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domenica 29 gennaio 2017

POESIA ITALIANA - GIORNO DELLA MEMORIA


Da L'Ombra delle parole del 29 gennaio 2017, si riportano i testi di alcuni poeti italiani in onore della Giornata della memoria


Mario M. Gabriele
da Ritratto di signora, Nuova Letteratura, 2014


Il tuo sorriso non risuona nelle stanze,
e il fiore di Tarquinia è un segnalibro nel Codice da Vinci,
più non c’è riparo al volo di pipistrelli,
un giglio dura ancora nel giardino:
errante amore chi ti salverà dalle piogge del mattino?
pure ci abbandonano i velari del passato,
ricordiamoci di Spandau, le fisarmoniche nei cortili,
come serenate al chiar di luna,
nessuno fu mai sé stesso, né visse più d’una farfalla,
fazzoletti di carta ai porti e ai treni, e Schindler’s list,
quel Muro, Dimitrov, troppo lungo di vedette e fil di ferro
ha lacerato il corpo e l’anima, il nostro Novecento;
i villaggi del Mekong, come lumi a mezzanotte,
il male nel codice genetico,
chi l’ha spenta la lampada votiva?
Dal fondo del viale, ecco Witold con le chiavi.

Flavio Almerighi

Nella baracca X

Non è bastato inghiottire pianto
e silenzi nel carmelo di Dachau,
sembrare bambino per essere uomo
gente senza mandibola batte ancora i denti,
la morte è ingiusta per chi non ha vissuto.
Manca verità nelle leggi, tutte l’omettono.
E voi rami secchi, invisi alle vostre donne,
siete gli unici a non averlo creduto,
i vostri nati hanno torto il viso da voi
mentre lasciavate fare,
ordinando preventivi per nuove case sfatte.
Pensavate di tacciare il male con epigrafi
in tutte le lingue, ma i demoni resistono
Doveva essere Mai più in tutto il mondo,
invece nella baracca X l’uomo batte i denti,
paga pegno a una civiltà in ostaggio.


Giuseppe Talia

Nacht und Nebel 

Amavo Vincent. Una mattina la Gestapo bussò alla mia porta.
Stavo preparando la colazione. Vincent era ancora nel tepore
Del letto. Drinner oder draussen! La porta si chiuse alle mie spalle
Un treno e la neve che non finiva mai. Vincent e il tepore del letto
Un ricordo lontano lontano. Mi cucirono sul petto un triangolo rosa.
La pelle attaccata all’osso. Fame e stenti nei capannoni dissenterici.
Quanti siamo? Quanti saremo? Il Wissenschaftlich-humanitäres Komitee?
Lontano lontano. Ogni tanto scambio qualche parola con Adna. Mi mostra
Il suo triangolo nero. Mi racconta delle serate al Dorian Gray, al Flauto Magico
Io chiudo gli occhi. Vincent Vincent. Dove sei? E una sera Vincent mi venne in sogno:
Otgeschlagen – Totgeschwiegen

Lucio Mayoor Tosi

Mangia qualcosa, Josef.

Il piatto si riempie di acqua e cenere.
La tartaruga cammina cammina finché
s’ingroppa la forchetta. Il tavolo si riempie
di formiche, c’è del sangue rappreso
di cane impazzito. Preghiamo:
Fai che finisca presto. E portaci il sapone.
Amen.
Sul ripiano del frigorifero
le mani annerite di Joseph Hassid, il violinista
che suonava a memoria: il futuro in Site of Burr Hole.
Comprese le scarpe e i denti.
Non sapere se siamo ancora qui, muti tra le scansie
di un drugstore, oppure fantasmi.
Nel giardino dei Dobermann tengono sempre
le luci accese.

Gino Rago

I poeti del Novecento amarono gli Armeni.
Ma non perché gli Armeni specchiassero se stessi
nelle nevi eterne d’Ararat.
I poeti amarono gli Armeni
perché qualcuno pensò d’incenerirli
proprio in quanto Armeni.
I poeti del Novecento amarono gli zingari,
i diversi, i comunisti
per le stesse ragioni per cui prima amarono
gli Armeni. I poeti amarono gli Ebrei.
Perché qualcuno pensò
di cancellarli dalla faccia della terra
proprio perché Ebrei. I camini di Auschwitz
a perpetuare il ciclo del Carbonio.
Nel tempo. Nello spazio. Nel sonno imperdonabile
dell’intelligenza. I poeti del Novecento amano
le anime costrette nella morsa di Gaza.
Perché qualcuno pensa d’annientarli?
I poeti amano i Palestinesi
proprio come amarono gli Armeni, gli zingari,
i diversi, gli Ebrei, i comunisti.
I poeti amano i sommersi
perché chi resta vivo in mezzo ai morti
non si vergogni più d’essere un uomo.

