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lunedì 30 novembre 2015

POESIA RUMENA

 SZOCS GEZA
(1953)


 Viviamo giorni difficili, angelo mio

(Sigfrido, Gerusalemme)

Un tempo difficile è questo:
e proprio su di noi
si schiude il riparo;
ma respiriamo come sulla terra l'erba,
e vedrai, ce ne andremo presto
con vele verdi, angelo mio.

Ma perché non ci siamo amati fino adesso?
Com'è successo? Ci pensi,
perché tu non lui, perché lui non te,
e perché amò proprio quella?

Sarà stato soprattutto il destino?
O un disegno che trascende
pure il destino? E poi il fatto
che il passato
fu imprevedibile?

Ma non occupiamoci di questo adesso,
l'amore è buono se amato,
e il passato se sepolto
ti amo; nel cielo pasquale
o sul prato
emerge
una nave intrecciata di erbe e di
astri.

Traduzione di Tomaso Kemeny


Poesia n. 300 gennaio 2015
Numero Speciale: L'amore in versi
Fondazione Poesia Onlus 2015


martedì 24 novembre 2015

A SEGUITO DELLA CONDANNA A MORTE PRONUNCIATA DA UN TRIBUNALE SAUDITA CONTRO IL POETA ASHRAF FAYADH  CHE HA ESPRESSO UN LIBERO PENSIERO, QUESTO BLOG SI ASSOCIA ALLE NUMEROSE INIZIATIVE VOLTE A FERMARE QUESTO OBBROBRIO.

domenica 22 novembre 2015

POESIA ITALIANA

Angelo Ferrante
(1938  - 2010)

Racconto d'inverno
Manni, 2002, (pp. 103), Euro 11.00

Intervento critico di Mario M. Gabriele


Se non fosse per il clima di diffuso ostracismo culturale messo in atto dai vari Repertori della poesia italiana contemporanea nei confronti dei poeti del Sud, non senza una punta di acredine da parte di Giuliano Manacorda quando di fronte a certe operazioni antologiche di chiara impronta separatista, fa notare una brutale scissione degli italiani al di sopra e al di sotto del 40° parallelo; si potrebbe considerare la poesia di Angelo Ferrante, sotto una diversa luce, a cominciare da Segni, Seledizioni, Bologna, 1982, finalista al Premio Viareggio nel 1983, per l’Opera prima, fino alle più recenti pubblicazioni che si sono venute a realizzare in questi anni, tanto che non sarebbe difficile tracciare un diagramma del suo impegno linguistico e poetico, come alternativa alla poesia d’oggi, che sembra tornare ai vecchi spazi della mediocrità, puntualmente occupati e crepuscolarizzati da tanti nomi noti, un tempo protagonisti di un potere culturale di tutto rispetto.
Sembra che con questo recente volume di poesie dal titolo Racconto d’inverno ci si debba ancora una volta occupare della resistenza del dire poetico di Angelo Ferrante, in risposta all’incenso soporifero del verso fin troppo neoermetico e crepuscolare, di cui si fa tanto uso, come se questi ultimi quaranta anni di sperimentazioni poetiche non avessero modificato i gusti letterari, nonostante i tanti decreti di morte sulla poesia, non ultimo quello di Luigi Baldacci che ne Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, Milano 1998, confessa che “l’Avanguardia non è più proponibile, e che le parole della poesia sono state tutte adoperate, così come si rileva nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta e altri Medicamenti, Torino, Einaudi, 1989. Ora di fronte a queste confessioni epigrafiche, pronunciate da un critico di assoluta fede e serietà come Baldacci, non si può non rimanere preoccupati sul futuro della poesia.
Tuttavia nel mare magnum dei libri che si pubblicano in Italia c’è chi propone volumi di poesia d’altro genere, come ad esempio questo Racconto d’Inverno di Angelo Ferrante, che instaura imprevedibili percorsi prelogici e analogici attraverso i quali si sviluppano alcuni temi meditativi, sociali ed esistenziali, che si riallacciano alle figure grammaticali individuate da Hopkins come discorso globale e rivalutazione del significante.
Racconto d’inverno è indubbiamente un libro che va visto come progetto ed evoluzione del linguaggio pianificato su una struttura poematica, supportata da segmenti amebici della lingua, nella piena autonomia delle vicende intersoggettive provenienti da epicentri psicologici e linguistici che mettono allo scoperto il nervo-anima sin dalle prime battute del libro.
Tutto questo è rilevabile nelle sezioni dai titoli: Rimandi, Cupe, Velature, Spirali e Trame, che sembrano parti separate di un discorso, ma che in effetti sono speculari al titolo stesso del volume i cui testi entrano nel corpus della vita radiografato a fondo attraverso gli interni familiari e memoriali, tra lucidissimi flash back della giovinezza e atmosfere domestiche avvolte da riti e simboli, con le immancabili delusioni del tempo, che riconducono a pagine di diario i transiti della quotidianità e certi resoconti privati che fanno parte della storia di una vita:…zia Maria sposò l’uomo venuto da Cantalupo nessuno seppe / quale ragione alle sue nozze durarono solo qualche mese /, pag. 26; oppure, proseguendo nella lettura con altri exempla. Alba d’inverno a Frosolone una vertigine di litanie nella / novena dicembrina come di sogno sveglia che l’urto avvolto / nel maglione al ghiaccio sui vetri spandeva di arabeschi se / più tardi un raggio in spruzzi di luce ancora fosse notte / dalla strada sebbene i suoni delle incudini e le fornaci / d’odore l’agro alle corna nel fuoco arse a modellare manici / di coltelli quando Beppe Puzone batteva come sul canto delle / campane da San Pietro…. Su queste scansioni si snoda Racconto d’inverno di Angelo Ferrante, che precorre i tempi della fruizione e si staglia nettamente dai prodotti poetici di oggi. L’ospite d’eccezione è sempre la parola, autentico locus antropologico della commutazione del significante proposto nella sua forma iperesometrica, in un disordine formale che è anche ordine strutturale.
Organico è invece il pretesto del Racconto che si unisce e si disarticola nei fatti e nelle storie, fino ad estendersi nelle parestesie del linguaggio e nell integralità della poesia. Si tratta, più in specifico, di un campo mitopoietico teso a vibrare nello sfondo di avvenimenti che si addensano in capitoli ricomposti nell’affanno del cuore e della mente.
E’ il tempo della memoria che scorre in un cono di luce e ombra, in un discorso digressivo interno, che ha scatti di “inquietudine ritmica” e di limpide trasfigurazioni, con a centro il tempo del collegio, i ritorni, le fughe dal paese natale, le soste in stazioni e metropolitane, l’orrore della guerra incancellabile dalla memoria attraverso la rivisitazione del tempo passato e delle iconografie paesaggistiche e di folklore, tra addensamenti lirici e accentuato autobiografismo. Ciò che alla fine resta di questo Racconto è la catalogazione di materiali narrativi visti come elementi unitari che danno vita ad un roman de vivre che è anche spazio di letteratura all’interno della morfologia dell’anima e dell’esperienza del poeta.

