CARLO FELICE COLUCCI
(1927)
Eurobarcarola
Senti, gondoliere, per le tue lagune
quei remoti canti, i giorni della merla
e il cuore freddo passons
passons puisque tout
passe, dalle
Alpi, agli Appennini, dal Reno
October fest,
al Delta e alle sue nebbie lì, o
dove les neiges
d’antan (avanti c’è posto),
noi turisti a Dachau
matricola abrasa
a rivedere calcinar le ossa, il forno
acceso come quel pane fatto in casa,
Mater dolorosa, rotula e menisco
da cambiare presso
Piccadilly Circus
e una sterlina per mangiare in due, in quattro,
Big Ben, fu
dura quella notte a Coventry
e ancora un poco
di macerie nei cibori
senza ostie ormai
dei prevosti la gran fuga,
férmati a San Pietro, a Nòtre Dame, in piedi, e
qualcosa di gotico
per poco o niente,
non si sa mai, al mio computer spenti i vinti,
ed io scold! Leggo Praga
in silenzio. Ponte
Carlo, da impazziti violini agli ultimi
carri armati con granate, antiche schegge
nel riso dei pagliacci (un grande naso un neo)
dove il Danubio blu s’arrossa per un poco
e passa, magiari amici
per l’estremo
dei borghi antichi magia e i castelli
in cima lacere bandiere del Nulla o,
ma chi a stazionare nei metrò d’Europa
ai nostri insonni metrò di barboni e noi
distinti, lungo la Senna
bouquinistes
i miei vecchi libri vi chiedevo all’alba
giramondo, e, solo, fin di mezzanotte
al sole, giù giù fino al tuo Partenone,
Pericle, un giorno di filosofi attenti,
quei molti Cesari, cave
canem, i nostri, o
il colostro d’ancillae
e pergamene a iosa,
forse L’Evo Medio,
incruscate adunanze,
e poi non ti prende voglia di sapere
se l’amico d’un tempo è ancora vivo, là?
Meglio lettori a Oxford o alla Sorbona,
semmai, con l’ultimo volo a destra di chi
scrive una fine, una memoria già andata
(come il bianco vaporetto che salpava),
spento compagno di banco e di lezioni,
dal Tago alle dolci sponde in barcarole
d’addio, un concerto a San Lorenzo forse,
ràsati per bene, ma vince il cantore
della Sistina che ascolti rilassato
per quel tanto di transfert (a Vienna) Sigmund,
coi tuoi lettini d’amore sempre pronti,
ma pure il Crocefisso alle nostre spalle
quei piccoli prefissi o appena un suffisso,
narcisista dominante o dipendente?
That’s is rhe
question, ovvero è qui il dilemma,
né dove Malone
Muore o quei Dubliners
o lungi dai lindi cimiteri inglesi
dal gioco dei sapienti croupiers l’azzardo,
non sei tu, ragazza d’aria, a mirare
le vetrine d’Europa, il nuovo corso
(un euro oggi, uno domani e vivo)
dove l’argot,
lo slang il vernacolo e via
la bestemmia di mio nonno a maledire
il dialetto, poi ci saranno i cotillons,
Il processo
(“Qualcuno doveva avere
calunniato Josef K. se quella mattina”),
e semmai pure i girasoli di Van Gogh
le belle mazurke del pallido Chopin
o Il porto sepolto
le bigie tartane,
(battaglie perse non sono le peggiori
fu solo un lungo malinteso la Storia) e
Napule pur’essa requie va cercanno e
che oscure guarigioni per fede a Lourdes
anche noi, Madonna, un libro e un editore,
stasera dovrò rasarmi bene, per
l’omino vecchio e lacero che nel metrò
ci vende lupini e l’olio santo e poi
sous le Pont
Mirabeau coule la Seine,
ma ora attento gondoliere briaco e stanco,
da Nord a Sud, soltanto eurobarcarole
e via dovremo rasarci per bene.
