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venerdì 19 dicembre 2008

POESIA PERUVIANA
CESAR VALLEJO
(1892-1938)

Trilce

III

I grandi
a che ora torneranno?
Batte le sei il cieco Santiago
ed è già molto buio.

Mamma ha detto che non farà tardi.

Aguedita,Nativa,Miguel,
attenti a non andare di là, dove
sono appena passati accascianti dolori
borbottando i loro ricordi,
verso il cortile in silenzio, e dove
le galline che ora vanno a dormire
si sono tanto spaventate.
E’ meglio che ce ne stiamo qui.
Mamma ha detto che non farà tardi.

Non stiamo in pena. Piuttosto guardiamo
le navi, la mia è più bella di tutte!
con cui giuochiamo tutto il santo giorno
senza litigare, da bravi:
son rimaste nella cisterna, già preparate,
cariche di dolci per domani.

Aspettiamo così, ubbidienti – tanto
è inutile- il ritorno e le scuse
dei grandi sempre pronti
a lasciare in casa noi piccoli,
come se pure noi
non potessimo partire.

Aguedita, Nativa, Miguel?
Chiamo cerco a tentoni nel buio.
Non mi avranno lasciato solo
e l’unico rinchiuso sarò io.
Cèsar Vallejo

(Traduzione di Martha Canfield, su “Poesia”, anno V, settembre 1992, n. 54, Crocetti Editore)

Gli araldi neri

Ci sono colpi nella vita, così duri….Non so!
Colpi come dell’odio di Dio, come se dinanzi a loro
la risacca di quanto si è sofferto
divenisse pozzanghera nell’anima….Non so!

Sono pochi; ma sono…. Aprono oscuri solchi
nel volto più feroce, nella schiena più forte.
Forse sono i cavalli di barbari attila
o gli araldi neri che ti manda la Morte.

Sono le cadute a fondo dei Cristi dell’anima,
di una fede adorata che il Destino bestemmia.
Questi colpi cruenti sono il crepitare
di un pane che brucia alla bocca del forno

E l’uomo…. Povero….povero! Gira gli occhi, come
quando sulla spalla una mano ci chiama;
gira gli occhi folli, e tutto il suo vissuto
si raggruma, pozzanghera di colpe, nello sguardo.

Ci sono colpi nella vita, tanto duri….Non so!
César Vallejo
(Traduzione di Marha Canfield, su:”Poesia” anno V, settembre 1992, n.54, Crocetti Editore)

giovedì 18 dicembre 2008

POESIA MODERNISTA SPAGNOLA
PEDRO GIMFERRER
(1945)



Nelle cabine telefoniche
Nelle cabine telefoniche
ci sono misteriose iscrizioni disegnate con il rossetto.
Sono le ultime parole delle dolci ragazze bionde
che con la scollatura insanguinata si rifugiano lì per morire.
Ultima notte sotto il pallido neon, ultimo giorno sotto il sole
allucinante,
strade appena annaffiate con magnolie, fari giallognoli,
delle macchine di pattuglia all’alba.
Ti aspetterò all’una e mezza all’uscita dal cinema –
e a quell’ora è già morta nell’Obitorio quella il cui corpo
era un ramo d’orchidee.
Ferita in sparatorie notturne, incalzata per strada dai
riflettori, schiaffeggiata nei nights clubs,
il mio vero e dolce amore piange tra le mie braccia.
Un ultimo chiarore, il più sottile e nitido,
sembra scivolar fuori dai locali chiusi:
questa luce che trattiene i passanti
e gli parla dolcemente dell’infanzia.
Musiche di altri tempi, canzone al ritmo delle cui vecchie
note conoscemmo una sera Ava Gardner,
ragazza avvolta in un impermeabile chiaro che baciammo
una volta in ascensore, al buio tra un piano e l’altro, e
aveva gli occhi molto azzurri, e parlava sempre a voce
bassa, si chiamava Nelly.
Chiude gli occhi e ascolta il canto delle sirene nella notte
inargentata di annunci luminosi.
La notte ha caldi viali azzurri.
Ombre abbracciano ombre in piscina e bar.
Nell’oscuro cielo combattevano gli astri
quando morì d’amore
ed era come se odorasse lentissimamente
un profumo.
Pedro Gimferrer
(Traduzione di R. Rossi, su”Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito, Feltrinelli, 2000)

venerdì 12 dicembre 2008

POESIA GRECA
TITOS PATRIKIOS
(1928)
Debito
Tra tutta questa morte che è venuta e viene,
guerre, esecuzioni, processi, morte e ancora morte
malattie, fame, fatalità fatali,
amici e nemici assassinati da sicari,
stroncature sistematiche e necrologi pronti,
la vita che vivo è quasi un dono.
Un dono della sorte, se non un furto della vita altrui,
perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto
ma colpí l’altro corpo che si trovò al mio posto.
Cosí, come un dono immeritato, mi fu data la vita,
e tutto il tempo che mi resta
è come se mi fosse stato regalato dai morti
per narrare la loro storia.
Novembre 1957
Traduzione di Nicola Crocetti
Titos Patrikios -La resistenza dei fattia cura di Nicola Crocetti
Crocetti Editore 2007



giovedì 11 dicembre 2008

GIORGIO SEFERIS
(1900-1971)


La casa vicino al mare

Le case che avevo me l’hanno prese. Capitarono
Annate bisestili, guerre disastri deportazioni;
a volte il cacciatore incontra uccelli di passo
a volte non incontra; la caccia
era buona ai tempi miei; quante vittime fecero le pallottole;
gli altri vanno qua e là o impazziscono nei rifugi.

Non parlarmi dell’usignolo né dell’allodola
neppure della piccola cutrettola
che disegna cifre con la coda alla luce;
non so molto di case
so che appartengono ad una razza e nient’altro.
Sono nuove da principio, come bambini
che giocano al giardino con le frange del sole,
ricamano scuri di finestre variopinti e porte
tirate a lustro sullo sfondo della giornata;
quando l’architetto le ha finite esse cambiano,
s’aggrinzano e sorridono oppure fanno dispetti
a chi ci è rimasto a chi è partito
a chi sarebbe tornato potendolo fare
o è sparito ora che il mondo intero
è diventato un grande albergo.

Non so molto di case,
ricordo la loro gioia e la loro tristezza
talvolta, quando mi fermo;
o anche
talvolta, vicino al mare, in camere spoglie
con un letto di ferro senza nulla di mio
fissando il ragno della sera mi figuro
che qualcuno sta per venire, lo vestono
di abeti neri e bianchi e di monili colorati
e intorno a lui parlano a bassa voce dame venerande,
capelli grigi e merletti scuri,
che sta per venire a darmi l’addio;
oppure una donna dalla cintola profonda che batte le ciglia
al ritorno da porti meridionali.
Smirne Rodi Siracusa Alessandria,
da città chiuse come imposte calde,
con profumi di frutti d’oro e di erbe,
mentre sale i gradini senza guardare
quanti s’addormentarono sotto la scala.

Sai, le case fanno dispetti volentieri, se tu le spogli.
Giorgio Seferis

(Traduzione di Mario Vitti da: Kichli, su Poesia, anno III, numero 25, gennaio 1990, Crocetti Editore)


martedì 2 dicembre 2008

CONSTANTINOS KAVAFIS
(1863-1933)


La città


Hai detto:”Per altre terre andrò per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento
dove il mio cuore come un morto sta sepolto
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo intorno,
della mia vita consumata, qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina”.

Non troverai altro luogo, non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
farai capo a questa città. Altrove non sperare,
non c’è nave non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
tu l’hai sciupata su tutta la terra.
Constantinos Kavafis


(traduzione di N. Risi- M. Dalmati, da”Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito, II volume, Feltrinelli, 2008)

sabato 22 novembre 2008

POESIA INDIANA
RATI SAXENA
(1954)

Le ragazze di buona famiglia

Le ragazze di buona famiglia
non fanno volare aquiloni.

