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martedì 22 settembre 2015

POESIA SVIZZERA

STEVEN GRIECO
(1949)

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio.
Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare, e che l’uso del linguaggio, implicando l’interrogatività  dello spirito, è atto di pensiero. Non era Nietzsche che diceva che “parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?”. La questione del logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte alle frasi più astruse o ai sintagmi più impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. E nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre una nuova istanza che solleva nuove domande alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio o un metalinguaggio. La differenza problematologica (la differenza domanda/risposta) diventa una differenza stilistica. Abitualmente si intende per domanda una frase interrogativa, ma questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica, ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Ma in poesia le cose non sono mai così semplici e distinte; in poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in reciproca inimicizia.
Nella poesia di Steven Grieco è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo geometrico dal quale si dipana il verso. Ma qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il verso è la traccia di una ricerca, la via verso un luogo abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo la via tangenziale piuttosto che quella più retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, e più sensi interrotti costituiscono un senso compiuto, o quantomeno definito, anche se non definitivo. La poesia si dà per formale marcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite o con un ragionamento protocollare. In questa ricerca concentrica ed eccentrica la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea uno spazio che si apre al tempo, anzi, uno spazio fatto di tempo, ovvero, un tempo fatto di spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile temporalità. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad un destino, ad un accadere. Per Steven Grieco, l’esplicito è certo una risposta, ma una risposta becera perché vuole rispondere attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione, invece che attraverso lo spazio quadri dimensionale della comunicazione poetica. La sua poesia  abita  uno spazio osmotico e topologico che si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi “Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma” e accadono in una “sfera” come se fosse un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Le domande che occupano il locutore restano tacite, solo ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L'immagine e la metafora marcano il rotolare dell'io dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla “icona di Andrey Rublyov”, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo simmetrico e distopico a quello della icona, non si dà come illustrazione o come commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto allude e illustra un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se dissimile e distopico.

Giorgio Linguaglossa

I – Троица – Trinità del Vecchio Testamento

Sono apparsi in una sfera
staccata dal pneuma,
adesso guardano
il succedersi dei secoli.

Nevica.
La rozza pianura si sdraia,
stende le braccia all’orizzonte.
Sopra i suoi lamenti e tonfi
il muto giacere è perenne.

Nel profondo, miriadi di tremiti
si scindono, balenano, si spengono.
Ma uno si è avvicinato, crescendo,
è sgorgato inalberandosi fuori dal tempo
in un silenzio di respiro.

È diventato tre angeli
che rispecchiano
la prima neve sulla pianura
e la sua brutalità.

Nei loro occhi meravigliosi
si muove il patriarca di vento,
stringendo in mano un fascio d’ombre.

1973


            Trinità del Vecchio Testamento, icona di Andrey Rublyov

                           IL VIAGGIO

                              Parte prima

L’erba oscilla nello stagno
il faro preme sul mare annuvolato
un radar ruota sotto le stelle
vuoti i segni, il peso scomparso,
il pensiero sale su per gli occhi inerti
fra i violenti rami intrecciati
volando verso il grande respiro

Le mani a tastoni il cieco senso guida
le mani cercando. Un qualcosa di duro.
Tastano, palpano. Schiocco. Rugosa superficie, angoli, lati:
profonda volando. Non angoli: rotondità,
il profondo ritorna di scatto.
Poi afferrano, il senso cresce si forma
particelle di luce si muovono, viaggiano verso la mente
– fotogrammi, nero, grigio, più chiaro –
generano la pura immagine, memoria
di forma – un albero, frondoso nel vento

                                   Parte seconda

L’alba cola nel mare grigio dello spazio
la grande luce uccide le forme.
Seguendo gli occhi, il pensiero dilaga
nella cieca luminosità,
piatto e profondo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Fruscia un’ombra, si alza un corpo senza viso
si alza un corpo correndo

si alza correndo                              

si alza correndo                             

In questo luogo, tortura, morte.
Un grido scivola dalla gabbia
i rami della gabbia fremono,
conficcati nel cemento.

Questo luogo squamoso, morso da grida.

                                  Parte terza

Lucertola, lucertola, ascoltatrice, creatrice
di musica, fissa nei tuoi occhi

lucertola della sera, ricordo dal giardino...

Verso la luce si arrampicano le idee
la coda ancora nel buio.

La memoria apre,
è un puro lago di musica che s’increspa,
scrolla largo le sue torri d’acqua
si allarga nelle immagini di vento,
scrosciano libri, fogli
fino all’azzurra idea che sale alla vetta
all’impossibile
creazione

Nello stormire annuvolato di primavera
si muoveva il patriarca, girandosi dietro
il vetro di foglie stupite.