(da: la materia dei sogni 2004)
A colloquio con l’Autore
(Intervista di Mario M. Gabriele)
Quando anni fa manifestai a Colucci la mia intenzione, già
da un poco vagheggiata, di dedicargli un saggio monografico - da far nascere
nella nostra amata Terra molisana- lessi subito sul suo un po’ attonito, stanco
volto un’espressione di stupito disappunto. E, trascorsi i primi momenti di
interrogativo silenzio, mi sentii dire che lui, cose del genere non ne aveva
mai pensate e tanto meno chieste; che s’era fermato a qualche sporadica
prefazione - genere di cui si considerava non simpatizzante, con le debite
eccezioni- ed alle recensioni, nate qui e là per la Penisola. Solo una volta, a
Napoli -nel 1993-, prima di entrare nel lungo tunnel di malattie da cui stava
appena uscendo, Carmine Di Biase, dell’Università di Salerno, gli aveva voluto
dedicare un breve profilo critico, cui teneva molto: così concluse, come avesse
voluto liquidare lì l’argomento, mentre lo sguardo —ancora un poco spento-
sembrò come illuminarglisi appena. Sapevo bene che nemmeno a Napoli, -dove egli
ha sempre vissuto ed operato giuntovi in fasce dalla natia Riccia (nel Molise)-
qualcuno se n’era preoccupato mai, sulla scontata scia del Nemo propheta in
Patria!
Sicché quel discorso, là finì, non desiderando più nessuno
di noi due, forse, approfondirlo. Mi dissi, però, che non mi sarei dato per
vinto, anche per la profonda stima che ho sempre nutrita per Colucci: da me —e
non solo da me—ritenuto il più significativo scrittore vivente della latitudine
Abruzzese/molisana, considerando anche la sua ragguardevole produzione
narrativa —ed, episodicamente, saggistica- accanto alla prevalente attività di
poeta: che certamente ha operato spinte innovative e rinnovative in terra di
poesia, già dagli anni Settanta, molto apprezzate da buona parte della critica.
Inclusa una parte di quella che non ha disdegnato e non disdegna di rivolgere
uno sguardo anche al Sud, dal “lontano” Nord: di quella, per intenderci, che in
assoluto non si identifica con i vari Cucchi e Giovanardi e le loro un po’
imprudenti conclusioni neganti l’esistenza di Poeti degni d’esser ricordati in
cinque regioni del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Sardegna). Ma non
sono stati e non sono i soli a praticare questa sorta di “leghismo” letterario
strisciante, come pittorescamente si esprime Daniele Giancane in una delle ultime,
ahimè neglette, antologie dedicate al Sud (Vertenza Sud) e, detto francamente,
anche malfatta ad opera di taluni compilatori regionali poco provveduti! E si
ritornerebbe, purtroppo anche qui, al fatidico Nemo propheta in Patria….
Di Napoli e della Campania invero non mi sono mai molto
interessato. Ma, in genere e fatte le debite eccezioni di cui sopra abbiamo
-seppure fra le righe- citato un esempio di grande disinformazione-, anche
nella sua Patria di adozione, il Nostro riscuote una meritata stima, ben presto
allargata al campo nazionale, come già accennato. E basterebbe qui ricordare la
folta schiera di letterati suoi manifesti estimatori: da Accrocca a Baldacci, a
Bassani, a F. Bruno, a Forti, a Manacorda, a Pomilio, a Prisco, a Ravegnani, a
Sereni, a Spagnoletti, a Squarotti, ecc., per ricordare solo taluni nomi di più
ampia risonanza.
Eppure, Carlo Felice Colucci, ripigliando il discorso della
sua più che quarantennale attività letteraria, mi confidava di avvertirsi come
spaesato, in qualche modo, dopo essersi ridestato —per fortuna dal lungo
letargo patologico ed essersi affacciato, timidamente quasi, sopra l’attuale
orizzonte letterario, piuttosto diverso da quello lasciato parecchi anni
addietro ed, in genere, assai meno accattivante. Non si rendeva conto, ad
esempio, della strabocchevole fioritura di neonarratori, pubblicati -fra
l’altro- anche da primarie case editrici.