Gli aquiloni hanno colori
i colori desideri
e i desideri spine.

Gli aquiloni sono carta
la carta si strappa
e il corpo diventa impuro.

Gli aquiloni hanno corde,
corde che si perdono
e la loro strada è persa allora.

C’è come un volo negli aquiloni
che combattono le nubi
sino a spezzarsi i nervi.

Così ragazze di buona famiglia
non fanno mai volare aquiloni.
Rati Saxena


(Le serpent tout entier, da: "One window and eight bars". Traduzione dall' inglese a cura di Federico Federici. Cantarena, 2008, edizioni in tre lingue: Hindi, Inglese, Italiano)



Quando lui suona il tamburo

Quando lui prende il tamburo
l’acqua a mare evapora
e sulla sua fronte che gli è cara
e le gocce del sudore.

Quando batte sul tamburo
una grande stella spacca e cade,
hanno un fremito le tende alla finestra
che gli è tanto cara

questa dolce pena che lo impregna
sprizza via dal battere il tamburo
la terra si dimentica la strada

sul tetto di colei che ama
è venuto per posarsi un piccolo volatile,
piovendo dal cielo
lei stende i suoi capelli
e bagna in giro tutti gli alberi
nel suo profumo dolce

quando lui suona il tamburo.
Rati Saxena


(Le serpent tout entrier, da: "One window and eight bars". Traduzione dall' inglese a cura di Federico Federici. Cantarena, 2008, edizioni in tre lingue: Hindi, Inglese, Italiano)



La notte scorsa
i lombrichi hanno perso la strada di casa
si sono infilati in buche di serpi.
Non trovando più posto
le serpi hanno messo in subbuglio il mare.
No, non temere
nulla è accaduto ai pesci.
Sono rimaste in acqua
come in cerca di qualcosa
quasi senza nemmeno nuotare.

Nessuno ha chiamato
la terra che gorgoglia
o il cielo
o il mare.

Sono rimasta io
sveglia su un albero
la notte scorsa.
Rati Saxena


(Le serpent tout entier, da:"Mountain nights". Traduzione dall' inglese a cura di Federico Federici. Cantarena, 2008, edizioni in tre lingue: Hindi, Inglese, Italiano)


*
"Anche le mie poesie sono diverse da quelle degli altri poeti Indiani, perché scrivo in isolamento e per questo scrivo quello che è in me – senza influenze dalla poesia Hindi contemporanea. Ecco perché quello che riuscirai a capire sarà un bene per i miei versi, darà loro una dimensione nuova, perché, vedi, la traduzione potrà dare nuova vita alla poesia, i miei testi parleranno una lingua nuova con chi mi leggerà in Italia." (estratto da una lettera di Rati Saxena a Federico Federici)

POESIA CINESE
LU XUN
(1881-1936)


Separazione dei fratelli

Per vivere bisogna correre tutto il giorno,
Noi fratelli siamo costretti a separarci.
E la cosa che rattrista maggiormente,
E’ la lampada solitaria in una lunga notte di pioggia.

Ritorno a casa, ma per poco, parto di nuovo,
E la sera aggiunge maggiore dolore.
Gli innumerevoli salici lungo la strada
Sono l’immagine della sofferenza.

Ci separano sempre per un anno.
Per mille li* il vento porta la nave del viaggiatore.
C’è una parola che va ricordata,
Nello scrivere, il successo non dipende dal cielo.
*Il li è un’unità di misura corrispondente a circa 500 metri
Lu Xun

(da:”Ballate del dissenso”.Traduzione di Paolo Galvagni, su Poesia, anno V, ottobre 1992, n. 55, Crocetti Editore)


Sogni

Molti sogni sollevano frastuono nel crepuscolo.
Quando un sogno soffoca il precedente,
Dal sogno seguente viene cacciato.
I sogni passati sono neri come inchiostro.
Anche i sogni presenti sono neri come inchiostro:
E quello presente e quello passato esitanti dicono:
“ Guarda ho davvero un bel colore”.
Forse il colore è bello, nell’oscurità non si capisce,
E inoltre non si sa chi sia a parlare.

Nell’oscurità non si capisce, con la febbre e il mal di testa.
Vieni, vieni, sogno trasparente.
Lu Xun

(da:”Ballate del dissenso”. Traduzione di Paolo Galvagni, su Poesia, anno V, ottobre 1992, n. 55, Crocetti Editore)

venerdì 21 novembre 2008

Wang Wei
(699-759)
e P’Ei Ti


La conca del muro di Méng

La mia nuova casa
è all’inizio del muro di Mèng,
fra vecchi alberi
e resti di cadenti salici.
L’altro, dopo di me,
chi sarà?
Vana la sua mestizia
per questa che fu mia.

La mia nuova capanna
è sotto il vecchio muro:
a volte salgo
all’antico recinto.
Il vecchio muro
nulla ha più del passato,
uomini d’oggi, incuranti,
vengono e vanno.
Wang Wei e Pei Ti

(da: “Poesie del Fiume Wang”, Traduzione dal cinese di Martin Benedikter, Einaudi, 1972)



Il recinto dei magnoli

D’autunno il monte accoglie
gli ultimi raggi;
voli d’uccelli seguono
i primi stormi.
Bagliore di smeraldo
a tratti sparso s’accende.
La foschia della sera
non ha dove restare.

Dalla volta di luce
all’ora che tramonta il sole,
la voce degli uccelli
si confonde con l’altra, del torrente.
La verde via del ruscello
volge alla lontananza;
gioia della solitudine,
avrai tu mai fine?
Wang Wei e P’ei Ti

(da: “Poesie del fiume Wang”, Traduzione dal cinese di Martin Benedikter, Einaudi, 1972)



Il sentiero delle sofore

Sul sentiero in disparte,
al riparo delle sofore,
nel segreto dell’ombra
rigoglia il verde muschio.
Rispondono, alla porta:
appare, solo, e mi saluta, il servo.
Credevo già venuto
il monaco del monte.

A sud della porta,
lungo le sofore,
è il sentiero sul ciglio,
che mena al lago I.
Quando giunge l’autunno,
piove molto sul monte;
le foglie che cadono
nessuno le raccoglie.
Wang Wei e P’ei Ti

(da:”Poesie del fiume Wang”, traduzione dal cinese di Martin Benedikter, Einaudi, 1972)

giovedì 13 novembre 2008

POESIA AMERICANA
LOUISE GLUCK
(1949)



Il giglio d’argento

Le notti sono di nuovo fresche, come le notti
di inizio primavera, e di nuovo silenziose. Ti
disturbo parlare? Siamo
soli ora: non abbiamo ragione di silenzio.

Guarda, sopra il giardino sorge la luna piena.
La prossima non la vedrò.

In primavera, quando sorgeva la luna, voleva dire
che il tempo era finito. Bucaneve
si aprivano e chiudevano, i grappoli
di semi degli aceri cadevano in pallide ondate.
Bianco su bianco, la luna sorgeva sulla betulla.
e nella forcella, dove l’albero si divide,
foglie dei primi narcisi, al chiar di luna
un morbido argento verdastro.

Ora siamo andati troppo avanti insieme verso la fine
per temere la fine. Queste notti, non sono più nemmeno
certo
di sapere cosa vuol dire la fine. E tu che sei stata con un
uomo:

dopo le prime grida,
è vero che la gioia, come la paura, non dà suono?
Louise Gluck

(Traduzione di Massimo Bacigalupo:da “L’iris selvatico”, Poesia, anno XVI, marzo 2003, n. 170, Crocetti Editore)

Cavallo
Cosa ti dà il cavallo
che non ti posso dare io?

Ti guardo quando sei sola,
quando monti nel campo dietro la fabbrica del latte,
le tue mani immerse nella criniera scura
della giumenta.