Era assorto in qualcosa; o forse
a qualcosa di scordato volgeva la sua attenzione.

                                     Parte quarta

Voci sommesse, bisbigli: da qualche parte lussureggia una vasta
zona di tremiti, le grandezze stellari creano oscurità,
si schiude un silenzio febbrile percorso
da piante e liane di suono

il pensiero spumeggia e sospira,
si spande e rispande

Un attimo rotto – un gesto, guardando stupito:
qualcosa scende giù,
la luce irrequieta va oscillando, mutando

Presagio. Fresco vento. Pioggia. Salute!

Nel ricordo aleggia una figura lievissima:
la casa presso il bosco, due gradini fino alla porta,
s’inginocchia piano davanti al patriarca,
scordata figura che forse avanzava, tendeva
la mano, avvicinandosi con lo sguardo
ad un tempo più remoto


Volando sotto l’alba verso il mare di nuvole,
calando, un vuoto d’aria, risalendo,
di nuovo calando, la memoria e le idee fuggivano
nel sonno incombente:

il faro scrutava cieco il mare annuvolato

il pensiero combatteva il sonno,
una profonda tristezza gravava sul petto.

6 October 1976



          
ON HIS 25TH BIRTHDAY

Andandomene così, nell’
improvviso riquadro di fari accesi
balza un’ombra al muro notturno
urta nella luce
cercando di ricordare

un cane travolto sull’autostrada di notte
come attraversare, le auto che corrono,
come riprendere il corpo
portarlo in salvo fra i fasci luminosi

(il cespuglio emetteva brani di musica
un trasognato uccello s’involò,
da tempo una tristezza pungente
era scesa sulla lastra-ricordo)

come attraversare le immense corsie
le auto che passano volando
il cane scomparso nel buio, balzando su
più morto nelle ruote di luce

Ora salgono schegge frantumi di poesia
un’immagine si apre franando
inghiottita dalla lente che stringe

raccolti in un punto, gli anni spersi,
funi sgomitolate, ruotano al cielo stellato

13 novembre, 1974

                                 MAHLER

irrompe una luce di trombe cadendo
un’onda di luce dove salgono
scalano sfere di note e trombe spaventate
stramazza per terra rabbuiata

nella musica che freme disfatta,
inutili smanie, immagini infrante
un rumore si storce salendo si schiude
si staglia un arco vibrando si apre volando

ombre barcollano nel vento notturno
si spegne il mare scosse di tramonto
impennate, tonfi, raffiche, ricordi di voci
scartano allucinate, pulsano forme d’ombra
irrequiete oscillano nel profondo
dove crescono idee multiformi
s’intrecciano infiniti rami pensanti
salgono gracili piante aprendosi
e tornano nel violento schema
nel nascere che distrugge

13 marzo 1975

       POEMS FOR MARC METRAUX IV

Sprigiona il musicista insegue
un purissimo suono
nella perfezione del vuoto

sprigiona, segue in alto la chiave
che accorda gli archi di luce

fuggono gli strali curvandosi
si spaccano, si fissano con fremiti

e le stelle pulsano nel buio
si forma una volta di musica

1975

             RONDINAIA: PRIMA DEL VIAGGIO

Esili valli, dirupi,
paesaggio venato di pioggia

mi sono svegliato
ascoltando, aprendo
gli occhi:
                si è schiusa nel corpo
una profonda chiarezza

sveglio al cielo annuvolato,
discendo piano tra rivoli e fruscii,
goccia capovolta
calo
          dentro lo stelo

universo riflesso
che racchiude tutto in sé

fino allo specchio d’acqua laggiù –
immobilità turbata
da un singolo ramo annerito.

Late winter 1976



                     

                    SAWAI MADHEPOR (I)

Da una pellicola che gira corrono antilopi nel bosco
e uccelli salgono nel cielo e riscendono. Lago.
Non vivendo, vivevano: non specchi né ombre.
Ma di questo lei s’imprimeva, e riflettendo,
era specchio d’ogni forma, ne era ombra.

Gira la pellicola, sparpagliava nel bosco gli animali,
mormorìo di pioggia sull’acqua, e grida
di grida di vita. Mai più veloce, mai più lenta,
gira sbiecando la realtà, srotolando in terra
l’immagine (che ordinata la bobina avvolge).

Scimmiotta nel riflesso quel tempo sublime,
era galoppo nel galoppo, pavoneggiarsi di voli
che tutto scordando spegnevano la tromba d’oro.
Girava l’immagine che non è, sognando.
Si avvolge la pellicola che si srotolava in terra.

gennaio 1980

                                   МЕСЯЦ  -  MESE

           Luna calante d’inverno. Uomini, animali, piante
si contraggono, accartocciandosi nel suo decrescere.