….. ma dico sì tutto può accadere al ritorno da Campobasso
rollando le ruote notte d’agosto e del viaggio a ritroso
dopo la curva lessi il nome della tua morte e il pugno
sfondò il cuore di ogni stella del cielo della notte
dell’aria

Leonildeee….così urlando tu padre mio cadesti sul
pavimento del portone io blaterando sulla clausola
ostativa l’ammissione occorre verbalizzare scrivessi
tu già caduto eri già morto e l’arteria polmonare al
cedimento SPLAT già dal mattino in assenza di tosse
o i soliti rituali del risveglio la voce tacevi ti
era urlato e quello schianto SBAM ti vedo bianco ma
bianco sui capelli mostro di vita lungamente mi spegne
il segnale la stessa voglia di udivo te ci sono ancora
dopo la curva e tu riposava il pianto sei ben chiuso
ti protegge ora dal vento dalle intemperie i cipressi
e foglie il platano nasconde il paese alla tua vista
ma nonostante lo vedi con gli occhi tuoi d’amore........

domenica 8 novembre 2015

POESIA ITALIANA


CARLO FELICE COLUCCI
(1927)


Eurobarcarola

Senti, gondoliere, per le tue lagune
quei remoti canti, i giorni della merla
e il cuore freddo passons passons puisque tout
passe, dalle Alpi, agli Appennini, dal Reno
October fest, al Delta e alle sue nebbie lì, o
dove les neiges d’antan (avanti c’è posto),
noi turisti a Dachau  matricola abrasa
a rivedere calcinar le ossa, il forno
acceso come quel pane fatto in casa,
Mater dolorosa, rotula e menisco
da cambiare presso  Piccadilly Circus
e una sterlina per mangiare in due, in quattro,
Big Ben, fu dura quella notte a Coventry
e ancora  un poco di macerie nei cibori
senza ostie ormai  dei prevosti la gran fuga,
férmati a San Pietro, a Nòtre Dame, in piedi, e
qualcosa di gotico  per poco o niente,
non si sa mai, al mio computer spenti i vinti,
ed io scold! Leggo Praga in silenzio. Ponte
Carlo, da impazziti violini agli ultimi
carri armati con granate, antiche schegge
nel riso dei pagliacci (un grande naso un neo)
dove il Danubio blu s’arrossa per un poco
e passa, magiari amici  per l’estremo
dei borghi antichi magia e i castelli
in cima lacere bandiere del Nulla o,
ma chi a stazionare nei metrò d’Europa
ai nostri insonni metrò di barboni e noi
distinti, lungo la Senna  bouquinistes
i miei vecchi libri vi chiedevo all’alba
giramondo, e, solo, fin di mezzanotte
al sole, giù giù fino al tuo Partenone,
Pericle, un giorno di filosofi attenti,
quei molti Cesari, cave canem, i nostri, o
il colostro d’ancillae e pergamene a iosa,
forse  L’Evo Medio, incruscate adunanze,
e poi non ti prende voglia di sapere
se l’amico d’un tempo è ancora vivo, là?
Meglio lettori a Oxford o alla Sorbona,
semmai, con l’ultimo volo a destra di chi
scrive una fine, una memoria già andata
(come il bianco vaporetto che salpava),
spento compagno di banco e di lezioni,
dal Tago alle dolci sponde in barcarole
d’addio, un concerto a San Lorenzo forse,
ràsati per bene, ma vince il cantore
della Sistina che ascolti rilassato
per quel tanto di transfert (a Vienna) Sigmund,
coi tuoi lettini d’amore sempre pronti,
ma pure il Crocefisso alle nostre spalle
 quei piccoli prefissi o appena un suffisso,
narcisista dominante o dipendente?
That’s is rhe question, ovvero è qui il dilemma,
né dove Malone Muore o quei Dubliners
o lungi dai lindi cimiteri inglesi
dal gioco dei sapienti croupiers l’azzardo,
non sei tu, ragazza d’aria, a mirare
le vetrine d’Europa, il nuovo corso
(un euro oggi, uno domani e vivo)
dove l’argot, lo slang il vernacolo e via
la bestemmia di mio nonno a maledire
il dialetto, poi ci saranno i cotillons,
Il processo (“Qualcuno doveva avere
calunniato Josef K. se quella mattina”),
e semmai pure i girasoli di Van Gogh
le belle mazurke del pallido Chopin
o Il porto sepolto le bigie tartane,
(battaglie perse non sono le peggiori
fu solo un lungo malinteso la Storia) e
Napule  pur’essa requie va cercanno e
che oscure guarigioni per fede a Lourdes
anche noi, Madonna, un libro e un editore,
stasera dovrò rasarmi bene, per
l’omino vecchio e lacero che nel metrò
ci vende lupini e l’olio santo e poi
sous le Pont Mirabeau coule la Seine,
ma ora attento gondoliere briaco e stanco,
da Nord a Sud, soltanto eurobarcarole
e via dovremo rasarci per bene.

