GIULIA PERRONI
Giulia Perroni
POESIE SCELTE da La tribù dell’eclisse con un Commento di Lidia Gargiulo
L’ultimo, ampio lavoro di Giulia Perroni non approda a un punto
fermo né si
apre a vie di fuga, eppure è attraversato
da una vita in movimento, voci e presenze di un passato che si affaccia a restituire o reinventare – la differenza è minima - ciò che pareva consumato, perduto per sempre. Questo racconto, dunque, pur attraversando
esperienze e
stati d’animo, sostanzialmente rimane un non finito in
attesa di nuovi pensieri. Dal passato riemerge l’intricato confronto
con
la madre: essere come lei ma essere anche nuova e diversa;
e l’oscillare tra
presenza
e assenza
nello strano orologio
dei ricordi:
prima bambina e poi inquieta adolescente in cerca di se stessa, a ripensare l’accaduto, nel desiderio-illusione che quei fatti compiuti
possano cambiare e tornare più leggeri alla memoria. Ora visibile ora segreto, il colloquio
di figlia con la madre si svolge nella vita pa-
rallela dell’immaginazione. Il buono del narrare, dunque, qui non è
nell’invenzione di luoghi e tempi, ma nel ritorno fantasticato di ciò
che
vuole rivivere, a cui chiediamo di parlare ancora. Flusso conti- nuo, il quotidiano si inserisce nella Storia maiuscola dei libri di scuola
rievocando i luoghi dei trionfi e degli eroi, gli orrori delle
stragi; e man mano che il racconto cammina, il lettore entra nel
flusso del suo ritmo, ne adotta la sintassi, si immerge nel racconto.
Comunque la si legga, dal primo all’ultimo
verso o con casuali
assaggi,
questa scrittura è un
colorato intreccio
di memoria e in-
venzione, che rimescola storia
e leggenda nella
verità che ognuno cova e ascolta in privato, verità inventata, ossia ritrovata nel profondo di noi, lì dove il soggettivo conta più dell’oggettivo. In questo sogno ad occhi aperti l’autrice attraversa storia privata e storia di nazioni:
Garibaldi e la Sicilia da salvare dai Borbone, la distruzione barbara del
territorio preda dei vincitori, nuovi padroni che non la
cono- scono e non possono amarla (acqua di
fonte mutata in
veleno)... Forse
solo
questo, ai nostri giorni, può darci la poesia, ma non è poco: Giulia Perroni è un interessante esempio di fedeltà di poeta al pro- prio stile, al proprio modo di vedere e indagare; in quest’ultimo
la- voro si può dire che, pur affinando lo stile e allargando l’orizzonte,
rimane così fedele a sé che è impossibile non riconoscerla nell’er- rante abbondanza del
narrare.
Al lettore non sfuggirà l’inquietudine del dire nella necessità di
questo raccontare, l’alternarsi in folla di fatti e parole,
manipoli
di pensieri e visioni che si
contendono
spazio,
attenzione e testimo- nianza (...la bellezza si schianta con la vita...); cercano l’aperto, cercano
vita, vogliono ricordo di scrittura... Ma ai tempi d’oggi non è facile
scrivere, non perché non abbiamo parole ma perché ne abbiamo
troppe; non per mancanza di fantasia ma perché siamo assaliti da troppe immagini che tutte insieme chiedono di entrare nel discorso.
Babele, Labirinto:
mescolanza – fittizia e ingannevole- di tutto
con
tutto e la clausura del pensiero; l’assenza di conversazione nell’immensa presenza di parole... Rinunciando alla comprensione, ci aggiriamo nel caos tra simboli e macerie, in compagnia di fantasmi
che
non cercano un senso.
(...mi dispiace, è la
storia. Pg. 93)
È la fine del
senso ma non della memoria;
la memoria anzi ri- bolle, manda scaglie di vita ma non si ricompone se al passato non diamo un posto nella mente; senza ricordo c’è l’invasione che ripete
il caos e non diventa cosmo, molecole recalcitranti al senso, insieme
nella testa ma ognuna estranea all’altra.