Allora so cosa sta dietro il tuo silenzio:
disprezzo, odio di me, del matrimonio. Eppure
vuoi che ti tocco, gridi
come gridano le spose, ma quando ti guardo vedo
che non ci sono bambini nel tuo corpo.
Allora cosa c’è?

Niente, penso. Solo fretta
di morire prima che muoia io.

In un sogno, ti ho osservata montare il cavallo
su campi secchi e poi
smontare, voi due camminavate insieme;
nel buio, non avevate ombre.
Ma le senti venire verso di me
perché di notte vanno dappertutto,
sono padrone di sé.

Guardami. Pensi che non capisco?
Cosa è l’animale
se non un passaggio fuori da questa vita?
Louise Gluck
(Traduzione di Massimo Bacigalupo, da “The Triumph of Achilles”, 1985, Poesia. anno XVI, marzo 2003, n. 170, Crocetti Editore)


JAMES WELCH
(1940-2003)


VIENE NATALE ALLA PIANA DELLE VIPERE
Natale viene così: uomini saggi
senza fretta, candele comprate a credito (basso il prezzo
dei vitelli) guerrieri faccia in giù nel sonno del vino.
I venti ingannano per trar calore dal fumo.

Amici siedono in baracche rattoppate, guardano oltre
le finestre di plastica, aspettando provviste.
Charlie Blackbird, a venti miglia da chiesa
e bar, pugnala il suo fuoco con la pietrina.

Quando gli ubriachi prosciugano i radiatori per amore
o bisogno, i capi mangiano neve e parlano di cambiamenti,
con la voglia di ridere che gli martella i fianchi.
Gli alci scherzano sugli altipiani.

La Stregona, pipa di terracotta e tabacco da masticare,
chiama per nome ogni bufera e predice
le cinque sputando nel televisore.
I bambini le si fanno addosso per chiedere una storia.

Qualcosa sull’onore e la passione,
guerrieri di ritorno con carni e canti,
una speciale stella della sera rapida visione di nascita,
Blackbird si prepara il fuoco. Fuori, un rapido
trentacinque sotto.
James Welch
(Traduzione di Gianni Menarini, “Giovani poeti americani”, Einaudi,1973)

lunedì 3 novembre 2008

SYLVIA PLATH
(1932-1963)



L’aspirante

Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l’hai?
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia.
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma,

Rattoppi o qualcosa che manca? Ah
No? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una mano

Che la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
E a fare ogni cosa che gli dirai,
La vorresti sposare?
E’ garantita,

Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore,
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme –

Un po’ rigido e nero, ma niente male,
Lo vorresti sposare?

E’ impensabile, in frantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile
Credi a me, ti ci farai sotterrare.

E adesso, scusa, hai vuota la testa
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci fuori dal guscio.
Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca.

Ma in venticinque anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare,
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare.

E funziona, non ha una magagna,
Qua c’è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?
Sylvia Plath

(Traduzione di Giovanni Giudici, “Almanacco dello Specchio” n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori)

Lady Lazarus

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
Ci riesco –

Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Un fermacarte il mio

Piede destro,
la mia faccia un anonimo, perfetto
Lino ebraico

Via il drappo
O mio nemico!
Faccio forse paura?

Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.

Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me

E io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.

Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.

Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
Si accalca per vedere

Che mi sbendano mano e piede –
Il grande spogliarello.
Signori e Signore, ecco qui

Le mie mani,
I miei ginocchi,
Sarò anche pelle e ossa.

Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.

Ma la seconda volta ero decisa
A insistere,a non eccedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.

Morire
E’ un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.

E’ facile abbastanza da farlo in una cella.
E’ facile abbastanza da farlo e starsene lì.
E’ il teatrale

Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale
Urlo divertito e animale:

“Miracolo!”
E’ questo che mi ammazza,
C’è un prezzo da pagare

Per spiare
Le mie cicatrici, per auscultare
Il mio cuore . eh sì, batte.

E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po’ del mio sangue

O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor
Eh sì, Herr Nemico.

Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creatura d’oro puro

Che a uno strillo si liquefa.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.

Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate-

Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.

Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.

Dalla cenere io rinvengo
Con le mie ossa chiome
E mangio uomini come aria di vento.
Sylvia Plath

(Traduzione di Giovanni Giudici, Almanacco dello Specchio n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore)
Questi due testi sono il resoconto poetico di vari suicidi tentati dalla Plath, uno dei quali, riuscito la mattina dell’11 febbraio 1963. “Taluni critici” scrive Giovanni Giudici nella introduzione e traduzione di Lady Lazarus, otto poesie, su l’Almanacco dello Specchio,“tendono spesso a considerare il suicidio di un poeta come corollario e addirittura parte integrante dell’opera, che ne diventerebbe, pertanto, una o più o meno consapevole preparazione. – Nel caso della Plath (che quando ci riuscì era già al terzo tentativo) ciò potrebbe apparire quasi vero alla lettura dei testi. Ma potrebbe valere anche l’ipotesi contraria che la presenza del tema –suicidio- o – autocancellazione- in alcune delle sue poesie più riuscite fosse in effetti un modo rituale di esorcizzare l’irrazionale del cupio dissolvi; la poesia è spesso finzione scenica dove il tanto parlare di morte può significare in realtà un disperato amore del vivere”


ROBERT LOWELL
(1917 – 1977)


Alla mamma


Sono venuto una terza volta
a vivere nella tua Boston, austera e lussuosa,
ho quasi alzato il telefono per comporre il tuo numero,
dimenticando che non hai numero.
Il tuo umorismo esagitato,
l’opposto che all’inglese,
l’opposto di divertente per un figlio,
adesso è mio-
il tuo sangue scattante, la voglia di vita sul tuo viso,
la riluttante increspatura di dramma della voce.

Eri
Josephine Beauharmais, la femme militaire.

I gibbosi marciapiedi di mattoni di Harward
mi danno dei bei calci,
come se avessero il permesso dell’età,
persone che camminavano o inghiottivano a stento,
quando ero studente,
digrignano i denti arrabbiati come vecchi scoiattoli
con bende di capelli bianchi attorno alle orecchie.
Mi vedo cambiare nei cambiamenti dei miei amici –
possa io vivere più a lungo, ma non battere alcun primato.
Diventando noi stessi,
perdiamo il nostro sangue freddo per i bambini.

Una pianta scadente può ravvivare tutta una stanza –
Le tue non erano scadenti – bulbo, guaina, stelo seducente,
il giglio che alza la sua bandiera un momento
corrugandosi sulla ghiaia bianca di un vaso più bianco.
Il tuo salotto era un rimprovero. Vorrei essere là con te,
senza contare i minuti, ma non per sempre –
come tuo solito, sfioravi mensola e ringhiera
con l’indice d’un guanto immacolato in cerca di polvere.

“Perché continuiamo a aspettarci che la vita sia facile,
quando sappiamo che non lo sarà mai?”

Mi piaceva sentire scandali su di te. Molto veniva
dagli altri, le tue compagne di scuola, ora polvere anch’esse.

Mi ci è voluto il tempo da quando sei morta
per scoprire che sei umana come me…..
se io lo sono.
Robert Lowell

(Traduzione di Francesco Rognoni, su “Poesia”, anno XV, Gennaio 2002, n. 157)
T.S. ELIOT
(1888-1965)


La sepoltura dei morti

Aprile è il mese più crudele, genera
Lilla da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese, giungendo sulla Stamberggersee.
Con uno scroscio di pioggia, noi ci fermammo sotto il colonnato,
E proseguimmo alla luce del sole nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
E quando eravamo bambini stavamo presso l’arciduca,
Mio cugino, che mi condusse in slitta,
E ne fui spaventata. Mi disse, Marie,
Marie,tieniti forte. E ci lanciammo giù.
Fra le montagne, là ci si sente liberi.
Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud.

Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra, nessun suono d’acque.
C’è solo ombra di questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.

Frich weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind
Wo weilest du?

“Fu un anno fa che mi donasti giacinti per la prima volta,
Mi chiamarono la ragazza dei giacinti”.
Eppure quando tornammo, a ora tarda, dal giardino dei giacinti,
Tu con le braccia cariche, con i capelli madidi, io non potevo
Parlare, mi si annebbiavano gli occhi, non ero
Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio,
Il cuore della luce
Oed’ und leer das Meer.

Madame Sosostris, chiaroveggente famosa,
Aveva preso un brutto raffreddore, ciononostante
E’ nota come la donna più saggia d’Europa,
Con un diabolico mazzo di carte. Ecco qui, disse,
La vostra carta, Il Marinaio Fenicio Annegato
(Quelle sono le perle che furono i suoi occhi. Guardate!).
E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce,
La Dama delle situazioni.
Ecco qui l’uomo con le tre aste, ecco la Ruota,
E qui il mercante con un occhio solo, e questa carta,
Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso,
E che a me non è dato vedere. Non trovo
L’impiccato. Temete la morte per acqua,
Vedo turbe di gente che cammina in cerchio.
Grazie. Se vedete la cara Mrs. Equitone,
Ditele che le porterò l’oroscopo io stessa:
Bisogna essere così prudenti in questi giorni.

Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano,
E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano
Su per il colle e giù per la King William Street,
Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con morto suono sull’ultimo tocco della neve.
Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson!
Tu che eri a Mylae con me, sulle navi!
Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?
Oh, tieni il cane a distanza, che è amico dell’uomo,
Se non vuoi che con l’unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto!
Tu hypocrite lecteur! – mon semblable – mon frère”!
T.S Eliot

(da:La terra desolata. Trad. di Roberto Sanesi, Mondadori, luglio 1974)
WALLACE STEVENS
(1879-1955)


1

Ma nell’Europa centrale
le pannocchie dei campi
hanno la forma fluida
delle onde del sonno

per contrastare i galli e i gerani
che cantano nelle ore più tremende

e poi
si può guardare la luce
con il necessario per attendere
l’alba
mentre i pensieri sul letto
come minute di poesia:

farsi rimordere la coscienza
per il male compiuto
e forse non è neppure ben descritto
questo angolo affascinante
del novecento
Wallace Stevenson

(Traduzione di Gregorio Scalise su “Poesia”, anno VI, gennaio 1993, n. 58)

La donna al sole

E’ solo che questo calore e movimento sono come
Il calore e il movimento di una donna.

Non è che ci sia un’immagine nell’aria
Né l’inizio o la fine di una forma:

C’è il vuoto. Ma una donna d’oro compatto
Ci brucia col tocco della veste.

E’ un’abbondanza dissociata d’essere,
Più definita per ciò che è lei-

Perché lei è disincarnata,
E porta l’odore dei campi estivi.

E confessa il taciturno e insieme indifferente.
Invisibile ma chiaro, il solo amore.

Wallace Stevens

(Traduzione di Nadia Fusini, su “Poesia”, anno VI, gennaio 1993, n. 58)




EDGAR LEE MASTERS

(1868-1950)




La collina

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
il debole di volontà, il forte di braccia,
il buffone, il beone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,
uno arse nella miniera,
uno fu ucciso in una rissa,
uno spirò in galera,
uno cadde da un ponte faticando per moglie e figli-
Tutti, tutti, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Lizzie e Edith,
il cuore sensibile, l’anima candida, la rumorosa,
l’orgogliosa, la felice?-
Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di parto vergognoso,
una di amore contrastato,
una per mano di un bruto in un bordello,
una d’orgoglio infranto inseguendo la follia del cuore,
una dopo una vita, lontano, a Londra e Parigi
fu riportata al suo piccolo spazio vicino a Ella, Kate e Mag-
Tutte, tutte, dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono zio Isaac e zia Emily,
e il vecchio Towmy Kinkaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva parlato
con uomini venerabili della rivoluzione?-
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Li riportarono figli morti dalla guerra,
e figlie prostrate dalla vita,
e i loro bimbi orfani, in pianto.
Tutti, tutti, dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dov’è Jones, il vecchio violinista
che giocò con la vita tutti i suoi novant’anni,
sfidando il nevischio a petto nudo,
bevendo, strepitando,
non pensando né a moglie né a famiglia,
né all’oro, né all’amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia di pesce fritto d’altri tempi,
delle corse di cavalli di tanti anni fa
al Boschetto di Clary
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.
Edgar Lee Masters

(da:Antologia di Spoon River, traduzione di Luciano Paglialunga, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996)

Il Giudice Somers

Come si spiega, ditemi,
che io, il più erudito degli avvocati,
che conoscevo Blackstone e Coke
quasi a memoria, che pronunciai la più bella arringa
che mai la Corte avesse udito, e scrissi
un esposto che meritò l’elogio del giudice Breese-
come si spiega, ditemi,
che io giaccio qui senza un segno, dimenticato,
mentre Chase Henry, l’ubriacone del paese,
ha un cippo di marmo, con sopra un’urna,
dove la Natura con irridente malizia,
ha fatto crescere una malerba tutta fiorita?
Edgar Lee Masters

(da:Antologia di Spoon River, traduzione di Luciano Paglialunga, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996)

Francis Turner

Non potevo né correre né giocare
da ragazzo.
Da adulto potevo soltanto sorseggiare dalla coppa,
non bere-
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
confortato da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe, di pergole dolci di viti –
là quel pomeriggio di giugno
a fianco di Mary –
baciandola con l’anima sulle labbra
d’improvviso l’anima prese il volo.
Edgar Lee Masters

(da: Antologia di “Spoon River”, Traduzione di Luciano Paglialunga, Piemme, Casale Monferrato, 1996)

POESIA IRLANDESE
John Montague


(1929)






La gabbia

Mio padre, l’uomo meno felice
ch’io abbia conosciuto. Il suo viso
serbava il pallore
di chi lavora sotto terra:
gli anni di Brooklyn perduti
a sentirsi scuotere il pavimento
dai treni del metrò.

Ma, irlandese tradizionale,
dimesso dal suo sportello
(dell’I.R.T. di Clark Street)
beveva whiskey liscio, finché
raggiunse l’unico elemento
in cui ormai si sentisse
a suo agire: oblio brutale.

Eppure si tirava in piedi
quasi tutte le mattine
per marciare giù per la strada
prodigando il suo sorriso
in ogni direzione al vicinato
buono (non negro)
al rintocco della chiesa di Santa Teresa.

Quando tornò
andammo a passeggiare insieme
nei campi di Garvaghry
per vedere il biancospino sulle siepi
estive, come se
non fosse mai partito,
era una curva della strada
che ancora custodiva
delle primule. Ma
non sorridemmo
nella condivisa complicità
di un sogno perché quando
lo stanco Odisseo ritorna
Telemaco deve andarsene.

Spesso quando scendo in una
Metropolitana, americana o inglese,
vedo la sua testa calva
dietro le sbarre della piccola edicola,
con il segno di un vecchio incidente
d’auto che gli pulsa
sulla fronte spettrale.
Johnn Montague
(Traduzione di Ottavio Di Fidio: da “Una luce eletta”, Poesia, anno III. N. 50, giugno 1990, Crocetti Editore)





THOMAS KINSELLA

(1920)

Assenzio

L’ho sognato ancora: improvvisamente fermo
Sto in una macchia, tra alberi umidi, attonito, minutamente
Tremante, e sento un’eco legnosa fuggire.

Il terreno muschioso, quasi incolore, scompare
Nelle piovose profondità tra le forme arboree.
Sono tutto teso ad assaporare quell’eco un secondo di più.

Familiare se solo riuscissi a trattenerla….se solo ci riuscissi…
Un albero neo dal doppio tronco- due alberi
Fusi in uno- innalza indistinti i suoi rami.

