UBALDO DE ROBERTIS
(1942)
Ospite dell’Isola dei poeti è Ubaldo De
Robertis, che ci invia un testo poetico dal titolo L’Anfora: una specie di
ripostiglio segreto, che dura fino a quando non si dissolve in mille frantumi,
portandosi via ciò che aveva di più bello. Tutto questo Ubaldo De Robertis ce lo
dice con semplicità, col suo linguaggio poetico fatto di sotterranea metafora dalla
quale poi sarà il lettore a svelarne il segreto, o quanto meno ad avvicinarsi
ad esso. Il discorso è nitido, avvolgente, chiaramente privo di punteggiatura.
Si offre a caute aperture interpretative, secondo il ritmo sequenziale degli
eventi e dei traumi. L’anfora custodiva il segreto di piccoli miracoli, prima della sua frantumazione. E’ discorso poetico umorale,
psichico, di recupero dei valori perduti. Da qui la nascita di un rapporto, emotivo
e confidenziale, fra due interlocutori, riportato in superficie, con improvvise aperture dialogiche, che vengono
da un humus profondo, scalfito dalle risonanze della vita, con le sue “alture da oltrepassare”. Una risposta a superare il
trauma, viene dal desiderio di entrambi di scavare più in profondità sull’evento accaduto: chi andando all’indietro, chi oltre, nel
tentativo, forse illusorio, di ricostruire il passato e il presente. (Mario M.
Gabriele)
L'Anfora
Neve in
alto
pura
la terra natia
la gola scura
del fiume in basso
la foschia
continua a salire
il sentiero non è più tanto ripido
come prima
l'eco di cose lontane si separa sparge
dissolvenze incrociate
immagini destinate a scomparire
Lui... non le stacca gli occhi di dosso
- Com'è cupo il tuo silenzio- le dice chiamandola con
molti nomi
“È rotta, - ripete Lei- ahimé! È rotta!
L'anfora più bella!
Ne sono sparsi i frammenti qua intorno!”
Giorno
inoltrato
il limite dell'orrido
di lato
più in su ... l'altura
da oltrepassare
più agevole scavare un pertugio
nel ghiaccio
scortati dal richiamo di una cosa calda
desiderio che pervade l'ambito dei sensi
e quello della ragione
senza aderire
a nessuno dei due
calore che non si può attingere neppure in prestito
dall'ambiente
dal niente che li circonda
Lui vuole scavare
andare all'indietro
Lei... andare
oltre...
Impossibile sanare la frattura
a partire da quel fondo diviso
dal corso d'acqua
e da quella cima dove più cruda è la realtà
nemmeno scalfita dalle parole dell'uomo
di per sé
vaghe e vuote
alla donna continuano a cadere di mano
i frammenti raggelati
“È rotta, ahimé! È rotta!
L'anfora più bella!
4 commenti:
Ho ricevuto e lo trascrivo questo commento di Salvatore Martino
Che dire di questo gioco crudele e disperato tra realtà e metafora, ascesa e precipitare, qualcosa che si è rotto ma questa perdita da uno non viene accettata , e domanda , si domanda che cosa è accaduto , perché gli avvenimenti non sono come dovrebbero essere. Ghiaccio, nebbia, foschia , e in basso il fiume un paesaggio reale ma anche trasfigurato, che fa da cornice viva a questo dialogo di delusioni e forse di rancori, immagini in dissolvenza come in un film, del quale si ignorano i protagonisti, o quelli che lo sono rifiutano il ruolo, vorrebbero sparire. Frammenti, solo frammenti, che non si possono ricucire, quando la creta è rotta non resta che buttarla, perché non c'è calore e il niente li circonda. Il clima volge tutto al disastro, alla perdita dell'amore, del sesso, persino delle parole. E il corso d'acqua è la metafora dell'insanabile frattura,i due sentieri sono più che mai divisi, l'ascensione e il precipizio, tutto continua a cadere dalle mani come i frammenti dell'anfora, in una herida que no serrarà.
Stilisticamente pregevole come ritmo, cadenze, musica rotta e ossessiva, e i miei parametri immagini, pensiero e musica tutti rispettati.
Salvatore Martino
Ubaldo de Robertis si riconferma nella sua netta chiusura verso ogni forma di sfera estetizzante nella quale ( la grande colpa dannunziana) il vivere non è ospite gradito,
essendo in essa ingombranti e dominanti l'arbitrio del talento e la vacuità ludica della menzogna.
E allora, in una onestà sabiana, Ubaldo de Robertis conduce la vita nei suoi versi, consapevole che nessun evento umano è atermico (il calore citato nel corpo del componimento).
Ma questo autore che ha attraversato buona parte della lirica non soltanto del Novecento italiano, con Eliot sa che il poeta non sa né può parlare direttamente con il lettore.
Può farlo indirettamente. Con il correlativo oggettivo.
E l'anfora derobertissiana è il correlativo oggettivo, ben colto da Mario Gabriele nella sua nota, di uno scrigno cui attingere risorse quando sembra che intorno tutto si frantuma...
E se è la stessa anfora a ridursi a frammenti? L'anfora di Ubaldo de Robertis che si spacca
è la casa comune della poesia che si sgretola perché l'uomo si è scisso?
Tutto si riarrangia. Frammento dopo frammento.
Il punto di forza di questo componimento è l'idioletto dell'autore: altre parole non servivano all'economia tematico-stilistica di de Robertis. Ha usato quelle giuste. Le parole abitate dal poeta.
Questa poesia è la verificazione della intuizione che Juri Tynianov ebbe negli anni Venti quando scrisse che "la poesia può esistere anche senza metro". Intuizione brillantissima. Dopo quasi 100 anni abbiamo qui esemplata una poesia di Ubaldo De Robertis che convalida quella intuizione del critico russo. Il metro, se c'è, si è defilato, restano degli spezzoni, di frasi, di parole, di respiri. Un linguaggio affrettato tipico dei nostri giorni, un andamento spezzato e zoppicante. La poesia è riuscita in quanto zoppica, e rischia di cadere ad ogni zoppichio. È questa la sua bellezza e il suo fascino. Direi ai giovani aspiranti poeti che infestano a migliaia la zona poesia di leggere questa composizione attentamente e di vedere come si scrive poesia moderna.
Ho ricevuto e lo trascrivo questo commento di Antonio Sagredo:
Atmosfera asettica, nevosa... entro cui due figure (novelli Orfeo e Euridice) discutono di una finzione: la finta frantumazione di un'anfora sempre sul punto di riformarsi intera e completa
prima che nel suo ventre celi qualcosa che non sappiamo dicibile oppure no. Si snodano i pensieri preoccupati dei due mentre il cammino verso un altrove li precede, lo stesso camminare è dinoccolato, pronto a spezzarsi ad ogni passo, ad ogni immagine che i due seguono di soppiatto... non ho dunque ravvisato che l'asciuttezza sostituente una musica... non qualunque se poi l'uomo e la donna si ricompattano per delle note che in loro stessi suonano senza pervenire all'esterno. L'an(gì)fora (bel refuso che ha generato un bel neologismo!)... insomma l'anfora, come ben han visto i tre critici, è solo apparenza, per me non è nemmeno questa: semplicemente non esiste: non si frantuma l'anfora, ma i due soggetti scelgono altri sentieri, ancora più asettici e per nulla coinvolgenti poi che la rarefazione è assoluta e senza rimpianti.
Quanto al ritmo del verso è davvero sincrono con l'evento che si sta sviluppando e ne asseconda il pensiero... fisso, non danzante, ma risolutivo a una fine, forse tragica.
Antonio Sagredo
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