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domenica 13 novembre 2016

POESIA ITALIANA - ANTONIO SAGREDO



Commento di Lucio Mayoor Tosi
Quartetti.
Per Antonio Sagredo.



“Io, figlio mio, ho messo al sicuro la tua anima qui in questo noce. Il diavolo possiede solo il tuo corpo. Quando ti sarai liberato di lui, torna a rivendicare il tuo spirito immortale. Fiorisce in giardino” ( S. Rushdie)

L’idea di consegnare ogni memoria di sé, pensieri e poesie, il proprio sangue a una macchina, non lo rende felice: che l’immortalità possa, debba essere contenuta in un moderno sarcofago è quanto di più svilente riesca a immaginare, e sopportare. Destino ineluttabile che sa di condanna, di prigionia!

“ha nelle sue mani i ricordi e la mia mente”.

Il quinto elemento, dove risiede ciò che è immutabile, eterno, la dimora di tutte le cose che esistono e consistono, sarebbe dunque una macchina? E’ inaccettabile. Disperante.
Dover rinunciare all’ariosità della carta, alla sua riproducibilità, per consegnarsi a Moloch:

“Morte, tu mi rapini i versi e il mio furore,
dai voce ai finti simulacri della scienza,
perché soltanto mio è il fine che contesta e disonora
la maschera che cela l’epitaffio e il suo rancore!”

Il dubbio, quel che manca alle “macchine pazienti”, è forse l’unico sentimento concesso alla mente umana per poter capire, scegliere, evolvere. Destarsi.
Dubbio è quel che le macchine di memoria non possono sopportare: le manderebbe in tilt.

Sul ring: “Quartetto”.  By Antonio Sagredo.  Quattro match.
“Il capezzale è pronto:  son io la preda!”

Sull’unico tema ma cambiando registro, recitando con voci diverse (poiché in teatro l’attore è vivo, I’m not a robot) Antonio Sagredo si oppone indossando le sue migliori maschere. Ma l’incontro finisce con verdetto di parità: non muore nessuno. L’etere è salvo, e così anche il cestello dei bit.  Del resto, qualcuno potrebbe dire, non è compito del poeta quello di risolvere, se mai oggigiorno quello di esibirsi.  (Dimenticare Eliot. Ai suoi tempi la filosofia poteva ancora far brillare sotto e sopra la meccanica. Oggi è nervatura, collegamento, fusione in un battito).
Antonio Sagredo indossa maschere nel tentativo di costruirsi un’identità terrestre. Il difficile compito di esserci si svolge cambiando e modificando le proprie metafore: un turbine che roteando finirà col comporre l’ologramma si sé medesimo: poeta che scrive da attore per un non-sé che recitando si disvela. Intoccato.

(12 nov 2016)

QUARTETTI

                                                                “Parea ch’a danza e non a morte  andasse
                                                                                        ciascun de’ vostri o a splendido convito”
                                                                                                 Giacomo Leopardi     

                                                                  Pudesse o instante da festa romper o ten luto                                                               Sophia de Mello Breyer Andresen

               


 Quartetto 
(4 finali… in macerie!)

1

Quello che in me resterà dopo il sangue
invidia la mestizia delle macchine pazienti.
L’ombra che mi dette un vasto oblio e il confine
ha nelle sue mani i ricordi e la mia mente.

Morte, tu mi rapini i versi e il mio furore,
dai voce ai finti simulacri della scienza,
perché soltanto mio è il fine che contesta e disonora
la maschera che cela l’epitaffio e il suo rancore!

fuochi fatui… memorie in fiamme… segni in cenere…
Ha il dubbio contrito del morente il carnefice geloso
perché stampi la sentenza il suo sguardo senza limiti.
Il capezzale è pronto:  son io la preda!

2

Quello che in me perderò dopo il sangue
mi dette un vasto oblio e il confine,
la mestizia delle macchine pazienti,
i ricordi delle mani e la mia mente.

Morte, tu nascondi alla maschera il rancore
di un fine che contesta e disonora della scienza
la ricerca, il suo epitaffio e il mio furore…
e alla mia voce rapini i versi e i finti simulacri.

Gelosa delle memorie in fiamme e delle fatue
ceneri hai il dubbio del carnefice e del morente.
Sul capezzale non hai confini se per una sentenza,
e il tuo sguardo io sono pronto: son io la preda!

3

Quello che in me perderò dopo il sangue
sarà la cenere che contesta una sentenza
e disonora il mio furore e la mia scienza,
l’ombra invidia dell’epitaffio il vasto oblio.

Morte, tu mi hai dato un rancore senza fine,
la mestizia delle macchine pazienti,
un confine e il dubbio di finti simulacri.
Nelle tue mani non ha voce la mia mente.

I versi miei e le mie ceneri senza limiti
stampano i ricordi di un carnefice geloso
che nello sguardo nasconde un vuoto capezzale.
La memoria è approntata: son io la preda!

4

Quello che in me resterà dopo il sangue
disonora l’ombra, il vasto oblio e il vuoto.
La mestizia delle macchine pazienti
stampi l’epitaffio del mio furore senza fine.

Morte, che la scienza dei finti simulacri
contesti il dubbio e il confine del mio rancore!
Che la mia voce sia invidia alla mia mente,
una sentenza nelle mie mani una memoria.

I versi e i ricordi non hanno limiti nel dubbio.
Sono contrito e geloso di un carnefice morente
che nel capezzale ha uno sguardo in fiamme.
La ricerca è approntata: son io la preda!

                                                                       antonio sagredo

Vermicino, 28/05 -10/06    2003


1 commento:

Mario M. Gabriele ha detto...

Questi testi di Antonio Sagredo sono spartiti di un concerto per voce sola, che si trova ad affrontare il tema della morte, assegnando un ruolo principale ai conflitti interiori. Risalgono così in superficie, i frammenti esistenziali che si fissurano nel tessuto vivo del poeta, come nudità spirituali, senza poter opporre uno scudo salvifico, che lo possa mettere al riparo da ogni evento negativo, riportato con un grafico poetico, circolare e senza via di uscita. Queste quartine dimostrano che essere poeti significa anche esporsi ai meccanismi della psiche e della mente, nella loro singolarità espressiva e psicodinamica. Lo spazio-tempo si accorcia inesorabilmente, lasciando al poeta il percorso di lettura dell’esistenza. Tutto questo Sagredo lo traduce con viva rappresentazione senza creare lirismi. Poesia prefilosofica, in continua fibrillazione su tutti i danni a cui è soggetta la vita, da chi la guarda dal di qua. E’ questo il canto della solitudine e del nostro essere sempre più abbandonati e in esilio, dove la parola, è promemoria di una percorso esistenziale, tra inganno e tragedia.