“Immagina, sebbene qualcosa tu già sappia”, mi disse quasi
come confessandosi e non senza una certa reticenza “che tutti i miei romanzi
furono regolarmente respinti dalle grosse case editrici, tranne l’ultimo
pubblicato dalla Rusconi con il viatico del compianto amico Mario Pomilio. E
che, per ottenere la pubblicazione di una decina di poesie sul prestigioso
Almanacco dello Specchio Mondadori, apparse col titolo di Check-up nel 1983,
occorsero vari travagliati, per me, anni di attesa sotto l’egida di Vittorio
Sereni e di Marco Forti, e dopo che Bassani generosamente s’era offerto per una
presentazione che, infatti, stilò: comunque, sono rimasto sempre molto grato a
questi scrittori e - soprattutto - all’ottimo Marco Forti. Ma fu tale lo shock,
per così dire, che poi non riuscii mai più ad inviare un mio testo completo di
liriche presso nessuna delle massime collane di poesia esistenti in Italia.
Temendo un quasi certo rifiuto, accompagnato dalle solite -odiose- letterine di
prammatica. Alle quali, “aggiunse contrariato”, avevo ormai quasi fatto il
callo, per così dire, riguardo alla narrativa. Ma per la poesia ho sempre
pensato che non avrei sopportato impunemente quei rifiuti ben confezionati e,
molto spesso, riservati agli scrittori del Sud più o meno profondo; ai quali è
stato quasi sempre negato l’accesso alle collane mondadoriane, einaudiane,
garzantiane e così via, quasi sempre un po’ riservate -per non dire altro-
salvo miracolose eccezioni a conferma della regola: eccezioni che a me non
toccarono mai in sorte”.
“Comprendo bene; e noi tutti, quaggiù, ne sappiamo qualcosa,
pur senza volere ingigantire il fenomeno. D’altronde vige sempre il bell’adagio
“habent sua fata libelli” e, perché no?, scriptores ! Ma ora un’altra domanda
mi intrica, in apparenza appartenente alla sfera dei cosiddetti luoghi comuni,
ma che in realtà non lo è. E ti chiedo perché si scrive?”
“Scrivere, come leggere, vedi, io credo sia essenziale nella
vita; dalla parte di chi scrive e, reciprocamente, di chi legge. Flaubert
diceva che leggere non significa divertirsi (intrattenersi), non significa
istruirsi, bensì vivere. Ed io estenderei una tale bella asserzione agli
scrittori: lo scrittore, piccolo, o grande che sia, purché in qualche modo
degno dell’appellativo e del ruolo, se non scrivesse, metaforicamente
morirebbe. E, talvolta, si ammala proprio fisicamente a causa d’una forzata
inattività. Ciò premesso, è piuttosto opinabile ed ha fatto il suo tempo,
secondo me, quel famoso, banale adagio che: si scrive per sé, si dipinge per
sé, e così via. Sarebbe troppo facile, troppo semplice una conclusione simile.
L’artista - scrittore, pittore, musicista che sia - opera sì in quanto spinto
dal bisogno creativo, insopprimibile, ma vuole, deve, anche riuscire a
comunicare agli altri almeno qualcosa della propria creazione, piccola o grande
che sia. Lo ha energicamente sostenuto - ed a più riprese — un nostro grande poeta
che ho sempre molto amato: Alfonso Gatto”.
“Hai perfettamente ragione. Viceversa il tutto si ridurrebbe
a una forma di esercizio piuttosto sterile, ripiegantesi sull’Autore e con lui
destinato a nascere ed a morire!”
“Esatto: sarebbe, se si cancellasse l’opera finita, il libro
stampato, il dipinto incorniciato, insomma, una mera manifestazione di
autoerotismo, solo masturbatoria, a così dire: mentre l’artista ha l’esigenza,
anch’Egli, di fare all’amore. Di farlo col fruitore dell’opera, con il lettore.
E, naturalmente, più lettori ha e più all’amore fa! Quindi, per concludere, io
ho sempre asserito che l’esprimersi sia prioritario per qualsiasi artista. Ma
che se poi quest’artista riesce anche e bene, a più o meno comunicare, Egli
così raggiunge la meta ambita, la sua massima soddisfazione di creatore d’arte.