Dentro qualche velo di marzo.
                                                   Confuso stringere, confu
sa rotondità, confu

Di ieri e di domani le incontabili lune
non furono, non saranno. Sono. Suono sferico, cinereo,
spicchiando a levante o ponente. Forma-sempre.

Ma adesso declina la luna. Adesso crescita e pienezza staranno
nel suo decrescere.
                                 Nudi rami, sterpi
                                                                tonda contrazione

15 marzo, 1980

                              BOMBAY, SERA (1)

Non cielo, non luce profonda o nuvole.
Una brezza spingeva dal mare, i palazzi
schiamazzavano confusi in polvere d’ombra.
In alto, schiusa luce non era cielo, non nuvole.

Sventolando, le cose morivano le une nell’altre
perdevano ogni senso nel venire della notte.

Non pronto a morire, mai pronto, il giorno
moriva miracoloso: sbriciolava ombra di palazzi
fuggiva in alto, non era cielo, non luce, non nuvole.

Calando, scendendo, si cullava il giorno morente.
Era mattino, pomeriggio, tramonto. Era notte.

1980

COMMENTO DI MARIO M. GABRIELE

Quando  Steven Grieco scrive versi, fa uso della maggior parte  delle categorie retoriche, all’interno delle quali il transfert psicolinguistico diventa traccia di un percorso con più segnaletiche. Il reportage di determinati  eventi, è  correlato al pensiero  argomentante, che cela il doppio fondo di captazione interna ed esterna, da cui si può risalire in superficie,  facendo ricorso  a  scale  di proiezione, che costituiscono l’essenza stessa del fare o scrivere versi. Da qui il  significato di personalità poetica, determinato  da un rapporto inter-relazionale con la realtà. Si tratta, in altri termini, di gestire  la struttura linguistica portandola verso una  nuova Forma incontaminata, sorretta da una visione dinamica del pensiero  e dell’inconscio.  Del resto tutto ciò che ha portato la poesia ad essere principio del piacere, e per dirla con Barthes, del piacere del testo, è lo specchio di rifrazione che coinvolge il lettore e lo stesso poeta, senza l’allegorizzazione dell’io che non è mai ideale nella commutazione espressiva.  La non appartenenza ad una specifica classe linguistica, già omologata, consente a  Steven Grieco di inserirsi in un’area che la critica definisce “modernista ” e che  non si identifica  nella post-storia della poesia del secondo Novecento.


15 commenti:

Steven Grieco ha detto...

Grazie della pubblicazione di queste mie poesie, le prime che scrissi in lingua italiana, quando avevo da 23 a 30 anni.
Vorrei specificare come sono nate.
Visitai la Russia per la prima volta nel 1972: piena era brezhneviana, gelo(culturale) anche d'estate. O così sembrava. In realtà io ebbi la fortuna di conoscere, tramite una coppia di amici svizzeri, dei dissidenti, tutti poeti o critici letterari. Capii il grande fermento culturale che covava in Russia, ahimè tutto sotto le braci. Di questo parlerei volentieri un giorno.
Poi andai alla galleria Tretyakov, e lì ebbi la visione delle icone russe. Rimasi strabiliato, dopo il Rinascimento dell'Europa occidentale, lo stupore di questa luce, questi volti apparentemente impassibili ma in realtà forieri di strati più profondi della psiche umana,realtà, se posso dirlo, per niente religiose. La migliore tradizione delle icone russe ci parla dell'uomo, soprattutto della sua psiche, e lo stesso Cristo in esse spesso non è che un pover'uomo, un essere umano fragilissimo, con gli occhi che parlano di una realizzazione spirituale tutta sua, non necessariamente nostra - possiamo però apprezzarne tutta l'umanità, possiamo anche gioirne.
"Il Viaggio" invece è una poesia che nacque dopo aver io visto due film di Andrey Tarkovsky, "Andrey Rublyov" e "Solyaris". Dall'età di 14 anni leggevo letteratura russa, la divoravo, e quando vidi questi film mi sembrò che la grande stagione di quella letteratura potesse continuare nel cinema grazie a film così grandi e profondi come questo.
Nel 1975 avevo 25 anni e maneggiavo la lingua italiana come uno strano meccanismo di cui non conoscevo perfettamente il funzionamento.

Steven Grieco ha detto...

