
che cercavamo insieme,
impetuosamente,
aprendo cerniere
con l’impazienza propria degli innamorati.

Il sole
che sembra l’esitante carne delle tue labbra
si avvicina strisciando e mi ricorda
che è ancora possibile rincorrerci
mentre si spengono lente le ultime stelle.

Prima che tu nascessi ed io nascessi
qualcuno dovette vivere in queste stanze,
sopportarle come le settimane,
riempirle di desideri realizzati a metà.

Gente di solitudine.

Forse sarà tutto valso
se un giorno...

Noi
ormai niente abbiamo creato, neppure un focolare.

È più saggio l’amore quando nasce,
quando si incomincia a sentire il mattino,
per il lungo, deserto cammino della tua pelle.

Traduzione di Gabriele Morelli 
in edicola a Marzo  
Poesia n. 269 Marzo 2012 
Luis García Montero La poesia complice 
a cura di Gabriele Morelli
Fondazione Poesia Onlus 2012


venerdì 17 febbraio 2012

POESIA PORTOGHESE

MANUEL ALEGRE
(1936)


Un profumo di nardo

In verità ti dico: Non
mi aspetto l’eternità. E so
che nessun verso vince la morte.

Cerco appena un segno
un ritmo che mi ridia
l’impercettibile respiro della terra.

Forse i capelli di Maria
sorella di Marta
che m’asciugano i piedi.

Perchè tutte le poesie sono mortali
e quel che resta è forse
un profumo di nardo. E niente più
.

Traduzione di Giulia Lanciani
da Poesia - Numero Speciale per iPad

giovedì 26 gennaio 2012

POESIA INGLESE

WILLIAM BLAKE
(1757-1827)


Sono stato nel giardino dell’Amore
E ho visto cose che non avevo mai visto
Una cappella si ergeva al centro
Nel posto in cui spesso giocavo sull’erba,

E i cancelli erano chiusi
E c’era scritto: Tu non devi;
Così sono tornato al giardino dell’Amore
Che è ricco di dolci fiori;

E ho visto che era pieno di tombe
E di pietre dove invece dovevano esserci i fiori,
e preti vestiti in nero vi giravano intorno
frenando con i rovi tutte le mie gioie e i miei desideri.
 
William Blake
(Libera traduzione di Ernesto  Serra da The Garden of Love)