Scrivere, raccontare, riferire sono esposti a strategie narrative che
a volte, invece di
testimoniare, tolgono o aggiungono
all’accaduto qualcosa
che dovrebbe abbellire ma
in verità deforma o tradisce. Forse perciò nei versi della Tribù troviamo l’accaduto ma raramente il senso: troviamo nude le cose, ognuna con se stessa e solo quella,
refrattaria alla composizione; storie che si affacciano e
altre
storie
spingono sul palcoscenico del dire e ricordare (la bellezza verrà, te lo prometto, pg.84),
vediamo cose del
mondo ma non è il cosmo, c’è l’accaduto
ma non è la storia, c’è un vai e vieni di fatti e nomi.
La frantumazione non è nuova alla
poesia
di
Giulia Perroni, ma in
quest’ultima prova si rivela scelta consapevole. Più visibile marchio
del
suo
pensare e dire, un fluido caos scorre negli occhi e negli orecchi di chi legge, ricco di immagini, colori, scene, residui di vita
umana alla deriva, di cui non
si conosce approdo, non si
vede ri-
medio...
Siamo nel Labirinto della leggenda antica reinventata in un rac-
conto da Friedrich Dürrenmatt: tra specchi e moltiplicate immagini, in
tempi di troppe verità che si smentiscono l’una con l’altra sicché menzogna e verità, presenza e assenza, memoria e oblio sono la
stessa cosa, cerchiamo il padrone di casa, cerchiamo l’uscita, cer-
chiamo il Minotauro ma non troviamo. Niente e nessuno ci salverà,
non
verrà Teseo a liberarci, non vedremo il Minotauro, forse nem- meno esiste... Eppure, incantati dai colori del mondo, il labirinto
ci
invita al futuro. Quale futuro? Siamo prigionieri che si
credono liberi: è l’umano felice-tragico del nostro stare al mondo, il troppo
di accadere, il poco di memoria, il distratto momento dell’ascolto... C’è tutto nelle pagine e tuttavia può essere poco; dipende, come sempre, da colui
che
legge, l’ignoto lettore che nello specchio
dei versi riconosce una parte di
sé.
Al poeta non chiedere come si fa, lui stesso non lo sa; lo sa in altro modo:
lo ha scritto,
è questa la risposta. (lidia gargiulo)
Nereidi, nottetempo,
appena dopo l’equinozio d’autunno
*
Giulia Perroni da La tribù dell’eclisse(Passigli, 2015)
(...)
Io bevevo la pioggia sacrosanta come le zolle in cielo
e mi stupivo che la bellezza fosse nelle strade
oscura nella forza
Mi stupivo che fossi io la bellezza
La vittoria di serpi di corallo
Voi date onore ai morti, cavalieri
Cavalieri che nelle lance mai perdete il giorno
Giulia era bella nel soffitto d’oro
Malinconia d’un tempo
Cavalieri che forse veleggiate
alla ricerca della vita bionda
del calice che imprime la sua fine
non uccidete gli uomini già morti
Ci fu un tempo ora l’anima è stravolta
la gran virtù s’è fatta titubanza
pepita d’oro e attimo violento
nella stanza degli echi
La ferocia è la paga dei vigliacchi
l’estirpare rinfocola la notte
e il grigio buio aliena le sorgenti
Non ci sarà speranza
Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido
E il corpo che non muore
(La tristezza)
Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni
Squartato come un sacco
E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori
Il suo giardino ha sette stelle e spade
Il pozzo il suo sublime
L’orologio la quintessenza d’arca
Il brulicare i tulipani d’oro
E questo è tutto
Il nostro sogno è il sogno
L’ossessione che naviga nel cielo
E questo è tutto
Origine del vero
C’è silenzio quando origlia la notte
Era tabù la stanza di orologi
di fucili di lame di fanfare
brillava solo il mondo solo il mare
e l’abbraccio magnifico e stupendo
con la vita del tutto
Solo il mare
L’immensità che canta
Il mare azzurro denso d’amore e quieto
Penzolava una rosa dal giardino
dalla soglia si nutre la speranza
anche oggi un fiore rosa
penzola all’aria fuori dal cancello