(da: la materia dei sogni 2004)


 A colloquio con l’Autore
(Intervista di Mario M. Gabriele)
Quando anni fa manifestai a Colucci la mia intenzione, già da un poco vagheggiata, di dedicargli un saggio monografico - da far nascere nella nostra amata Terra molisana- lessi subito sul suo un po’ attonito, stanco volto un’espressione di stupito disappunto. E, trascorsi i primi momenti di interrogativo silenzio, mi sentii dire che lui, cose del genere non ne aveva mai pensate e tanto meno chieste; che s’era fermato a qualche sporadica prefazione - genere di cui si considerava non simpatizzante, con le debite eccezioni- ed alle recensioni, nate qui e là per la Penisola. Solo una volta, a Napoli -nel 1993-, prima di entrare nel lungo tunnel di malattie da cui stava appena uscendo, Carmine Di Biase, dell’Università di Salerno, gli aveva voluto dedicare un breve profilo critico, cui teneva molto: così concluse, come avesse voluto liquidare lì l’argomento, mentre lo sguardo —ancora un poco spento- sembrò come illuminarglisi appena. Sapevo bene che nemmeno a Napoli, -dove egli ha sempre vissuto ed operato giuntovi in fasce dalla natia Riccia (nel Molise)- qualcuno se n’era preoccupato mai, sulla scontata scia del Nemo propheta in Patria!
Sicché quel discorso, là finì, non desiderando più nessuno di noi due, forse, approfondirlo. Mi dissi, però, che non mi sarei dato per vinto, anche per la profonda stima che ho sempre nutrita per Colucci: da me —e non solo da me—ritenuto il più significativo scrittore vivente della latitudine Abruzzese/molisana, considerando anche la sua ragguardevole produzione narrativa —ed, episodicamente, saggistica- accanto alla prevalente attività di poeta: che certamente ha operato spinte innovative e rinnovative in terra di poesia, già dagli anni Settanta, molto apprezzate da buona parte della critica. Inclusa una parte di quella che non ha disdegnato e non disdegna di rivolgere uno sguardo anche al Sud, dal “lontano” Nord: di quella, per intenderci, che in assoluto non si identifica con i vari Cucchi e Giovanardi e le loro un po’ imprudenti conclusioni neganti l’esistenza di Poeti degni d’esser ricordati in cinque regioni del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna). Ma non sono stati e non sono i soli a praticare questa sorta di “leghismo” letterario strisciante, come pittorescamente si esprime Daniele Giancane in una delle ultime, ahimè neglette, antologie dedicate al Sud (Vertenza Sud) e, detto francamente, anche malfatta ad opera di taluni compilatori regionali poco provveduti! E si ritornerebbe, purtroppo anche qui, al fatidico Nemo propheta in Patria….
Di Napoli e della Campania invero non mi sono mai molto interessato. Ma, in genere e fatte le debite eccezioni di cui sopra abbiamo -seppure fra le righe- citato un esempio di grande disinformazione-, anche nella sua Patria di adozione, il Nostro riscuote una meritata stima, ben presto allargata al campo nazionale, come già accennato. E basterebbe qui ricordare la folta schiera di letterati suoi manifesti estimatori: da Accrocca a Baldacci, a Bassani, a F. Bruno, a Forti, a Manacorda, a Pomilio, a Prisco, a Ravegnani, a Sereni, a Spagnoletti, a Squarotti, ecc., per ricordare solo taluni nomi di più ampia risonanza.
Eppure, Carlo Felice Colucci, ripigliando il discorso della sua più che quarantennale attività letteraria, mi confidava di avvertirsi come spaesato, in qualche modo, dopo essersi ridestato —per fortuna dal lungo letargo patologico ed essersi affacciato, timidamente quasi, sopra l’attuale orizzonte letterario, piuttosto diverso da quello lasciato parecchi anni addietro ed, in genere, assai meno accattivante. Non si rendeva conto, ad esempio, della strabocchevole fioritura di neonarratori, pubblicati -fra l’altro- anche da primarie case editrici.