Crescendo in un’infinitesima danza i due tronchi
Si sono attorcigliati l’uno all’altro, connessi
In lenta voluta da una cicatrice….che riconosco….

Veloce un arco lampeggia fendendo l’aria,
Una pesante lama vola. Un colpo legnoso:
Ferro s’affonda nella polpa mozzandole il fiato.
Lo sognerò ancora.
Thomas Kinsella
(Traduzione di Riccardo Duranti, su Almanacco dello Specchio, n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori, 1976)


SAMUEL BECKETT

(1906-1989)



Sanies II
C’era un paese felice
L’American Bar
di Rue Mouffetard
c’erano delle uova rosse lì
il vapore la delizia il sorbetto
lo chagrin dei vecchi pelle e ossa
sgangherato corpo felice
perso nel mio vecchio vestito lurido
navigando barcollando su fino a Puvis il guantone di tulipano
frusta frustami con tulipani gialli mi tirerò giù
questi luridi vecchi pantaloni
il mio amore mi ha cucito vive le tasche vive-oh davvero disse meglio così
immacolato poi entro gli stracci marroni scivolando
verso l’affresco risalendo libero il fiordo di uova tinte e strisce di cuoio con
campanelli
sparisco pensate nel locale
i ruffiani giocano a bigliardo eccoli che gridano i punti
la Barfrau fa molta impressione col suo potente didietro
ci sono Dante e la beata Beatrice
prima della Vita Nuova
le palle cozzano scalogna amico
Gracieuse è la Belle-Belle giù nello scarico
Percinet stivalato colla mascella al cobalto
fanno giochi ingobbia-ingobbia
succhia succhiare non cambia nulla
L’Alighieri se n’é andato au revoir a tutto questo
crollo del tutto in una risatina di dispetto
sentite
sulla sala un terribile silenzio
un brivido sconvolge Madame de la Motte
si spande scomparsa giù lungo le sue fettine
il gran didietro schiumeggia e si calma
presto presto il cavalletto i i mollatori per il rito
vivas puellas mottui incurrrrsant boves
oh subito subito prima che rinvenga la gogna bambù per la bastonatura
una luna amara sculacciata alla moda
oh Becky smetti non ti ho fatto niente smettila maledetta
smettila mia buona Becky
metti via le tue vipere Becky, ti pagherò lo stesso
Signore abbi pietà di
Cristo abbi pietà di noi

Signore abbi pietà di noi
Samuel Beckett
(Antologia poeti stranieri, Arte Domus, 1989)




sabato 1 novembre 2008

POESIA INGLESE
BRIAN PATTEN
(1946)


La confessione del piccolo Johnny

Questa mattina
mi sentivo piuttosto giovane e sciocco
ho preso la mitragliatrice che mio padre
aveva nascosto dalla guerra, sono uscito
e ho eliminato un certo numero di piccoli nemici.
Da allora non son più tornato a casa.

Questa mattina
una folla di poliziotti con cani da fiuto
vagabondano per la città
con i miei connotati stampati
nella mente, chiedono:
L’avete visto?
Ha sette anni,
gli piacciono Pluto, Topolino il Grande
e Biffo l’Orso,
l’avete visto da nessuna parte?

Questa mattina
seduto solo in uno strano campo da gioco
borbottando hai commesso un errore, hai commesso un
errore
continuamente tra me
medito sulla mia prossima mossa
e non posso muovermi.
I cani da fiuto mi scoveranno
Essi hanno i miei lecca lecca.


Brian Patten
(Traduzione di Perla Cacciaguerra, da:” Il piccolo Johnny fa un viaggio in un altro pianeta”,Almanacco dello Specchio, n.5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori, 1976)
HEANEY SEAMUS
(1939)


La metropolitana

Fu qui, sotto la volta del tunnel,
tu a correre davanti nel tuo cappotto da viaggio,
io dietro come un agile dio per raggiungerti
prima che ti mutassi in giunco

o in qualche nuovo fiore, bianco
e carminio. Caddero dal cappotto svolazzante
uno a uno i bottoni in breve traccia
tra metropolitana e Albert Hall.

Luna di miele sotto la luna, per il concerto
tardi, e muore l’eco dei nostri passi. Ora
pietre di luna torno come Hànsel a cercare,
il cammino a ritroso percorro,

come Hànsel raccolgo i tuoi bottoni
fra il vento e fioca luce di stazioni.
Partiti i treni, umide le rotaie
nude e tese a seguirti come me

e dannato io sia se guardo indietro.


Heaney Seamus
(Traduzione di E. Esposito, da”Poesia del Novecento in Italia e in Europa, Feltrinelli,2000)

mercoledì 29 ottobre 2008

POESIA PORTOGHESE
FERNANDO ANTONIO NOGUEIRA PESSOA
(1888-1935)


Sonetto già antico


Senti Daisy quando morirò, ti chiedo
di dire ai miei amici lì a Londra,
anche se non lo senti, che nascondi
il grande dolore per la mia morte. Andrai

da Londra a York, dove sei nata (lo dici tu….
ma io non credo mai a ciò che dici),
e racconterai a quel povero ragazzino
che mi ha dato tante ore felici,

che sono morto, anche se non lo saprai….
Perfino a lui, che tanto ho creduto di amare,
non importerà nulla….Poi vai a dare

la notizia a quella strana Cecily
che credeva che un giorno sarei stato grande….
Accidenti alla vita e a chi la vive!
Fernando Antonio Nogueira Pessoa

(Traduzione di A Tabucchi, da “Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito, II volume, Feltrinelli 2000)
POESIA ISPANOAMERICANA
GONZALO ROJAS
(1917)




Sublime oscurità

Stanotte ti ho toccato e ti ho sentito
senza che la mia mano si perdesse più in là della mia mano,
senza che mi sfuggissero il corpo e l’udito
in modo quasi umano
ti ho sentito.

Palpitante, non so se come sangue o come nube,
errante,
quasi in punta di piedi, per la casa, oscurità crescente,
oscurità calante, corresti scintillante.

Corresti per la mia casa di legno,
apristi le finestre
e udii il tuo palpito tutta la notte,
progenie degli abissi, silenziosa
guerriera, così terribile, così sublime,
che tutto ciò che esiste, per me, ora,
senza il tuo fuoco è semplice chimera.
Gonzalo Rojas

(Traduzione di Cristina Sparagana, Poesia, anno XVI, marzo 2003, n. 170, Crocetti Editore)


PABLO NERUDA
(1904 1973)


VI

…………………………….
E ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno nella Patagonia, dove
il vento fa vibrare
le stalle e spruzza ghiaccio
l’Oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere…..
……………………………
Io qui non vengo a risolvere nulla.

Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.
Pablo Neruda

(Traduzione di S. Quasimodo, da: “Si svegli il taglialegna”, La poesia italiana contemporanea, di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, Firenze, 1972)
JORGE LUIS BORGES
(1899 1936)


VANILOQUIO

La città vive in me come un poema
che non m’è riuscito di fissare in parole.
Da un lato v’è la eccezione di alcuni versi;
dall’altro, accantonandoli,
la vita precorre il tempo,
come terrore
che usurpa tutta l’anima.
Ci sono sempre altri crepuscoli, altra gloria;
io provo il logorarsi dello specchio
che non si placa in una sola immagine.
A che questa ostinazione
di configgere con pena un chiaro verso
eretto come lancia sopra il tempo,
se la mia strada, la mia dimora,
spezzatrici di simboli verbali,
mi grideranno domani la loro novità?
Nuove
come bocca non baciata.
Jorge Luis Borges

(Traduzione di Umberto Cianciòlo da: Carme presunto e altre poesie di Jorge Luis Borges, Mondadori, 1958)
POESIA SPAGNOLA
MARIA do ROSARIO PEDREIRA
(1959)


Lasciai cadere il tempo sul tuo nome,

come si adagia il marmo sulla terra e

l’acqua si sparge sulle braci. Mi vestii

di lutto come le donne che disfano

le culle vuote da tanto le guardano; e vidi

il sangue scendere finalmente sulla ferita,

come la cera che si rapprende sul palmo della mano

prima di perdersi nelle dita in polvere. Se

ti dimenticai, fu perché volli qualcuno che mi

chiamasse, un corpo che fosse un altro sul mio

corpo, una voce offerta per la mattina. Ma

niente, ma nessuno. Se il tempo non si

fosse abbattuto sul tuo nome, avrei potuto

almeno ora ricordarti – poiché non c’è

lapide senza corpo né cenere che non abbia

arso. E la casa è oggi più fredda che

mai: lasciai passare il tempo sul tuo

nome, e non c’è focolare, non c’è nido, non ci sono

figli che si possano perdere da me, né

candele per riempire di memoria questo silenzio.

