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domenica 18 ottobre 2015

POESIA ITALOAMERICANA



GIOSE RIMANELLI
(1925)

Bella Carnap che incise surrealistici pali totemici
era profeticamente barbuta e parlava con soffice voce.
A volte come in sogno o bevuta camminava allo specchio
tutta nuda mostrando i suoi crudi contorni e l’atroce
presenza del vuoto tutt’intorno i cuscini di pietra
che adornavano d’ombra l’alcova dei suoi vergini incontri
in giorni di fiera e trastullo sopra i monti, ed ora
-anzi spesso-baciava solo se stessa in un buio di tomba
rimirandosi intera come ieri nell’abbraccio fortuito
del nuovo fanciullo portato a valle con suoni di tromba
perché-lei spiegava mascherando orgoglio e passione-
l’amare d’amore è l’acido calice d’ogni buona stagione.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

E in falsetto recitando Falstaff strillava alle bambole
che adornavano i muri e ammiccavano affrante di gioia
attraverso lo specchio Sì certo non cerco più scampoli
o Bella mia bella anzi penso d’averti infine capita
con la tua spina all’orecchio la voce fioca al mattino
e quello sguardo che più non riguarda l’arazzo e la stuoia
e scruta inquieto il calore che naviga spento su colazione
e cene all’aperto (di tutto un’esperta) che ti capita ora?
Quando ti svegli nell’ancora scialba mia tersa mattina
perché ti ripeti che ci faccio a starmene sola? Stralci
di mondi rimbalzano a fondo nel cranio del povero niente.
Tu hai visioni di cose di fiori in ogni ora del giorno
sebbene un perduto Nessuno ancora ti ama ti cerca ti adora
ma tu indietro non torni non puoi senza un Qualcuno
che t’esca dai pori ti porti per mano facendoti vecchia.
Riempiva i sacchi del Tempo con sassi e foglie d’alloro,
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Se non fosse stato per quei suoi primitivi aggressivi
esclusivi bisogni di fisico ardore e passioni irrisolte
nelle fosche e pur vaghe compagnie di nuovi paragoni
che lei tuttavia riteneva integrali e persino morali
quanto il laccio disciolto dell’abbraccio notturno
col Pinocchio delle sue calve fantasie si sarebbe anche
forse affidata disarmata all’assistenza socio-pediatrica
di scorfane e finocchi cosicchè quei lenoni quei banchieri
in accorata epistemologica riflessione in spigoli di muri
si facessero meno grassi degli assi di picche con sorte
insicura cosicchè anche le innocenti battone diventassero
un tantino più ricche delle lavande di cloro per prima
cosa abortendo le insane fontane di lacrime su povera
mamma e figlioletto negletto frutto d’amore sudore ora
sola speranza di soldi d’onore di là dall’infame letame.
L’assenza è richiamo di nude colombe e muggito di toro.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.


Quest’oggi l’appartamento di Bella presenta cardini rotti
porte aperte sconnesse senza chiavi o bianche inferriate
siccome aveva a ragione predicato che l’opzione maggiore
della giusta avanguardia è il ripetere il salto già fatto
competere imitando innovando la bile il sudore il candore
dei nonni dei padri su di un altare di franca mediazione
ma nessuno a quel tempo aveva molto capito delle blande
e inibite imitazioni furtive di Lord Lowell di chi arriva
o non arriva in compagnia di Barthes-Darrida cosicchè sana
ma stanca nient’affatto umiliata anzi reclamando dal boia
d’essere decapitata Bella Carnap da sola andò via insalutata
dietro lasciandosi appena un minisaggio di delfico tono:
“Ex nihilo tu a volte soccombi alle frane gitane e conscio
nel magico velo di un esangue sandwich di brame di foia
nascondi quel tuo guazzo d’incastri che ricreano il cielo
ed altre volte d’un tratto ti ritrovi nel torbido pieno
della piena di marzo o nell’alogico giallo del Malevich”
Nessuno seppe mai perché Bella Carnap nemica della noia
fosse curva dalla parte della pena trascurando la gioia.