Immagina, sebbene qualcosa tu già sappia”, mi disse quasi come confessandosi e non senza una certa reticenza “che tutti i miei romanzi furono regolarmente respinti dalle grosse case editrici, tranne l’ultimo pubblicato dalla Rusconi con il viatico del compianto amico Mario Pomilio. E che, per ottenere la pubblicazione di una decina di poesie sul prestigioso Almanacco dello Specchio Mondadori, apparse col titolo di Check-up nel 1983, occorsero vari travagliati, per me, anni di attesa sotto l’egida di Vittorio Sereni e di Marco Forti, e dopo che Bassani generosamente s’era offerto per una presentazione che, infatti, stilò: comunque, sono rimasto sempre molto grato a questi scrittori e - soprattutto - all’ottimo Marco Forti. Ma fu tale lo shock, per così dire, che poi non riuscii mai più ad inviare un mio testo completo di liriche presso nessuna delle massime collane di poesia esistenti in Italia. Temendo un quasi certo rifiuto, accompagnato dalle solite -odiose- letterine di prammatica. Alle quali, “aggiunse contrariato”, avevo ormai quasi fatto il callo, per così dire, riguardo alla narrativa. Ma per la poesia ho sempre pensato che non avrei sopportato impunemente quei rifiuti ben confezionati e, molto spesso, riservati agli scrittori del Sud più o meno profondo; ai quali è stato quasi sempre negato l’accesso alle collane mondadoriane, einaudiane, garzantiane e così via, quasi sempre un po’ riservate -per non dire altro- salvo miracolose eccezioni a conferma della regola: eccezioni che a me non toccarono mai in sorte”.

“Comprendo bene; e noi tutti, quaggiù, ne sappiamo qualcosa, pur senza volere ingigantire il fenomeno. D’altronde vige sempre il bell’adagio “habent sua fata libelli” e, perché no?, scriptores ! Ma ora un’altra domanda mi intrica, in apparenza appartenente alla sfera dei cosiddetti luoghi comuni, ma che in realtà non lo è. E ti chiedo perché si scrive?”

Scrivere, come leggere, vedi, io credo sia essenziale nella vita; dalla parte di chi scrive e, reciprocamente, di chi legge. Flaubert diceva che leggere non significa divertirsi (intrattenersi), non significa istruirsi, bensì vivere. Ed io estenderei una tale bella asserzione agli scrittori: lo scrittore, piccolo, o grande che sia, purché in qualche modo degno dell’appellativo e del ruolo, se non scrivesse, metaforicamente morirebbe. E, talvolta, si ammala proprio fisicamente a causa d’una forzata inattività. Ciò premesso, è piuttosto opinabile ed ha fatto il suo tempo, secondo me, quel famoso, banale adagio che: si scrive per sé, si dipinge per sé, e così via. Sarebbe troppo facile, troppo semplice una conclusione simile. L’artista - scrittore, pittore, musicista che sia - opera sì in quanto spinto dal bisogno creativo, insopprimibile, ma vuole, deve, anche riuscire a comunicare agli altri almeno qualcosa della propria creazione, piccola o grande che sia. Lo ha energicamente sostenuto - ed a più riprese — un nostro grande poeta che ho sempre molto amato: Alfonso Gatto”.

“Hai perfettamente ragione. Viceversa il tutto si ridurrebbe a una forma di esercizio piuttosto sterile, ripiegantesi sull’Autore e con lui destinato a nascere ed a morire!”

Esatto: sarebbe, se si cancellasse l’opera finita, il libro stampato, il dipinto incorniciato, insomma, una mera manifestazione di autoerotismo, solo masturbatoria, a così dire: mentre l’artista ha l’esigenza, anch’Egli, di fare all’amore. Di farlo col fruitore dell’opera, con il lettore. E, naturalmente, più lettori ha e più all’amore fa! Quindi, per concludere, io ho sempre asserito che l’esprimersi sia prioritario per qualsiasi artista. Ma che se poi quest’artista riesce anche e bene, a più o meno comunicare, Egli così raggiunge la meta ambita, la sua massima soddisfazione di creatore d’arte. Io, ti confesso altresì, che quando ho terminato di scrivere una poesia, un racconto, ecc., miro letteralmente a ricorrere alla lettrice mia moglie: la quale, da buona pittrice con una propria sensibilità artistica, talvolta mi elargisce anche ottimi suggerimenti”.

“Ma se questo è stato il passato -seppure un po’ deludente rispetto alle tue aspettative di scrittore-, quali i progetti per presente e futuro, ora che sei fuori da quel terribile tunnel di malattie?,” chiedo a Colucci.
Ed Egli, pacatamente ma con voce ferma, mi anticipa in qualche modo ciò che in pentola già bolle, dicendomi subito che è in corso di stampa (uscirà per i tipi di Alfredo Guida, entro il dicembre) una nutrita raccolta di elzeviri, interviste e note, in massima parte pubblicate nei primi anni Ottanta sul quotidiano napoletano “Il Mattino”.

Ho preferito rivolgermi all’editore Guida, gloriosa firma dell’editoria napoletana, gruppo editoriale in espansione, piuttosto che “mendicare” un’improbabile pubblicazione oltre il Garigliano; anche perché “ho fretta” di rivedere —dopo tanto- un mio libro. Dopo tanto forzato e penoso silenzio”.

Poi mi parla delle poesie, mentre nei suoi occhi azzurri si riaccende quella enigmatica luce che ormai gli conosco bene quando si tira in ballo la ”nostra” adorata poesia.
Ne possiede una nutrita silloge composta da un gruppo di oltre venti liriche scritte fra il “92 e il 95” (prima della caduta, precisa!) e da un più nutrito gruppo scritto fra il 2000 ed il 2001:circa una cinquantina.