Giorgio Linguaglossa

Preambolo del Signor K. «La «nuova poesia ontologica»?, 
suvvia Cogito, siamo seri…»

Il treno è in viaggio. Porta soldati con l’elmo a punta. 
Verso il fronte russo.
Il Signor K. siede nel vagone ristorante,
ha con sé la valigetta diplomatica.
Cogito ha nella tasca interna della giacca 
la fotografia di Enceladon.
Il Signor K. misurò con ampi passi lo spazio del vagone ristorante.
«L’ideale sarebbe far fuori i tipi come Lei, Cogito,
voi siete dei rompiscatole, con tutto il rispetto
per il vostro ruolo. 
La bellezza di Enceladon? Suvvia, Cogito, non sia ridicolo.
Che vuole, sarebbe semplice per me 
far premere il grilletto da uno dei miei sodali, 
ma, sarebbe, appunto, eccessivamente ludico,
ed io detesto le soluzioni rapide, 
preferisco complicare ciò che è semplice. 
Giocare con Lei, Herr Cogito,
tutto sommato, mi diverte, è come il gioco con il gatto e il topo.
Del resto, in fin dei conti, l’arte è un’attività onanistica.
Ha qualcosa dello specchio da toeletta, rammenta 
lo specchio ustorio… 
Qualcosa di disdicevole…»
«A cosa devo la sua visita?», chiede Cogito sopra pensiero 
mentre fuma un sigaro italiano.
«Ecco, diciamo – rispose il Signor K. – 
che interverrò, di persona,
di quando in quando, a secondo dei miei umori atrabiliari
negli eventi del mondo.
Lei, Mario Gabriele e Steven Grieco Rathgeb? 
Sì, possiamo prendere un caffè insieme. La «nuova 
poesia ontologica»?, 
suvvia Cogito, siamo seri… 
Mi congedo, e mi prendo la libertà di comparire.
E scomparire…».

Adam Vaccaro

Memorie del futuro

La cenere dei fumi di Auschwitz
così bianca e viola infine rossa 
batte batte dentro al cuore come 
blatta che non volerà rimarrà
a rodere tra questi ruderi nutrirà
il nostro sangue nero sconfinato
insaziabile non si fermerà vorrà
sfamarsi di ogni sangue e vittima
diventata cenere deporla
nelle mani di Cerere a farne
messi di una Terra non più
prona a poteri e follie di ieri e
di oggi che sappia pesare 
sulla stessa bilancia ogni
grammo di carne umana
rossa poi viola infine bianca
offerta al dio di tutti 
i popoli di tutte le terre 
ricche povere e senza
privilegi né figli prediletti
di una Terra non più
crocifissa da confini e
tavole imbandite da eletti 
assediate da cumuli di blatte
affamate impazzite – 
se questo è un uomo

Paolo Carlucci

Il viaggio curioso dell’Est

Il futuro, ricordando, si gioca i selfies … 
Testamento digitale, forse un assedio
l’innocenza di ieri è già perduta.
S’animava l’infanzia, là a Terezin,
impertinente e viva, sulla soglia 
annoiata dell’occhio, il pettine del vento 
disordinò trasparenza ai miei pensieri.
Ecco, scorreva nuovo e sconosciuto
come fiume il tuo viso intriso d’ombra:
luce che accolse nell’estro di ghiaccio
dei ricordi, soffice e calda la prima neve.
Maestra ancora acquerellando giostre 
d’aquiloni rintanati nella memoria: 
si fa più larga madre, ora la notte. 
Ha braccia aperte di storia, ascolta, risale 
nuovi i passi veloci di tanta indifferenza.
Fiume che scorre a lampi d’ozio turistico, 
tra bianche, flessuose betulle, bivacca 
sarcasmi il viaggio curioso dell’Est.
S’adagia poi a marmaglia tra le nuvole 
l’inverno oggi si gioca i selfies …




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