Più tardi da voci cannibali sentii storie di un suo rapido
arrivo a Parigi con solo ninnoli misti a cartilagini
tristi ai margini del naso ed al lobo clorotico agnostico
delle sue orecchie già vecchie già del tutto risecche
di madidi odori ed uno squallido fallico bongo del Congo
preso a nolo nei pressi di Porta Portese passando per Roma
non vista adesso da lei inzeppato di calze pomate mutande
in miste misure con schizzi sfumati fatti con labile lapis
di scale portali arsenali ditali di fili intrigati coniati
più altre strutture di sfondi di gore intercapedini fonde
pizzi mostruosi sontuosi di puppole e ponti per poi finire
forse solo a scopo di morirci di fronte in un plurimista
mistica cornice d’intellettuali tra Salamanca/Barcellona
& environs trovando infine occasione di farsi cultrice
di folaghe sparse nelle riarse fitte tenebre di Malaga
El Pais riportò una sua foto con barba assai nera raccolta
sulla nuca a raggiera che definirono rabbinico-lirica
ed era invece di quell’onirico mais che sfocia nel croco.
Sola sola Bella Carnap non era fatta di molto e di poco.

L’ho cercata per mari e per monti senza mai ritrovarla
scansando gli incontri e gli scontri con la gente del mondo
fermandomi affranto anzi stanco e forse stravolto ma mai
di niente esitante anche in fosche contrade più d’una volta
chiedendo bussando sia alla porta del destino incrociato
chiamato Circle City dove Charles Olson il sublime scrisse
un saggio sul mito figurandosi un Maya che nell’acrilica
Greenwich Village di nonno Dominik dove insonne insicuro
pur soffrendo di collettiva amnesia scambiai qualche parola
di conforto di addio col malato Mister Sax che a quel tempo
recitava nel suo imbuto un kyrie per Bird l’uomo perduto.
E un po’ tutti ricordavano Bella divulgatrice di frottole
nel muoversi agile su fragili trampoli o quando indossando
parrucche di trucchi parastorici sedeva su alti sgabelli
o sul coperchio del piano del comico insano Steve Allen
cantando in russo o italiano storie di guerre e dolore
che facevano ridere. Anche in uno stato di bruto abbandono
lei riusciva a giocare nel guano col rude vecchio pallore
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Aveva estasi labili ed epilettiche stasi specie quando
giungeva al suo canto la voce esultante che ogni sua cosa
nell’Est e nell’Ovest era stata irrimediabilmente perduta
alla camorra del tempo; e queste-quasi sempre contenta-
lei le temprava con uno o due sorsi del suo onesto Elijah
del Kentucky in quanto (con grazia cantava) più non aiuta
se in piedi o seduta di faccia o di culo tu sei poi caduta.
Ma ecco di nuovo inventando una storia andava
poi via di quartieri e paesi solo rinchiusa forse protetta
dalla nera barbaccia e quelle flaccide brache color kaki
a malapena sorrette da strisce di carta incollate col muco.
Camminava nel fango dei viottoli con una canna di verde
sambuco dalla quale estraeva suoni d’insetti e ballate
d’estate, sul vergine corpo odori profondi di menta e alloro.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Ora questa pare una storia d’altri tempi perché ovunque
io vada e comunque m’inquadri amici di amici mi squadrano
con occhi pensosi e dicono poi con un certo mistero
perplessi nei bruti ricci peli d’immodeste narici
che c’è sempre un Qualcuno nel giro (un sadico falbo
un medico astuto un atleta incompiuto una mesta fanciulla)
che chiede o riporta notizie di Bella la quale per nulla
o qualcosa come appunto si dice ha cambiato il suo nome
in quello del signore di Rimini, Sigismondo Malatesta.
E’ stata una festa o così pare: per questa è certamente
altre ed altre gravi ragioni lei non penso che più pensi
di rivedere la soglia di casa spingere aperti i cancelli
e pulire la ruggine nei cardini delle antiche inferriate
per ricominciare tutto da capo con modestia ed amore.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e di zoccoli d’oro.

Da Alien Cantica, An American Journey (1964-1993)
Ed. Peter Lang

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