Ebbene, caro Gabriele, per la stampa di queste poesie, intendo “lottare”. Finalmente le invierò presso lo Specchio mondadoriano (quella collana che già mi tenne a battesimo dei grandi editori nel 1983), la collana “bianca” di Einaudi, la Garzanti, ecc. Ho però un desiderio, prima: di pubblicare un librettino col per me “mitico” Scheiwiller, rimpiangendo io molto la perdita del grande Vanni e quella del favoloso marchio “All’insegna del pesce d’oro”.

“Vedo che stavolta sei deciso a mirare in alto; penso che un poeta come te ne abbia ormai tutto il diritto”.

Io, francamente e presunzione a parte, immagino di sì. Decisamente di sì. E’ come una sorta di piccolo, onesto risarcimento che infine mi spetta; convinto come sono che i miei elaborati poetici, passati e presenti, possono ben reggere il confronto con quelli di molti, ma di molti poeti del Nord -visto che ci hanno costretti ad una tale assurda "separazione"-, e, talvolta, uscirne perfino vincenti. A parecchi dei quali Mondadori o Einaudi, ecc. hanno già stampato più di una plaquette. Io fermamente
credo di aver diritto almeno alla stampa di un libro… Non mi arrenderò facilmente, stavolta, né mi appagherò delle belle letterine ben confezionate ad uso dei “gonzi” del Sud! Sebbene debba -per obiettività- ripetere qui di non avere mai inviato, finora, ad una delle suddette collane di poesia un mio manoscritto”.

“Ma tu non pensi che oggi qualcosa finalmente sia cambiata rispetto —mettiamo- a cinque anni fa?

Lo spero, voglio sperarlo, ma -sinceramente- non lo credo. E ti dirò anche il perché di un tale mio scetticismo. Tu forse, non hai avuto occasione di avere tra le mani una delle più recenti -forse la più recente- antologia di poesia, dal bel titolo “Il pensiero dominante, Poesia italiana 1970-2000,” a cura del “dialettale” Franco Loi, operante a Milano, e dell’emiliano Davide Rondoni, di cui invero non ho mai udito parlare prima d’ora: ma sarà certo una delle mie tante lacune. Ebbene, questi due poeti di differente età ed estrazione - come il Loi ripetutamente precisa nella sua non molto chiara introduzione -, hanno avuto il coraggio (sic!) di includere nella loro “opera” ben l’85% circa dei poeti del Nord - più o meno giubilati -, alcuni poeti del Centro, e pochissimi del Sud limitatamente ad operatori per lo più “dialettali”. Ergo, con tutti i distinguo e la richiesta venia per le (volute) omissioni su cui il Loi si arrabatta nella predetta introduzione, al Sud -e forse anche al Centro- NON esistono poeti di gradimento dei due superbi curatori.
Beati loro che sono così esigenti. Io, allorché mi è capitato di parlarne, NON sono stato tanto esigente coi colleghi (sodali ?!) del Nord”.

“Non posso che darti ragione tutta la ragione del caso, naturalmente, rifacendomi banalmente alla “solita storia del pastore.” Ma, lasciando da parte queste autentiche tristezze, cos’altro di bello vai preparando oltre le ormai già pronte poesie?”

Si, lavoro anche ad un libro di racconti, sperando che il Padreterno mi conceda la salute per portarlo a termine. L’avvenire essendo -ahimé- sempre nel grembo non troppo ospitale di Giove!

“Te lo auguro di vero cuore, caro Colucci, ben consapevole che potrai ancora darci tanti bei libri.”

Credo, a questo punto, di avere in qualche modo esaurito l’interessante colloquio con Colucci, ma ho la netta impressione che il Nostro voglia dire ancora qualcosa, quasi come a trovare un più concreto finale al discorso. E nel mentre mi stringe forte la mano, a più riprese, con aria rattristata, infatti, soggiunge:

Sai, al termine del nostro colloquio, non posso non confessarti anche, come, a volte, la fredda mano della depressione, che per anni mi ha torturato, torni a sfiorarmi. Ed allora, per un attimo, vorrei adagiarmi in una sorta di quieta fine e tutto dimenticare magari sussurrando: “Oh allora sballottati, / come l’osso di seppia dalle ondate / svanire a poco a poco”. Perché, vedi, anch’io ho sempre creduto — con Emile Cioran- che la vera quiete, contrario dell’indifferenza, il vuoto, insomma, possano dare come la massima percezione raggiungibile di benessere ”solo quando nessun pensiero sfiora il mio spirito”. E non per parlare di meste cose — giacché ci siamo! — ti voglio altresì confidare di avere scelto per la mia sepoltura, speriamo il più tardi possibile!, il bel Cimitero degli Inglesi, di Napoli, e di avere espresso la volontà che sulla mia lastra tombale sia apposto pure il verso di Ungaretti da me più amato: “La morte si sconta vivendo”.

Orbene, questo colloquio — come forse il lettore meglio capirà appresso — avveniva alcuni anni fa, oltre un lustro per l’esattezza: quando appunto venne subito dopo dato alle stampe il volume “Poesie, 1960 — 2001”, di cui il presente è la legittima continuazione. E chiusura. Anche perché Colucci ha deciso, come si è detto, di non pubblicare più versi…E qui non possiamo — quasi a proseguimento ed “epilogo” del colloquio — non riferire, senza commenti, quanto l’Autore molisano ci ha raccontato della propria vicenda “editoriale” dal 2001 ad oggi. In breve: i non pochi “sogni” di Colucci, a pubblicare presso il mitico Scheiwiller dai big Mondadori, Einaudi e Garzanti, ecc., sono miseramente naufragati: “costringendolo” a stampare la produzione in versi degli anni 2000, come più avanti risulterà, presso piccoli editori, talvolta in odore di anonimato! Il che significa — lo ribadiremo nel capitolo Finale di partita — che anche un ottimo poeta del Sud, oggi ancora più di ieri, non può mirare alto, né in campo editoriale, né in campo critico — saggistico. Più o meno destinato com’è ad una sorta di relativo cronico oblio.