Io, ti confesso altresì, che quando ho terminato di scrivere una poesia, un
racconto, ecc., miro letteralmente a ricorrere alla lettrice mia moglie: la
quale, da buona pittrice con una propria sensibilità artistica, talvolta mi
elargisce anche ottimi suggerimenti”.
“Ma se questo è stato il passato -seppure un po’ deludente
rispetto alle tue aspettative di scrittore-, quali i progetti per presente e
futuro, ora che sei fuori da quel terribile tunnel di malattie?,” chiedo a
Colucci.
Ed Egli, pacatamente ma con voce ferma, mi anticipa in
qualche modo ciò che in pentola già bolle, dicendomi subito che è in corso di
stampa (uscirà per i tipi di Alfredo Guida, entro il dicembre) una nutrita
raccolta di elzeviri, interviste e note, in massima parte pubblicate nei primi
anni Ottanta sul quotidiano napoletano “Il Mattino”.
“Ho preferito rivolgermi all’editore Guida, gloriosa firma
dell’editoria napoletana, gruppo editoriale in espansione, piuttosto che “mendicare”
un’improbabile pubblicazione oltre il Garigliano; anche perché “ho fretta” di
rivedere —dopo tanto- un mio libro. Dopo tanto forzato e penoso silenzio”.
Poi mi parla delle poesie, mentre nei suoi occhi azzurri si
riaccende quella enigmatica luce che ormai gli conosco bene quando si tira in
ballo la ”nostra” adorata poesia.
Ne possiede una nutrita silloge composta da un gruppo di
oltre venti liriche scritte fra il “92 e il 95” (prima della caduta, precisa!)
e da un più nutrito gruppo scritto fra il 2000 ed il 2001:circa una
cinquantina.
“Ebbene, caro Gabriele, per la stampa di queste poesie,
intendo “lottare”. Finalmente le invierò presso lo Specchio mondadoriano
(quella collana che già mi tenne a battesimo dei grandi editori nel 1983), la
collana “bianca” di Einaudi, la Garzanti, ecc. Ho però un desiderio, prima: di
pubblicare un librettino col per me “mitico” Scheiwiller, rimpiangendo io molto
la perdita del grande Vanni e quella del favoloso marchio “All’insegna del
pesce d’oro”.
“Vedo che stavolta sei deciso a mirare in alto; penso che un
poeta come te ne abbia ormai tutto il diritto”.
“Io, francamente e presunzione a parte, immagino di sì.
Decisamente di sì. E’ come una sorta di piccolo, onesto risarcimento che infine
mi spetta; convinto come sono che i miei elaborati poetici, passati e presenti,
possono ben reggere il confronto con quelli di molti, ma di molti poeti del
Nord -visto che ci hanno costretti ad una tale assurda
"separazione"-, e, talvolta, uscirne perfino vincenti. A parecchi dei
quali Mondadori o Einaudi, ecc. hanno già stampato più di una plaquette. Io
fermamente
credo di aver diritto almeno alla stampa di un libro… Non mi
arrenderò facilmente, stavolta, né mi appagherò delle belle letterine ben
confezionate ad uso dei “gonzi” del Sud! Sebbene debba -per obiettività-
ripetere qui di non avere mai inviato, finora, ad una delle suddette collane di
poesia un mio manoscritto”.
“Ma tu non pensi che oggi qualcosa finalmente sia cambiata
rispetto —mettiamo- a cinque anni fa?
“Lo spero, voglio sperarlo, ma -sinceramente- non lo credo.
E ti dirò anche il perché di un tale mio scetticismo. Tu forse, non hai avuto
occasione di avere tra le mani una delle più recenti -forse la più recente-
antologia di poesia, dal bel titolo “Il pensiero dominante, Poesia italiana
1970-2000,” a cura del “dialettale” Franco Loi, operante a Milano, e dell’emiliano
Davide Rondoni, di cui invero non ho mai udito parlare prima d’ora: ma sarà
certo una delle mie tante lacune. Ebbene, questi due poeti di differente età ed
estrazione - come il Loi ripetutamente precisa nella sua non molto chiara
introduzione -, hanno avuto il coraggio (sic!) di includere nella loro “opera”
ben l’85% circa dei poeti del Nord - più o meno giubilati -, alcuni poeti del
Centro, e pochissimi del Sud limitatamente ad operatori per lo più
“dialettali”. Ergo, con tutti i distinguo e la richiesta venia per le (volute)
omissioni su cui il Loi si arrabatta nella predetta introduzione, al Sud -e
forse anche al Centro- NON esistono poeti di gradimento dei due superbi
curatori.