Seconda Parte:
"Sawai Madhepor" mi fu invece dettata dalla mia prima esperienza nella foresta dell'India del Nord, particolarmente quella del Rajasthan, che ha un clima tropicale arido. Tale foresta, o "jangal" (termine persiano che significa semplicemente foresta) consiste prevalentemente di una boscaglia spesso rada, talvolta molto fitta, ma con i caratteristici banyan (ficus bengalensis) che producono radici aeree dai rami, queste scendono negli anni fino a terra e quindi producono un nuovo albero. A Sawai Madhepor un antico banyan ricopre decine di metri quadri di terreno con il suo labirinto di tronchi.
Allora, in quel luogo, dove le tigri giravno indisturbate per la foresta, e noi quasi le toccavamo dalla jeep aperta, in quella foresta capii l'immensa fragilità del nostro ambiente. La foresta formicolava di cinghiali, orsi, pantere e tigri, gazzelle daini e antilopi, e sopra in cielo migliaia e migliaia di uccelli di ogni specie. E pensai che questo immenso intrico vivente viveva per grazia dell'uomo, pensiero amarissimo, se pensavo alla nostra avidità, la nostra condizione umana così cieca.
L'inevitabilità di tutto questo mi agghiacciò. Sapevo benissimo che l'uomo non potrà mai salvare il suo habitat, ma probabilmente ne creerà un altro, seppure più sintetico e artificiale. Piangevo dentro, sapendo che nel fitto di questa miracolosa e sovrumana boscaglia, io dovevo anche salutarla, dirle addio.
Nel pensiero indiano,a differenza, non esiste alcuna fine definitiva, così come è stata immaginata dal pensiero occidentale. E quindi si tratta solo di avere il coraggio di capire cosa verrà dopo. Ecco la bobina che avvolge, nella mia poesia, la realtà più grande del pensiero umano, è il mistero che lo stesso pensiero umano produce, ma che l'uomo non circoncinge.
La poesia "Mese" invece trae spunto dalla mia attentissima lettura dei poeti cinesi Tang, in cui troviamo spesso il senso del Vuoto taoista, quello stesso che appare anche nella pittura cinese. Il Vuoto in questo senso è la pienezza della parola inespressa, è l'attimo prima che inizi la cogitazione umana, è il terreno grigio e informe che contiene la pienezza di ogni pensiero, di ogni realizzazione umana, dell'apparire di questo mondo.
Infine, "Bombay" data anch'essa dal mio primo viaggio in India con mia madre, nel 1979. E' soltanto uno studio della luce, così diversa a Bombay dalla luce del Nord dell'Europa, o da quella del Mediterraneo o di New York o San Francisco, una luce tropicale che appunto polverizza l'ombra e crea sfumature di colore che io non avevo mai visto prima.
Ho scritto diverse poesie sulla questione della luce nel paesaggio. Questa era una delle prime. Grazie

Steven Grieco ha detto...

Seconda Parte:
"Sawai Madhepor" mi fu invece dettata dalla mia prima esperienza nella foresta dell'India del Nord, particolarmente quella del Rajasthan, che ha un clima tropicale arido. Tale foresta, o "jangal" (termine persiano che significa semplicemente foresta) consiste prevalentemente di una boscaglia spesso rada, talvolta molto fitta, ma con i caratteristici banyan (ficus bengalensis) che producono radici aeree dai rami, queste scendono negli anni fino a terra e quindi producono un nuovo albero. A Sawai Madhepor un antico banyan ricopre decine di metri quadri di terreno con il suo labirinto di tronchi.
Allora, in quel luogo, dove le tigri giravno indisturbate per la foresta, e noi quasi le toccavamo dalla jeep aperta, in quella foresta capii l'immensa fragilità del nostro ambiente. La foresta formicolava di cinghiali, orsi, pantere e tigri, gazzelle daini e antilopi, e sopra in cielo migliaia e migliaia di uccelli di ogni specie. E pensai che questo immenso intrico vivente viveva per grazia dell'uomo, pensiero amarissimo, se pensavo alla nostra avidità, la nostra condizione umana così cieca.
L'inevitabilità di tutto questo mi agghiacciò. Sapevo benissimo che l'uomo non potrà mai salvare il suo habitat, ma probabilmente ne creerà un altro, seppure più sintetico e artificiale. Piangevo dentro, sapendo che nel fitto di questa miracolosa e sovrumana boscaglia, io dovevo anche salutarla, dirle addio.
Nel pensiero indiano,a differenza, non esiste alcuna fine definitiva, così come è stata immaginata dal pensiero occidentale. E quindi si tratta solo di avere il coraggio di capire cosa verrà dopo. Ecco la bobina che avvolge, nella mia poesia, la realtà più grande del pensiero umano, è il mistero che lo stesso pensiero umano produce, ma che l'uomo non circoncinge.
La poesia "Mese" invece trae spunto dalla mia attentissima lettura dei poeti cinesi Tang, in cui troviamo spesso il senso del Vuoto taoista, quello stesso che appare anche nella pittura cinese. Il Vuoto in questo senso è la pienezza della parola inespressa, è l'attimo prima che inizi la cogitazione umana, è il terreno grigio e informe che contiene la pienezza di ogni pensiero, di ogni realizzazione umana, dell'apparire di questo mondo.
Infine, "Bombay" data anch'essa dal mio primo viaggio in India con mia madre, nel 1979. E' soltanto uno studio della luce, così diversa a Bombay dalla luce del Nord dell'Europa, o da quella del Mediterraneo o di New York o San Francisco, una luce tropicale che appunto polverizza l'ombra e crea sfumature di colore che io non avevo mai visto prima.
Ho scritto diverse poesie sulla questione della luce nel paesaggio. Questa era una delle prime. Grazie

Mario M. Gabriele ha detto...