(Tratto da Colucci, un'antologia con interventi critici di Baldacci, Squarotti, Bassani, Betocchi, Di Biase, Forti, Manacorda, Pomiglio, Spagnoletti etc, 1963-2006)



sabato 7 novembre 2015

POESIA ITALIANA

ALBERTO MARIO MORICONI
(1920-2010)

IL CASO ALBERTO MARIO MORICONI
di Mario M. Gabriele

Di tutti i fatti e i misfatti compiuti nella lunga storia delle omissioni, tra i tanti nomi illustri o pochi noti, ricordiamo Testori, messo al bando più per la sua fede cristiana che per i suoi scritti, o ancora Sinisgalli, Bigongiari, Parronchi, Accrocca, Pierro, e quelli dell’area marxista presenti in La giovane poesia di Enrico Falqui, e i tanti polverizzati dal tempo, appartenenti alle varie generazioni: la quinta, la sesta, la settima ecc. tutti desaparecidos abbandonati nelle loro patrie regionali, o extraoceaniche e ai quali nessuna antologia o storia letteraria, si assumerà mai il compito di dare onore e giustizia.
Qui, tra i tanti esempi ricordiamo anche Alberto Mario Moriconi, mal tollerato nell’ambiente campano fatto di poeti bizzosi e individualisti.
Desiderando in questa sede superare il discorso di una eventuale linea napoletana, che non si addice al Nostro, per ragioni estetiche, tematiche, psicosoggettive e quant’altro, ci pare giusto collocare Moriconi (1920) nel diagramma delle voci metasperimentali, di carattere trovadorico, storico, aedico ecc.
In quest’area Egli si distingue per il vitalismo linguistico in cui l’ironia e il sarcasmo si associano ad un persistente stato di verifica dei dati presi in esame e provenienti da un protocollo poetico storico e contemporaneo, sottoposto a continue indagini e prelazioni di verità. Da qui l’uso del significante dalle diverse affinità culturali: un vero e proprio assemblage di tecnica letteraria e di coesione con i ritmi popolari e giullareschi, fino a trovare le ragioni di una poesia estetica ed etica, giocosa e malumorosa, che rimettono in gioco i segni del mondo e un pessimismo esistenziale come nel testo Fortuna del volume Decreto sui duelli, Laterza, 1982, /Caddi io, così; da zero al doppio / zero: versi che ci riportano al principio delle irreversibili conclusioni riduttive del nostro essere qui e ora.
Che sia questo un carteggio di un poeta con una visione umana del mondo, non ci sembra un’ipotesi azzardata, specie se andiamo ad esaminare il volume Dibattito su amore, Laterza (1969), che è un’appassionata esposizione di fatti ed eventi di cui il testo La tedesca al bosco calabro ne è un vivo esempio di speranza e sacrificio: un dilatare del sentimento come momento di sogno e di fede con ”gli occasionali eroi e le altrettanto occasionali vittime illustri e umili, innocenti e no, che sono chiamati dal poeta a testimoniare, o confessare, con lui, su altri punti, le solitudini, le viltà, le protervie, i furori dell’homo sapiens ormai onnisciente”. (Paolo Ruffilli Q/G. nn.37-38, luglio-agosto 1977, pag..57).
Su un piano generalmente epico si colloca Un Carico di mercurio, Laterza (1975); titolo di forte impatto ecologico, che non disdegna il senso di denuncia contro l’ambiente e il potere visti come soggetti primari nel testo Le inquinatore,pag.118, dove meglio si concentrano le forme del degrado. Tutto il volume è un autentico repertorio di occasioni poetiche millimetrate nella lunghezza della realtà in un procedimento verbale incisivo e autenticamente originale. Decreto sui duelli, Laterza (1982) è un ulteriore esempio e riconferma di una scrittura dal ritmo narrativo, dai diversi piani espressivi caratterizzati da commedia e tragedia, orrori e crudeltà storiche, con un suggestivo ricordo del sacrificio delle masse nomadi, come risulta nelle tre sezioni del testo dal titolo Nomadi, pag.7, anche se si tratta di storia datata, ma mai inattuale e sempre iscritta a futura memoria: ”convennero, compresse…./ in vagoni / piombati / ad Auschwitz, a Dachau… / Sempre cantarono, ballarono, incitavano, / fuori delle baracche, i bimbi, / malritti, scheletrici, / ai balli /, prima che in fumo migrassero al cielo”.
La poesia di Alberto Mario Moriconi può essere paragonata ad un diagramma supportato da un trend linguistico, che difficilmente trova assestamenti in basso verso una stasi cronica dell’azione verbale. Del tutto personale è l’attitudine ad attualizzare gli eventi esterni, attraverso l’uso reiterato degli attacchi ludico-satirico-epigrammatici, sfocianti nel più generale senso critico della riflessione morale, larvata o sottintesa. Sue ed uniche sono le frammentazioni sintattiche per accedere in diversi campi oggettivi e riportare allo scoperto temi e personaggi, sempre al centro di situazioni drammatiche in una fitta serie d’interventi stilistici, tra citazioni e allitterazioni, scambi plurilinguistici e reportages cronachistici, che vanno a caratterizzare i racconti poetici, correlati alla storia passata e a quella recente.
Ed è proprio questo il senso degli stili e dei generi letterari di Moriconi proposti in tutti questi anni, che gli hanno consentito di duellare con la poesia, con la punta dell’ironia sostanzialmente riflessa anche nel volume Il dente di Wels, Pironti (1995), che si apre ad una piccola Commedia umana, come Nella casa del Libro (Lamento a quattro voci), esposta a rappresentazioni postume, riguardanti il consuntivo della vita del poeta e il senso dello scrivere versi, il vano scrivere come dice lo stesso Moriconi: tutto un librosario da sradicare post mortem da parte dei sopravvissuti:“S’io morrò (Dio non voglia), appena fatto, / voi spianerete le costole /dei miei libri) ai vostri / muri, dico te, mòglietta, e figli; vi dite: / “Se, appena, costui sarà….ito / (oh possiamo parlarne senza scrupoli, / mica intendiamo eliminarlo, mica / l’avremo avvelenato, noi) – ne parlo! – diroccheremo quest’anomalia, che ci attanaglia / e soffoca, di casa nostra,/ sradicheremo il librosario / estirpo qui tu estirpa là”, ma è anche un messaggio di arte e vita, natura e storia, virtù e fortuna, come si legge in quarta di copertina.
Il volume affronta i fatti e i misfatti della Storia, tra inni goliardici, happening poetici e cronache di delitti eccellenti, che si vengono a realizzare all’interno di una poesia costituita da elementi espressivi diversi; gli stessi che troviamo in: Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti Pironti Editore (1999); assieme ad un piccolo album di ricordi di scrittori che rispondono ai nomi di Li-Po, Leopardi, Laforgue, Pindaro e Rimbaud, con l’autore medesimo, che con vario animo, tono e metro, li ricorda e si ricorda. (Nota editoriale). Esemplificando al massimo i giudizi espressi dalla critica sull’opera di Moriconi, riportiamo quello di Giuliano Manacorda apparso su Rinascita del 13 marzo 1970: “Non molti sono in Italia a coltivare, ad alto livello e come accento normale del proprio poetare, la poesia satirica. Moriconi lo fa con quel piglio sarcastico, con una tale imprevedibilità di sortite e una così ricca fusione di temi seri e del loro rovesciamento, da poter essere considerato forse un caso unico. In realtà, la definizione di poesia satirica, dice assai imperfettamente nei confronti della sua produzione, che è cosa assai complessa” .
Sulla poesia di Moriconi si può discutere a lungo circa l’uso dell’ironia di fronte agli orrori o alle cronache storico-sociali, ma non si può negare che in merito ad alcuni elementi seri, come per esempio la morte o l’ingiustizia, o ad altri temi di più ampio interesse, vi sia un forte sentimento umano che traspare più di quanto si pensi o si legga nei suoi volumi.
Moriconi ha posizionato la poesia su parametri linguistici che ci riportano ad un raffinatissimo aggancio con la letteratura popolare, i cui testi ci inducono a rimarcare un giudizio di Armando Maglione nella sua relazione sulla poesia a Napoli negli anni Quaranta, quando rileva già da allora, l’interesse di Moriconi per la realtà sociale, la cronaca e la storia, che animano quella sorta di “drammaturgia” poetica, moralmente risentita, e stilisticamente contaminata e trasgressiva che sarà la sua personalissima cifra confermata nel corso del tempo in tante short stories che sono libri di vita inseriti autonomamente nel complesso e variegato mondo della poesia italiana.