Anche oggi è la vita
mescolata ai colchici dell’ombra
Ezra rimane duro e battagliero
solitario e profondo
ed anche chi non seppe dire il mantra
che popolava i secoli
Dorme con me la vita
Gli sconfitti hanno una giara che riabbaglia il senso
la pregnanza che illude le chimere
Abbiate pace tutti quelli che vissero
Ogni cosa serve per essere
Venne la pietra a contrastare l’acqua, il fuoco la vertigine
il riparo fu nel sole bellissimo la vita quando l’arte ci avvolse
e in quei momenti come dentro l’amore si discinse
il giorno con la pioggia
E in quei momenti di mezzo sole l’arte fu fulgore
Per la vita strapperò le catene
Anche mia figlia è sogno
Per la vita datemi un nodo per i lestofanti
forse ne avrò pietà
ma non c’è forza che oscuri in me l’Amore
che possa dire smetti di sognare
Io non potrò lasciarle nella casa il sandalo dei lumi o l’impreciso
bianco sconforto delle tele bianche nelle attese ghiottissime
dei nembi non potrò con sveltissimi riguardi tambureggiare
varchi e gelsomini né capriole di nubi oltre lo sguardo ma dirle
che l’eccelso può apparire e darle pace e un’ottima carezza
I lestofanti sono indistinguibili
ma tu per me rimani
accetta il sole sopra ai mandarini
è un disegno di vita
Per favore rimani
Dal deserto sorgono fiabe dentro visi scuri
Rimani, ogni cosa avrà corso
I lestofanti fuggiranno più svelti della luna
quando i cervi camminano e singhiozzano
sulle radure d’api e cinghialini
faranno d’aria i monti
Fuggiranno e tu sarai regina
Te lo prometto
Anche se il male grida
vivrà sempre nel mondo la speranza
I pacifisti hanno nel raggio amaro ribattezzato il fascino
la luna in sette spade c’è silenzio un messaggio cifrato
per chi ascolta
La bellezza verrà te lo prometto
Lo promette lo Spirito alla folla
Nel discorso che viene da montagne
E resiste l’immagine dipinta
sotto cui ero solita mangiare
la fiamma con la luna la fierezza
i cavalieri usciti da quel mare
Tutto così sognante
Poi la vita
La guardo in occhi di ferocia e argento
e ho paura del buio
così come nessuno potrà mai riempire
il mio essere donna
C’era bellezza intorno
nonostante lo stridere dei ferri
C’era un’asse e una luce
La giustizia
Lontana e indispensabile
L’aurora
Necessaria ferocia del linguaggio
ora che tutto è aperto
L’albero incauto a cui mancò una foglia
Altezza del coraggio
Il suo nome fu quello
Quello solo
Coraggio
Come se i sogni nutrano
e passeggino
in un sogno deciso
Olga e Giulia a braccetto
ed io tremante come un nudo fagiano
La bellezza
Io piccolina
Olga e Giulia e la donna
che sputava in faccia ai suoi carnefici la vita
C’era un giardino un giorno
una volta sì c’era
C’era una volta
Un principe e una luce
Un guardiano di faggi
Un promontorio
Una lucciola spersa tra le foglie
Una eresia
Un incanto
Una carrozza che possedeva i suoi lingotti d’oro
Sono perduta e ascolto: così assurdo il linguaggio
Così acceso il cantare e il mormorio che fa di sale la cintura d’oro
Ho cento rapimenti
Lincoln ucciso, ucciso Petrosino ed ucciso Giuliano
E tanti ancora moriranno nel dubbio
Chi colora i rami della pioggia?
La bellezza fuori dal mondo viva
1 commento:
conosco Giulia Perroni da più di 20 anni e la leggo da altrettanto tempo. Ma riconosco che non è facile entrare dentro questo testo, complesso, polimorfico, variegato, lunghissimo, che si snoda come una muraglia cinese per migliaia di parole, sopra monti ed alture e lungo le pianure. Si sa che le vie della poesia sono infinite e che Melpomene si diverte a giocarsi a nascondino, per apparire in attimi fugaci quando siamo sopra pensiero e pensiamo ad altro. Complimenti ed auguri per questo ultimo libro di Giulia Perroni.
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