Grazie, Steven, per averci fatto conoscere una pagina segreta della tua storia poetica. Quando parli del Vuoto, dopo la tua "attentissima lettura dei poeti cinesi Tang" nello stesso tempo tu vedi anche "la pienezza della parola inespressa" dalla quale Cogito, ossia il pensiero, si espanderà sul mondo esterno: concetto questo che mi riporta a Linguaglossa e alla sua poesia.Grazie ancora del tuo impegno che è anche vicinanza con il lettore. Mario M. Gabriele

giorgio linguaglossa ha detto...

Chi non se ne è accorto è un ingenuo, ma siamo già dentro la quarta guerra mondiale (la terza, la Guerra fredda è stata una guerra non dichiarata ma che si è espansa su tutto il globo con una miriade di pericolosissimi conflitti nei paesi del terzo mondo). La quarta Guerra di oggi è la guerra invisibile per il controllo delle risorse del pianeta che, solo, può consentire alla potenza che le detiene, il completo controllo geopolitico del pianeta. Questa guerra è dunque INVISIBILE, è simile al VUOTO. Ora, non è un caso che i poeti più acuti che ci sono nel mondo oggi, con le loro antenne sensibilissime, registrino i segnali appena percettibili di questa situazione di disagio dell'uomo contemporaneo, dell'uomo della Quarta Guerra Mondiale. Ecco perché nella mia presentazione critica delle poesie di Steven Grieco mi sono soffermato sulla "Interrogazione" che queste poesie sollevano. Grieco già negli anni Settanta vedeva e presentiva i segnali del conflitto mondiale a venire e i segnali della nostra scissione interna e interiore. Ho la convinzione che un GRANDE VUOTO si sta aprendo sotto i nostri piedi e nelle nostre coscienze, quel vuoto di cui non potremo liberarci con le facili panacee delle religioni monoteistiche, perché si tratta di un vuoto più grande, soverchiante e invasivo, cioè, invisibile...

Mario M. Gabriele ha detto...

La tua critica, Giorgio, si esplica non solo nei confronti della poesia, e di coloro che l'hanno gestita in tutto il Secondo Novecento, ma anche verso chi ideologicamente ha buttato l'umanità in un "tragico destino di morte". Sono cambiati i tempi, ma restano ancora oggi, le offese alla società, così come essa era sottoposta al tempo in cui Marx ne denunciava lo sfruttamento. Il suo Das Capital dorme negli scaffali, Fusaro lo resuscita, ma resta sempre il pensiero debole che archivia ogni rivoluzione. Siamo spettatori ininfluenti di fronte ad un panorama economico-esistenziale, che ricorda la crisi sociale del Trecento, quella del 29 e del Quaranta. I profittatori politici impongono sudditanza. Ricordo, in questo caso, quanto disse Ralf Gustav Dahrendolf, sociologo tedesco, che la democrazia è una "organizzazione politica non esente dalla tirannide della maggioranza". E' ciò che stiamo vivendo ora, noi italiani, a cui mancano gli strumenti per fare una rivoluzione. In mancanza di ciò, i poeti (certi poeti come Majakovskij, Neruda, Vapzarov,Pasolini ecc.),hanno dato dignità ai loro popoli inerti.Occorre una nuova politica culturale che deve entrare nelle case e nella formazione dei giovani senza avvenire,se si vuole aspirare ad una nuova pagina della Storia. Ecco il senso e l'utilità della poesia (di certa poesia come la tua.)