Alcuni testi di Alberto Mario Moriconi:

La mosca di Lindbergh

Si sa e si saprà sempre di Charles Lindbergh pilota
della prima trasvolata senza scalo dell’Atlantico:
quello che pochissimi sanno è che egli ebbe
a bordo del fragile monoposto – lo Spirit of St.
Louis – un’importante passeggera: dico una mosca.
.
La prima clandestina che trasvolò
New York-Paris, quella cosina,
il comandante se la scoprì, diciotto e quindici,
un bambinone
biondo, una brunettina,
che dal quadrante (mossa da fame?)
dell’altimetro, tutta un tremito
e minutina come è
un dittero,
lo affrontava! (mossa da fame?). Avesse
gridato, lui, e saltava… Gran Dio! Sotto,
le immense lingue e schiume d’azzannìo….
(lei tutto ignorava d’oceani, terrona del Kansas:
la forosetta, del Kansas).
Ma il bambinone
abbozzò,
la ignorò, trasse due sorsi dal termos.
La clandestina s’occultò.
“ E stia..”
il primo “ New York –Paris”
cartone e spago
-come una vecchia valigia –
e spirito di Saint Louis
“ Stia stia, Miss. Due alucce non guastano
in più, di riserva al mono-
plano, al mono-
posto, al mono-
motore: solo bi-
pala l’elica.
E or la brunetta bïala “
rise Charlie, cercandola: “Via via,
Miss, esca. E mi dica,
che, chi a Paris l’aspetta? A chi, beato, sì
graziosa e ardimentosa vola brunetta?”
soffia
soffia sull’acque,
spirito di Saint Louis,
cartone e spago
Or la compagna di Lindbergh dormiva
cinta di stelle, obliosa di tele
di ragno, che forse fuggiva
dal Kansas, da New.
E a lui, l’aquila
giovane, ancora ignara
di ragne, più truci, umane, (1)
un punto
lui solo di sangue e d’anima
sopra i notturni oceani,
ebrïetà
eterëa di stelle e sogni;
e il pulsar dei pistoni, docile faustamente
monotono, oramai
ammalïava, il remeggio fluidissimo,
a un puerile sonno…..
si riscoteva
picchiando a dritta
e a manca l’ala,
o evoluiva libellula
l’aquilotto
e canticchiava un’arietta di favola
western, di carovane.
Ventinov’ore, due sorsi al termos.
Ma pur le palpebre calano, Lindbergh s’assopisce.
Tre, forse cinque, minuti, o dieci, e il velivolo cala,
lenta la cloche, all’acque,
ma dolce cala
spirito di Saint Louis….
Guizzò, ella! via su!…
Rientrò:
lo picchiettò (vellicò) al naso: riaprì
gli occhi lui abbrancò
la cloche.
Digrignò
le schiumose mandibole l’Oceano.
E a dritta dell’aquilotto fiorì
un primo gabbïano,
e altri
e altri,
bianco di sé scriventi in cielo “WELCOME”.
“Ci siamo, darling,ci siamo, baby….
no, bébé, à Paris. Thanks – no, merci –
amica mia…ma come
ti chiami?… Laggiù! laggiù!
è Le Bourget, bébé !”
Trionfò
la bionda aquila degli oceani.
– Il nome,
però, almeno, della compagna….Sparì. –
Trionfò sonnolento su urla dal buio e su fiaccole:
lei vi sparì.
Chi sa se la mosca del Kansas
trovò chi cercava a Paris.
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(1) Cinque anni dopo patì il rapimento e l’uccisione del figlioletto.