Traduzione di Mirella Abriani
Poesia n. 236 Marzo 2009 Maria do Rosário Pedreira - Tutti i nomi dell’amorea cura di Mirella Abrianie Fernando Pinto do Amaral
Crocetti Editore 2009


JAIME GIL de BIEDMA

(1929 - 1990)




De senectude

Non è il mio, questo tempo.
E pur se così mio è questo palpitare di uccelli,
di fuori nel giardino,
la sua profusione in foglie piccole, che mi rimescolano
come intimazioni
non dice più le stesse cose.

Mi sveglio
come chi sente un respirare
osceno. E’ che fa giorno.

Fa un nuovo giorno che non sarò invitato
neppure a un attimo felice. Neppure a un pentimento
che per non essere antico
-ah, Seigneur, donnez moi la force et le courage!-
m’inviti davvero a pentirmi
con qualche avanzo di sincerità.
E nulla temo più delle mie cure.

La vita la ricordo, ma dov’è
Iaime Gil de Biedma

(Traduzione di Mariapia Lamberti da:”Hora de Poesia”, n. 8 (marzo-aprile 1980) Poesia, anno VI, febbraio 1993, n. 59, Crocetti Editore)



ALAIDE FOPPA

(1914-Desaparecida)



Esilio


La mia vita
È un esilio senza ritorno.
Non ebbe casa
la mia errante infanzia perduta,
non ha terra
il mio esilio.
La mia vita navigò
su vascelli di nostalgia.
Vissi sulle rive del mare
guardando l’orizzonte
verso la mia casa sconosciuta
pensavo salpare un giorno
e il presente viaggio
mi lasciò ad altro porto di speranza.
E’ l’amore, forse,
la mia ultima baia?
Oh braccia che mi fecero prigioniera,
senza darmi riparo…
Anche dal crudele abbraccio
volli sfuggire.
Oh braccia fuggitive
che invano cercarono le mie mani….
Incessante fuga
e desiderio incessante
l’amore non è porto sicuro.
E non c’è terra promessa
per la mia speranza.
Alaide Foppa


(Traduzione di Mario Sigfrido Metalli, su “Poetica” anno 1, n. 1 1989, Edisud)

“Alaide Foppa nacque a Barcellona nel 1914 da padre argentino di origine iotaliana e da madre guatemalteca. Alaide fu sequestrata durante uno dei suoi viaggi che faceva per raggiungere il marito sotto la presidenza del generale Lucas, e da quel giorno”desaparecida” senza lasciare traccia.”


FEDERICO GARCIA LORCA

(1898 - 1936)




Compianto d'Ignazio Sànchez Mejìas


IL SANGUE SPARSO



Non voglio vederlo!
Dille alla luna che venga,
Non voglio vedere il sangue
D’Ignazio sopra l’arena

Non voglio vederlo!

La luna di piena luce.
Cavallo di calme nubi,
E stadio grigio del sogno
Con salici sui recinti.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.Avvisate i gelsomini
Di minuscolo candore!

Non voglio vederlo!

La vacca del vecchio mondo
Passava la triste lingua
Sopra un muso di sangue
Versato sopra l’arena,
Ed i tori di Guisando,
Quasi morte e quasi pietra,
Mugghiaron come due secoli
Stanchi di batter la terra.
No.

Non voglio vederlo!

Pei sedili sale Ignazio,
Tutta la sua morte a spalla.
Andava in cerca dell’alba,
E l’alba non esisteva.
Cerca il suo fermo profilo ,
E il sogno lo disorienta.
Il suo bel corpo cercava
E trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentire il getto
Che sempre più si spegne,
Quel getto che le tribune
Illumina e si riversa
Sul fustagno e sul cuoio
Della folla sitibonda.
Chi mi grida d’affacciarmi!
Non ditemi di vederlo!

Non si chiusero i suoi occhi
Nelle corna mirando,
Ma le terribili madri
Sollevarono la testa
Come per gli allevamenti
Vento di voci segrete,
Urlanti ai tori celesti,
Mandriani di pallida nebbia.
Non principe di Siviglia
Potrebbe essergli uguale
Né spada come la sua
Né cuore così sincero.
Come un fiume di leoni
Il suo stupendo vigore;
E come un torso di marmo
La sua precisa saggezza
Aura di Roma andalusa
Gli dorava la testa
Dove il suo riso era un nardo
Di sale e d’intelligenza.

Che gran torero in arena!
Che buon montanaro ai monti!
Quanto mite con le spighe!
Quanto duro con gli sproni!
Quanto dolce con la brina!
Che bagliore nella fiera!
Quanto tremendo con l’ultime
Banderillas della tenebra!

Ma ora dorme in eterno.
Ora i licheni e l’erba
Schiudon con dita sicure
Il fiore del suo teschio.
Ed ora il sangue suo muove cantando:
Cantando per maremme e praterie,
Sdrucciolando su corna intirizzite;
Esamine vacilla nella nebbia,
In migliaia di zoccoli inciampando
Come una lunga, oscura, triste lingua,
Per formare una pozza d’agonia
Presso il Guadalquivir del firmamento.
O bianco muro di Spagna!
O nero toro di pena!
O sangue duro d’Ignazio!
O usignuol delle sue vene!
No.

Non voglio vederlo!

Un calice non v’è che lo contenga,
Non vi sono rondinelle che lo bevano,
Non v’è brina di luce che lo geli,
Non di gigli v’è canto né diluvio,
Non cristallo che lo copra d’argento.
No.

Non voglio vederlo!
Federico Carcia Lorca
(Traduzione di O.Macrì, su” La Poesia Italiana Contemporanea” di G. Cavallini e L. MarguatiEditore Bulgarini, 1972)


Adelina a passeggio

Il mare non ha aranci,
e senz’amore è Siviglia.
Bruna, che luce di fuoco.
Prestami il tuo parasole.

Mi farà verde la faccia
-sugo di cedro e limone-
le tue parole –pesciolini-
nuoteranno intorno.