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Mario, non è che io voglia per forza buttarla in politica, intendevo dire che la dimensione spirituale di questa poesia di Steven Grieco è quasi incomprensibile se non la situiamo a metà degli anni Settanta, quando in Italia vigeva lo sport dello sperimentalismo e "Satura" di Montale aveva chiamato a poesia al disarmo di fronte alla nuova società mediatica e ai nuovi equilibri geopolitici che già si profilavano a quell'epoca. Il partito comunista italiano era già da tempo una tigre di carta, l'URSS era un ventre molle, sempre più molle, un dinosauro però ancora capace di resistere. La poesia italiana, con qualche eccezione come Fortini e Caproni si avviava a festeggiare i trionfi del ritorno al privato e al quotidiano, si dichiarava (e si dichiara ancora oggi) tranquillamente che l'oggetto della poesia dovesse essere questa poltiglia fatta di quotidiano e di privato.
Oggi si comincia a vedere che quella poesia era destinata ad andare al macero della propria inessenzialità, qualcuno comincia a dubitare della china in discesa imboccata dalla poesia italiana. Fortuna ha voluto che Steven Grieco non possedesse perfettamente l'italiano, allora e fortuna ha voluto che fosse un po' un marziano tra di noi (io a quell'epoca non mi occupavo di poesia, me ne sarei occupato più di dieci anni dopo, quando il mondo era visibilmente cambiato). Fatto sta che la poesia di Grieco, a rileggerla adesso, ci appare come un fragilissimo vaso di cristallo di Murano. Ebbene, quel fragilissimo vaso di cristallo di Murano oggi ci parla con una foce flebile ma chiarissima, ci parla della cecità della poesia italiana a lui contemporanea e di quello che sarebbe venuto negli anni Ottanta, il trionfo del perbenismo piccolo borghese mentre i "poeti" diventavano esattori delle imposte e reclamavano il 5% delle tangenti che circolavano allora... Insomma, voglio dire che c'è, si nota, oggi come allora, nella poesia di certi autori che si tratta di merce in vendita, di mercimonio, di simonia, di tangenti spirituali...

giorgio linguaglossa ha detto...

Leggiamo questi due versi iniziali di una poesia di Steven Grieco:


Da una pellicola che gira corrono antilopi nel bosco

e uccelli salgono nel cielo e riscendono. Lago.


Quante cose ci sono in questi due versi! Strette e costipate come sardine in scatola. L'autore non deve fare altro che ficcarci dentro le sue "cose" in uno spazio ristrettissimo. C'è una "pellicola che gira"; ecco, qui l'autore inserisce un plurale, esse (le antilopi) "corrono" "nel bosco". In un solo verso ci sono l'immobilità del bosco e il moto rotatorio di una pellicola che gira. Due moti contrapposti che vengono tagliati direzionalmente da un "corrono", un terzo moto delle antilopi che vanno in tutte le direzioni. Pensiamo a questi tre moti divergenti che si trovano in un solo verso. È incredibile. Nel secondo verso c'è il moto alto-basso degli "uccelli" che "salgono nel cielo e riscendono"; un cinetismo sovrano, ammaliante che aggiunge un'altra motilità collettiva ai moti introdotti nel primo verso. Il tutto, però, viene subito interrotto dall'ultima parola del secondo verso dopo la quale c'è un punto: "Lago". L'immobilità del "lago".
Sono soltanto i due versi iniziali di una poesia, eppure quanta complessità di movimento c'è in due soli versi! Ecco, la poesia di Steven Grieco è fitta di movimenti disparati, interni, interiori ed esterni, movimenti che danno al lettore la sensazione di trovarsi in plein air, come sulla tela di un pittore impressionista... danno al lettore la sensazione vertiginosa di trovarsi in un grande spazio dove accadono cose contrastanti e divergenti, plurali, che noi non possiamo comprendere ma soltanto avvertire...

Mario M. Gabriele ha detto...

Leggo il tuo post, Giorgio, del 30 settembre a proposito dei due versi di Steven Grieco e che tu hai scelto per una lettura intorno alla "stasi" e al "movimento". La logica interpretativa che ne dai, è difficile da captare da un lettore intento solo a trovare la bellezza del verso,perché lo indirizzi verso uno strutturalismo logico della poesia dove entrano in gioco fattori junghiani e filosofici. 1(Junghiani, perché l'interpretazione che si dà ad un testo poetico o semplice frase, nasce dal movimento o staticità dell'inconscio. 2) Filosofici), perché la funzione di "staticità" e "motricità " si collega a Hegel, quando nella sua riflessione tende a far convergere il "Nulla (che è staticità, nel "Tutto" che è "dinamismo cinetico".Hegel afferma che " ciò che è razionale è realtà e ciò che è reale è razionale, pervenendo ad una dialettica nella quale si fronteggiano convergenze di tipo dualistico. Una indicazione interpretativa di questo genere ad un lettore poco incline a "forare" il testo, "bucandolo" nella sua normalità poetico-letteraria, significherebbe trasferire la "risonanza (stasi-movimento" ad un livello psicoanalitico nel quale le due forme sono lo sviluppo di un pensiero intorno al (finito), stasi e (all'infinito) movimento.Sto facendo il filosofo con te. Perdonami!Ma un discorso tra te e me appartiene già ad un altro mondo di visuale poetica nel quale coscienza e inconscio sono processi di evoluzione e di orientamento psicoestetico.