Fortuna

Gridar “Fortuna! ficca
un chiodo d’oro nella tua ruota” (1)
non potei, non la scorsi
neppure girar la ruota. Quando
godetti l’attimo
– vorticare
vorticare il suono
d’essa non colsi –
lo volli merito
mio: nessuna
bontà del Cielo, sull’idiota
nessun influsso
di luna
Cade così l’impero
a uno scettro ebro di sé, derisi
gli astri:
così l’Empire
all’ivre
Empereur, (2) all’impérieux
mépris.
Caddi io così : da zero al doppio
zero.
E ricaddi. E sempre,
col mio sprezzo, nel mio stazzo,
ancor non pago, sguazzo e annaspo credulo
in me, e che sia
virtù una cosa, e uscir dal brago stia
in me:
mai
mi son visto tuo ragazzo,
guercia.
(da: Decreto sui duelli, Laterza, 1982)
(1) Così un personaggio di Lope de Vega.
(2) Napoleone.

Piromani d’agosto
Nell’aria, un pianto…..d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
Zvanìi Pascoli “La quercia caduta”
Evoluivano pazzi fischiavano
intorno ai due alberelli fatti torce
nugoli insupponibili d’uccelli.
Allo sconvolto strido,
accorsi, d’alcuno di loro,
padre o madre a un nido, da ogni dove, al nido
arso e svanito.
Contro i vampanti e i fumanti crepiti uno stridio
crescente, un inaudito ora urlio, una frenetica
musica, una scomposta rabbïosa farandola
di ali e ali, quanti….
I due incendiarii
di più si ritraggono,
ma più eccitati, il perché si domandano
di tanta ressa e ridda ai lor falò: poi, no,
perplessi un po’….”turbati: non sospettano
il nido incenerito”. Che hanno fritto.
“Chi poco cuor sortì cuor non sospetta
in du’ alberelli”. Zitto, Zvanìi, ti prego. Hitchcock,
i tuoi, qui, uccelli i tuoi….!” (*)
(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(*) I terribili pennuti del film “The Birds”.

Alberto Mario Moriconi, nato a Terni, il 26 gennaio 1920, morto nel 2010. Penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia di Belle Arti di Napoli, collaboratore letterario di quotidiani e riviste per “Il Mattino” ha tenuto rubriche culturali. La sua opera poetica: Vortici, rupi, mammole, Gastaldi, 1952; Trittico fraterno, Milano, Ceschina, 1955; Anno mille, Padova, Rebellato1958; Le torri mobili, Parma, Guanda, 1963; Dibattito su amore, Bari, Laterza, 1969; Un carico di Mercurio, ivi, 1975; Decreto sui duelli, ivi, 1982; Il dente di Wels, Napoli, Pironti, 1995; Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, ivi, 1999; Non salvo Atene, ivi, 2007. Sue poesie sono state tradotte in più lingue.

lunedì 2 novembre 2015

POESIA IRACHENA

Dunya Mikhail 

(1965)


La partita

È soltanto una pedina
salta sempre nella casella opposta
non si volta a destra né a sinistra
non si guarda indietro
è mossa da una regina demente
che attraversa la scacchiera in lungo e in largo
e non si stanca di portare bandiere
e insultare gli alfieri
È soltanto una regina
mossa da un re sventato
che conta i quadrati ogni giorno
sostenendo che sono di meno
e prepara torri e cavalli
sognando un accanito rivale
È soltanto un re
mosso da un abile giocatore
che si rompe la testa
e perde il suo tempo in una partita infinita
È soltanto un giocatore
mosso da una vita vuota
in bianco e nero
È soltanto una vita
mossa da un dio confuso
che un giorno ha provato a giocare con l'argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.

Traduzione di Elena Chiti

Poesia n. 309 Novembre 2015
Dunya Mikhail. Il mito più forte della guerra
A cura di Elena Chiti