Il mare non ha aranci.
Ahi, amore.
E senz’amore è Siviglia.
Federico Garcia Lorca

(Traduzione di C. Bo, da “La poesia italiana contemporanea” di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, 1972)

JUAN RAMON JIMENEZ
(1881 1958)


Il Viaggio definitivo

….. E me ne andrò. E resteranno gli uccelli
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido,
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese si rinnoverà di gente ogni anno;
e nell’angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito…..
E me ne andrò, e sarò solo, senza casa, senza albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido….
E resteranno gli uccelli a cantare.
Juan Ramon Jimenez

(Traduzione di M. Socrate, da “La poesia italiana contemporanea” di G. Cavallini e L. Marguati,
Editore Bulgarini, 1972)

martedì 28 ottobre 2008

POESIA RUSSA
DIMITRIJ GRIGOR’EV
(1960-1996)



La sedicesima linea


Sulla sedicesima linea c’è
un grossista, del vino mediocre
vendono birra, riparano pneumatici
sulla sedicesima linea
da tempo
è primavera
io so le linee non s’incontrano
e la sedicesima è solo una
essa
nel mio libriccino
è tracciata a mano
ecco Smolenka, la Neva
il resto
non importa
una traccia del dito o del fiume
l’inchiostro si è spalmato
le parole vicine
non si leggono più

sulla sedicesima linea
giri con una bicicletta
azzurra come il cielo estivo
accanto a uno con il cane
accanto ai gatti primaverili
impalato come un albero
chiedo aspetta un pochino
Dimitrij Grigor’ev

(Traduzione di Paolo Galvagni, “Poesia”, anno XV, Gennaio 2002 n. 157, Crocetti Editore)




PERESTROJKA POESIA
MICHAIL N. AJZENBERG
(1948)


Grida da lontano. Il deserto della stazione.
Che la vista almeno non risusciti la speranza in un mutamento
di quella noia che riecheggia. Più forte, ancora più forte
lo schiamazzo per strada. Il trepestio sulla scala.
I topi si gettano
lesti fra le gambe – foglie, brandelli –
come una tribù assatanata.
Il sale (ancora più salato)
a fiocchi sulle pareti. Calchi rigati dall’acqua
di un mare torbido. Berretti di pelo,
cappelli neri galleggiano sulle onde.
Un firmamento d’aria muffita
Densa di fumo.

Se sono la noia o la morte
ad essere disegnate così
non è certo un piacere
ma una brutta copia, uno stenogramma….
La polvere ha preso a danzare
ai crocicchi delle corde volanti,
nell’arcata vuota.
Michail N. Ajzenberg
(da: Pjattyi Sbornik (1982) – Quinta raccolta -


(Traduzione di Gario Zappi, su “Poetica”, anno 1, n. 1, 1989, Edisud)



ANDREJ SINJAVSKIJ


(1925-1997)





1

Mi restano da vivere
Solo quattordici ore.
Cammino per la cella,
Vado avanti e indietro.

Ed ecco nascere dal buio
La mia diletta.
La blusa tutta insanguinata,
E un fetore di sangue.
Dimmi, che cosa è successo?

Presto, prima che ti diano la caccia:
Son venuta a prenderti!
Fuori ci aspettano i cavalli
E un’azzurra penombra.

2

Aveva diciottanni. A tutti diceva di no.
Invano i ragazzi s’innamoravano di lei.
Non donava un sorriso, non amava nessuno,
E guardava sempre tutti con disprezzo.

(E così, a forza di guardare…)

Ma una volta, a un ballo, con passi misurati,
Le si accostò un ragazzo vestito come si deve,
Un tipo superstizioso del mondo della mala,
Le fece un inchino e la trascinò in un tango.

E la bella Nina, la figlia del procuratore,
Cadde completamente in sua balia;
Coi suoi occhi esperti il ladro la studiava
Senza abbassar lo sguardo come un asso di briscola.

Che fuoco s’era acceso, e che dolcezza!
Giacché l’amore del ladro è breve, ma intenso.
Non vuole niente, non desidera niente,
Solo il corpo della bella, solo un po’ di vodka.

Ma la sorte del bandito è rapida a mutare:
Ora in prigione, ora libero, ora in un lager….
E un bel martedì il nostro superstizioso
Si fece beccare alla stazione, e con lui la ragazza.

Ecco alla tavola rossa, nella sala fumosa,
Beve acqua il procuratore, un bicchiere dopo l’altro.
E sulla nera panca sta sua figlia Nina
E con lei un furfante mai visto prima.

Se ne andò via in silenzio, altera come sempre;
Quando il bandito chiese di salutare sua moglie,
E le loro labbra si fusero in un unico bacio,
Solo il padre-procuratore aveva una lacrima agli occhi
Andrej Sinjavskij

(Traduzione dal russo di Riccardo Gluckner, da “Una voce dal coro” , Garzanti, 1973)


ARSENIJ TARKOVSKIJ

(1907 - 1989)



Destinato ad uno solo, come camera
d’albergo – con una sola finestra, un solo
letto e un solo tavolo, vivevo
nel mondo e la mia anima
si era ambientata al corpo mio. Così avveniva:
guardava alla finestra, rimaneva a letto,
si sedeva sul tavolo . la penna faceva scricchiolare,
creando il suo semplice lavoro.

E dietro la finestra andavano i cittadini,
i camion strombazzavano la pioggia strepitava,
fischiava la polizia,
sorgeva il sole, arrivava il giorno,
sorgevano le stelle, arrivava la notte,
e il cielo ora schiariva ora imbruniva.

E la città ho amato come un forestiero,
ed ero pieno di impressioni felici,
e il nuovo amavo per la novità,
il quotidiano per la quotidianità,
e come questo mondo a quattro dimensioni,
non mi è rimast6o altro che il futuro.

Ma è terminata la mia solitudine
nella camera mia da quindici rubli
si è stabilito un altro pigionante solo,
e una nuova anima ha iniziato a riprodursi,
come cromosoma nel vetrino.
Afflitto nel mio spazio troppo stretto
pure mi facevo largo, come anche la città
sorgeva da borgate accatastate.

Io
un ponte ho gettato sul piccolo fiume.
A me
mancavano operai. Abbiamo impolverato
col cemento, rombato coi mattoni
la pelle collinosa della terra,
scorticato fino all’osso coi bulldozer.

Lode a colui che ha perso se stesso!
Lode a te, mia vita, privata di vita!
Lode a te, benedetto tensore,
lode a te, lingua d’altri tempi!
Passano cent’anni e non la comprendiamo più,
l’ho davanti nello Slovo d’Igor,
m’inchino a te, vinto dai tartari:
siamo mille sulla riva del Kajal,
la lancia è confitta sull’erba,
e sulla lancia
l’aquila della steppa monda le piume canute.

Arsenij Tarkowskij
(Traduzione di Amedeo Anelli e Stefania Sini da “La steppa” Edizioni Via del vento”1998)
IOSIF ALEKSANDROVIC BRODSKIJ
(1940 1996)



II

Una lunga alba. Il marmo freddo e nudo come le anche
della nuova Susanna, al momento di entrare nell’acqua,
si sente il ronzio delle cineprese
di nuovi vecchioni. Due o tre grassi piccioni
si staccano da un capitello e in volo
si trasformano in gabbiani è ciò
che si paga a volare sull’acqua o è calunnia che un letto
narra assonnato a un soffitto.

Iosif Aleksadrovic Brodskij
(Traduzione di G.Guerrini, su Crono Poesia, 1990)

VIII

Scrivo questi versi su una sedia bianca all’aperto
con la sola giacca addosso in inverno
dopo aver bevuto molti bicchieri
allargando gli zigomi con frasi in madrelingua.
Il caffè si raffredda nella tazza.
Sciaborda la laguna, castigando con minimi sprazzi
la torbida pupilla che fissa nel ricordo
questo paesaggio in grado di fare a meno di me.

Iosif Aleksandrovic Brodskij

(Traduzione di G.Guerrini, su Crono Poesia, 1990)

BORIS PASTERNAK
(1890 1960)


La neve cade

La neve cade, la neve cade.
Alle bianche stelline in tempesta
si protendono i fiori del geranio
dallo stipite della finestra.

La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
ogni cosa si lancia in un volo,
i gradini della nera scala,
la svolta del crocicchio.

La neve cade, la neve cade,
come se non cadessero i fiocchi,
ma in un mantello rattoppato
scendesse a terra la volta celeste.

Come se con l’aspetto d’un bislacco
dal pianerottolo in cima alle scale,
di soppiatto, giocando a rimpiattino,
scendesse il cielo dalla soffitta.

Perché la vita stringe. Non fai a tempo
a girarti dattorno, ed è Natale.
Solo un breve intervallo:
guardi, ed è l’Anno Nuovo.