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Mario, la lettura di due versi può essere sufficiente a distinguere un poeta autentico da un letterato versato nel linguaggio poetico. Mi chiedo: Chi oggi è in grado di leggere una poesia di livello elevato? Ecco, la risposta che mi sono dato è che pochissimi sanno leggere una poesia di alto livello, meno tra tutti gli accademici i quali sono legati a visioni stereotipate e fossilizzate, e meno fra tutti i letterati italiani la cui cultura filosofica e poetica è ristretta alla nostra piccola tradizione. Ma Grieco proviene da uno studio trentennale della poesia e della pittura cinese, nulla si improvvisa in arte, la sua formazione cosmopolita (l'esser vissuto e l'aver studiato in Asia per 30 anni) gli è stata di grande aiuto. Se avesse vissuto e si fosse formato in Italia sulla poesia del Dopo Montale, probabilmente non avrebbe scritto questo tipo di poesia. Fortunatamente per lui, si è formato in un milieu cosmopolita, ha letto poeti giapponesi antichi e moderni, poeti indi, poeti cinesi, russi, tedeschi e inglesi nelle lingue originali, e questo è stato fondamentale per la sua formazione stilistica e spirituale. Lo so, Grieco è un poeta davvero singolare e inspiegabile se letto entro gli schemi della tradizione italiana. Per sua fortuna ha vissuto lontano dal nostro piccolo e provinciale paese.
Commentando quei due versi ho inteso mostrare la grande complessità della poesia di Grieco, ma potrei continuare con altri versi, all'infinito, col risultato di annoiare il lettore.
Credo però che la filosofia del Novecento recentemente abbia ripreso a pensare concetti come "Vuoto", "Spazio" nella prassi artistica del Novecento, nella musica di John Cage, di Scelsi etc... nella pittura di Klee...

giorgio linguaglossa ha detto...

Faccio copia e incolla di un brano sulla pittura cinese di Francois Cheng tradotto da Steven Grieco:

Ricordiamo prima di tutto l’importanza della cosmologia, nella misura in cui la pittura non mira a essere un semplice oggetto estetico; essa tende a divenire un microcosmo ricreante, alla maniera del macrocosmo, uno spazio aperto dove è possibile la vera Via. (Wang Wei: “per mezzo di un minuto pennello, ricreare il corpo immenso del Vuoto.” Tsung Ping: “Il contatto spirituale, una volta stabilito, le forme essenziali saranno realizzate; ugualmente, sarà captato lo Spirito dell’universo. Non sarà allora la pittura tanto vera quanto la Natura stessa?”) Da qui il primato che viene dato al concetto del soffio. Se l’universo ha inizio dal Soffio primordiale e non si muove se non grazie ai soffi vitali, è necessario che questi stessi soffi vitali animino la pittura. Mancare del soffio, è il segno stesso di una pittura mediocre. Correlativa alla nozione del soffio è quella dello Yin-Yang che incarna le leggi dinamiche che regolano tutte le cose. Dallo Yin-Yang sono nati, in pittura, da una parte l’idea di polarità (Cielo-Terra, Montagna-Acqua, Lontano-Vicino, etc.) e, dall’altra, quella di li “leggi interne o linee interne alle cose”. Mossa da queste due idee, la pittura non si contenta più di riprodurre l’aspetto esteriore delle cose, cerca di captarne le linee interne e fissare i rapporti nascosti che esistono tra di loro. (Tsung Ping: “Inoltre, lo Spirito non ha alcuna forma propria; è attraverso le cose che prende forma. Si tratta allora di tracciare le linee interne delle cose per mezzo dei tratti di pennello abitati dall’ombra e dalla luce. Quando le cose sono in questo modo adeguatamente colte, esse divengono le rappresentazioni della Verità stessa.”)
E’ in questo contesto ad un tempo filosofico ed estetico che interviene l’elemento centrale della pittura cinese: il Tratto del pennello.

giorgio linguaglossa ha detto...

Sempre nella traduzione di Steven Grieco di un brano del saggio di Francois Cheng :

Tung Ch’i-Ch’ang Appena il Pennello tocca la carta, ecco che appaiono le figure in rilievo!

Mo Shih-Lung Ah, l’importanza primordiale del Pennello-Inchiostro! Il pennello non è realizzato quando si traccia un contorno senza metodo di tratto; l’Inchiostro non è realizzato quando il tratto tracciato è privo di chiaro-scuro e di rovescio-dritto. Gli Antichi dicevano che una roccia disegnata dev’essere vista da tre lati: questo riguarda ad un tempo il Pennello e l’Inchiostro.