Beati loro che sono così esigenti. Io, allorché mi è
capitato di parlarne, NON sono stato tanto esigente coi colleghi (sodali ?!)
del Nord”.
“Non posso che darti ragione tutta la ragione del caso,
naturalmente, rifacendomi banalmente alla “solita storia del pastore.” Ma,
lasciando da parte queste autentiche tristezze, cos’altro di bello vai
preparando oltre le ormai già pronte poesie?”
“Si, lavoro anche ad un libro di racconti, sperando che il
Padreterno mi conceda la salute per portarlo a termine. L’avvenire essendo
-ahimé- sempre nel grembo non troppo ospitale di Giove!”
“Te lo auguro di vero cuore, caro Colucci, ben consapevole
che potrai ancora darci tanti bei libri.”
Credo, a questo punto, di avere in qualche modo esaurito
l’interessante colloquio con Colucci, ma ho la netta impressione che il Nostro
voglia dire ancora qualcosa, quasi come a trovare un più concreto finale al
discorso. E nel mentre mi stringe forte la mano, a più riprese, con aria
rattristata, infatti, soggiunge:
“Sai, al termine del nostro colloquio, non posso non
confessarti anche, come, a volte, la fredda mano della depressione, che per
anni mi ha torturato, torni a sfiorarmi. Ed allora, per un attimo, vorrei
adagiarmi in una sorta di quieta fine e tutto dimenticare magari sussurrando:
“Oh allora sballottati, / come l’osso di seppia dalle ondate / svanire a poco a
poco”. Perché, vedi, anch’io ho sempre creduto — con Emile Cioran- che la vera
quiete, contrario dell’indifferenza, il vuoto, insomma, possano dare come la
massima percezione raggiungibile di benessere ”solo quando nessun pensiero sfiora
il mio spirito”. E non per parlare di meste cose — giacché ci siamo! — ti
voglio altresì confidare di avere scelto per la mia sepoltura, speriamo il più
tardi possibile!, il bel Cimitero degli Inglesi, di Napoli, e di avere espresso
la volontà che sulla mia lastra tombale sia apposto pure il verso di Ungaretti
da me più amato: “La morte si sconta vivendo”.
Orbene, questo colloquio — come forse il lettore meglio
capirà appresso — avveniva alcuni anni fa, oltre un lustro per l’esattezza:
quando appunto venne subito dopo dato alle stampe il volume “Poesie, 1960 —
2001”, di cui il presente è la legittima continuazione. E chiusura. Anche
perché Colucci ha deciso, come si è detto, di non pubblicare più versi…E qui
non possiamo — quasi a proseguimento ed “epilogo” del colloquio — non riferire,
senza commenti, quanto l’Autore molisano ci ha raccontato della propria vicenda
“editoriale” dal 2001 ad oggi. In breve: i non pochi “sogni” di Colucci, a
pubblicare presso il mitico Scheiwiller dai big Mondadori, Einaudi e Garzanti,
ecc., sono miseramente naufragati: “costringendolo” a stampare la produzione in
versi degli anni 2000, come più avanti risulterà, presso piccoli editori,
talvolta in odore di anonimato! Il che significa — lo ribadiremo nel capitolo
Finale di partita — che anche un ottimo poeta del Sud, oggi ancora più di ieri,
non può mirare alto, né in campo editoriale, né in campo critico — saggistico.
Più o meno destinato com’è ad una sorta di relativo cronico oblio.
(Tratto da Colucci, un'antologia con interventi critici di Baldacci, Squarotti, Bassani, Betocchi, Di Biase, Forti, Manacorda, Pomiglio, Spagnoletti etc, 1963-2006)