Densa, densissima la neve cade.
E chi sa che il tempo non trascorra
per le stesse orme, nello stesso ritmo,
con la stessa rapidità o pigrizia,

temendo il passo con lei?
Chi sa che gli anni, l’uno dietro l’altro,
non si succedano, come la neve,
o come le parole di un poema?

La neve cade, la neve cade,
la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
il pedone imbiancato,
le piante sorprese,
la svolta del crocicchio.
Boris Pasternàk

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino, “Poesie” Boris Pasternàk, Einaudi,1960)

lunedì 27 ottobre 2008

POESIA TEDESCA
GEORG TRAKL
(1887 1914)




CANTO SERALE

La sera, se andiamo per oscure vie,
smorte ci incontrano le nostre ombre.

Ora chi ha sete
beva le bianche acque dello stagno,
dolci i lamenti della nostra infanzia.

Morti in riposo sotto il folto sambuco
guardiamo grigi gabbiani.

Nubi primaverili coprono la città buia
che tace i tempi di monaci eletti.

Quando io presi la tua mano esile
battesti piano gli occhi rotondi:
ora è perduto.

Ma se una buia armonia penetra l’anima
appari tu bianca ai paesi autunnali del cuore.
Georg Trakl
(Traduzione di Giaime Pintor in “Poesie” di Rainer Maria Rilke, Einaudi, 1963)






HERMANN HESSE
(1877-1962)


Fuga di Giovinezza

La stanca estate china il capo,
specchia nell’acqua il biondo volto.
Io vado stanco e impolverato
nel viale d’ombra folto.

Soffia tra i pioppi una leggera
brezza. Ho alle spalle il cielo rosso,
di fronte l’ansia della sera
e il tramonto e la morte.

E vado stanco e impolverato
e dietro a me resta esitante
la giovinezza, china il capo
e non vuol più seguirmi avanti.
Hermann Hesse

(Traduzione di Rainer Maria Rilke su “Poesie”, Einaudi Editore, 1963)

RAINER MARIA RILKE
(1875- 1925)



Sulla via assolata, dentro al vecchio
tronco cavo che da lungo tempo
serve a bere e piano in sé rinnova
uno specchio d’acqua, la mia sete
calmo: l’acqua limpida e il suo flusso
prendo in me nel cavo della mano.
Bere è troppo, è un atto che tradisce,
mentre questo gesto in cui m’indugio
porta un’acqua chiara alla coscienza.

E così potrebbe riposarmi
se tu fossi qui, posare piano
la mia mano sulla fresca curva
della spalla o al limite del seno.
Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Giaime Pintor da: “Poesie” di Rainer Maria Rilke, Einaudi Editore, 1963)

Sempre di nuovo, benché sappiamo il paesaggio d’amore
e il breve cimitero con i suoi tristi nomi
e il pauroso abisso silente, dove per gli altri
è la fine: torniamo a coppie tuttavia
di nuovo tra gli antiche alberi, ci posiamo
sempre, di nuovo, tra i fiori contro il cielo.
Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Giaime Pintor “Poesie”, Einaudi, 1963)

GOTTFRIED BENN
(1886 1956)


Onda della notte

Onda della notte – arieti di mare e delfini
col peso volubile di Giacinto,
le rose di alloro e i travertini
alitano attorno al vuoto palazzo istriano.
Onda della notte – due conchiglie elette assieme,
i flutti le sospingono, via dalle rocce,
poi perduti assieme diadema e porpora,
la bianca perla rotola di nuovo in mare.
Gottfried Benn

(Traduzione di M.T. Mandalari, su La poesia italiana contemporanea, di G. Cavallini, L. Marguati,
Editore Bulgarini, Firenze, 1972)
POESIA FRANCESE
RENE’ CHAR
(1907-1988)



Fogli d’Ipnos

A***

Da tanti anni sei l’amore mio,
il mio capogiro in così lunga attesa,
che nulla può invecchiare, raffreddare;
nemmeno ciò che aspettava la nostra morte,
o lentamente seppe combatterci,
nemmeno ciò che ci è estraneo,
e le mie eclissi e i miei ritorni.

Chiusa come un’imposta di bosso
un’estrema fortuna compatta
è la nostra catena di monti,
lo splendore che ci comprime.

Dico fortuna, o mia martellata;
ciascun di noi può ricevere
la parte di mistero dell’altro
senza spanderne il segreto;
e il dolore che viene d’altrove
trova alfine separazione
nella carne della nostra unità,
trova alfine il suo corso solare
nel cuore della nostra nuvolaglia
che squarcia e ricompone.

Dico fortuna così come sento.
Tu hai alzato la vetta
che la mia attesa dovrà superare
quando domani sparirà.
René Char

223 Vita che non può né vuole piegare la sua vela, vita che
I venti riportano stremata al vischio delle rive, eppure sem-
pre pronta allo slancio oltre l’ebetudine, vita sempre meno
arredata, sempre meno paziente, assegna a me la mia par-
te se tanto è ch’essa esiste, la mia parte giustificata nel de-
stino comune al cui centro la mia singolarità fa spicco ma
serba l’amalgama
René Char

(Traduzione di G. Caproni, “Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito II Volume, Feltrinelli Editore, 2000)


PIERRE REVERDY

(1889-1960)

Si era mossa una bestia
Si udì uno zoccolo raspare il selciato sotto la paglia

Poi un grido

Aspettatevi quello che succederà

Qualcuno accostò l’occhio all’abbaino
e guardò

Era ancora notte ma il pendolo faceva oscillare
Il battente senza suonare le ore e dovemmo aspettare
L’alba per sapere di che si trattava

Gli anni passano veloci nella
mente oscura di un fanciullo

Dopo è solo un ricordo uniforme che si
trasforma

Tuttavia se si guarda
attentamente lo stesso punto
ci accorgiamo che non si è mosso

E’ un gioco di luci
Non vediamo più gli stessi colori
E perfino le orecchie saranno mutate

Che fitta cortina di fumo
Cerca di scostare le tenebre con le dita
e si è lacerato il volto e il cuore

Se avesse incontrato se stesso a certi incroci di strade
La ruota di una vettura di passaggio lo sfiorò e
la giacca rimase sporca di fango fino alla fine

Quanto tempo era passato da quando
Era uscito

Tra gli oggetti c’era un vuoto che avrebbe
voluto colmare e la testa fluttuava dall’uno all’altro

Se avesse voluto il vento
poteva trasportarlo al di sopra degli alberi

E invece tu rimani lì chino sul parapetto
come se aspettassi

La campana suona ma non ci chiama

Le sirene fanno gemere gli ardori
di un altro clima

Un’immagine
Bisogna spezzare tutti i ceppi e partire
con le mani avanti

Al fondo di sé c’é sempre un fanciullo infelice che
piange
Pierre Reverdy
(Traduzione di Antonio Porta da: “Il ladro di talento”, Einaudi Editore, 1972)


GUILLAUME APOLLINAIRE

(1880- 1918)



Il ponte di Mirabeau

Sotto il ponte di Mirabeau scorre la Senna
E i nostri amori
Me Io devo ricordare
La gioia veniva sempre dopo il dolore

Venga la notte suoni l’ora
I giorni se ne vanno io rimango

Le mani nelle mani faccia a faccia restiamo
Mentre sotto
Il ponte delle nostre braccia passa
L’onda stanca degli eterni sguardi

Venga la notte suoni l’ora
I giorni se ne vanno io rimango

Passano i giorni e passano le settimane
Né il tempo passato
Né gli amori ritornano

Sotto il ponte di Mirabeau scorre la Senna
Venga la notte suoni l’ora
I giorni se ne vanno io rimango
Guillaume Apollinaire
(Traduzione di R.Paris)

Da: “La poesia italiana contemporanea”, a cura di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, Firenze,1972)