Fang Hsün Il tratto comporta il dritto-rovescio e il vuoto-pieno. Un artista compiuto deve essere capace di mostrare con dei colpi di pennello le cose viste da diversi lati.

Cheng Pan-ch’iao Il pittore Wan Ko di Hsi-chiang è un eminente discepolo di Pa-ta-shan-jien. Egli è dotato di un talento speciale nel disegnare una roccia con un sol colpo di pennello. E i rilievi della roccia, così come gli aspetti sinuosi e carnali appaiono nei loro minimi dettagli.

Pu Yen-t’u Nel tratto increspato, vi è opposizione del pieno e del vuoto. Nel tracciato, è importante variare il gioco: che il compatto e il concentrato si alternino con il cavo e lo slegato; che il tutto sia prolungato dallo spirito.

giorgio linguaglossa ha detto...

Trascrivo un messaggio di Steven Grieco giunto alla mia email :

Caro Mario Gabriele, caro Giorgio,

stiamo parlando della mia poesia, e da lì voi andate avanti, vi addentrate in discorsi che "bucano", giustamente, la superficie del nostro quotidiano parlare e riflettere.

Giorgio parla di una sensazione vertiginosa nella mia poesia: è quella sensazione vertiginosa che ho avuto io nel vedere, nell'osservare certe realtà alle quali allora non ero, si vede, assolutamente preparato. Realtà che minacciano sempre di ingoiarci - meglio, di ingoiare la nostra individualità, la nostra identità di individui "finiti" (contrario di "infinito"). Da questo, penso, proviene il senso di spazialità ingigantita (?).

Ma è proprio quella individualità la prima cosa che è necessario in parte abbandonare per poter pienamente vivere ed esperire il manifestarsi di certi fenomeni della natura esterna così come della psiche umana.

Quella individualità è squisitamente greca (e pan-europea oggi), e risale al lungo viaggio "di ritorno" (nostalgia, nostos algos!) che Senofonte fece con i suoi opliti e peltasti, dalla Persia, attraversando il Kurdistan, la Siria, l'Anatolia e la Cappadocia, fino a raggiungere le città greche del Mar Nero. E da lì, a casa... al senso della vita come fatto casuale, inspiegabile, solitario, e che dopo la morte non saremo che asfodeli ondeggianti in un prato senza memoria.

Ecco, l'Asia ha indicato il cammino arduo verso una memoria situata oltre la vita individuale. La Grecia ha invece indicato la finitezza umana, anch'essa fondamentale. Ecco il grande, millennario spartiacque fra Asia e Europa, fra i nugoli di cavalieri di Artaserse, e gli opliti di Senofonte. Due visioni spesso contrapposte, ma in realtà le due metà fulgide e inscindibili dello stesso simbolo, del symbolon del nostro vivere oggi.

Mario M. Gabriele ha detto...

Grazie a Giorgio e a Steven Grieco se ho respirato un po di ossigeno culturale durante l'asma di tutti i giorni.

giorgio linguaglossa ha detto...

irrompe una luce di trombe cadendo
un’onda di luce dove salgono
scalano sfere di note e trombe spaventate
stramazza per terra rabbuiata


nella musica che freme disfatta,
inutili smanie, immagini infrante
un rumore si storce salendo si schiude
si staglia un arco vibrando si apre volando


ombre barcollano nel vento notturno
si spegne il mare...

In questa poesia intitolata "Mahler", di cui cito solo l'inizio, si può notare il "senso di vertigine" di cui la poesia di Steven Grieco abbonda. Il soggetto iniziale è la «luce», che con il suo apparire sconvolge il paesaggio muusicale di «trombe cadute», di «trombe spaventate», quindi di ottoni che guizzano in anacoluti di acuti ed irrompono (ma dove irrompono?)la poesia non dice dove. Nel prosieguo la «luce» cambia identità e diventa «rumore». È adesso il «rumore» che diventa il soggetto protagonista della composizione. Perché dico questo? Perché nella poesia di Steven Grieco ci sono frequenti mutamenti di identità di ciò che appare essere il «soggetto» della composizione. Al mutamento di identità cambia anche il paesaggio sonoro che si fa ora dolce e sinuoso ora aspro ed irto. Le poesie di Grieco vivono in questo moto ondulatorio che passa attraverso soggetti distanti e attraverso mutamenti del paesaggio spaziale-musicale. Le parole non sono serventi nel senso eufonico e onomatopeico del termine come siamo stati abituati noi dalla poesia pascoliana, ma diventano degli equivalenti musicali di altri equivalenti spaziali e temporali che la poesia di Grieco risolve e condensa in musica, ma di un tipo di musica molto particolare che richiede l'intervento di ampi spazi e di ampie prospettive visive e musicali...