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lunedì 12 ottobre 2015

POESIA ITALIANA

        


    “La soglia del duende”


Riceviamo e pubblichiamo un testo di Antonio Sagredo, con un commento di Giorgio Linguaglossa e dello stesso Autore che ne esplicano il senso per una maggiore transizione del significato, non equiparabile all’area novecentesco-formalista, ma ad una implantologia rivoluzionaria della parola che, nel suo essere-non essere, traslucida la realtà in tutte le sue diramazioni sensoriali. C’è un termine usato da Sagredo, che allarma il lettore non conoscendone il collegamento, ed è: “duende”, facilmente reperibile, come indica il poeta, in un testo di Lorca. Ora, a parte gli accostamenti, e le derivazioni, leggendo questa poesia, non possono essere “incomprensibili” gli eventi riportati da Sagredo, con le varianti mostruose dei delitti della Storia. Da qui, si scorge subito il  “male di vivere” popolato di voci, di allarmi, di perenne conflittualità, con la  stessa lotta del “duende”, che non si pacifica con nessuno. In questo vivacissimo scontro-incontro, vi è tutta la spettrografia umorale di Sagredo che cerca un punto di appoggio ma non lo trova se non nel senso stesso del “duende”. Allora, sopravvenendo queste direzioni esplicative dell’energia-non forza, l’avvicinamento di Sagredo alla filosofia, pone da subito la vulnerabilità individuale di un poeta che cerca di correlarsi (o autoescludersi?) dal circuito referenziale con il lettore, attraverso la personalità, il carattere e il temperamento. Conciliando questi tre approcci si può ben carpire la poetica di Sagredo.


Mario M. Gabriele

    Antonio Sagredo  (1945)

Antonio Sagredo UNA POESIA "La soglia del duende" con Commento di Giorgio Linguaglossa e Autocommento dell'autore

Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.
La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.
Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).
Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).
Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche.
Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È in uscita, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems di Antonio Sagredo.

Commento di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Antonio Sagredo è un atto irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per incarnarsi deve pescare nelle profondità dell’Estraneo in quanto «le maschere si somigliano». La sua è una poesia che si assenta da questo e quello, dagli oggetti storici, sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità del discorso linguistico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura, non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.

Scrive Octavio Paz ne “L’arco e la lira”: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».
La parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso.

C’è un insieme ballerino e convergente:
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!
Solitudine della logica: punto del non-ritorno.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.
Solitudine del punto.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.
L’inizio non ha fine all’inizio della fine!

È un atto poetico che vuole situarsi all’inizio della costruzione della Lingua, in una solitudine assoluta ed eroica. È un atto maniacale e spasmodico, incipitale e magmatico.

Ogni atto «incipitario» è un «atto fondativo». La poesia di Sagredo va letta in quest’ottica: come ogni fondazione di città, traccia il decumano e il cardo e le innumerevoli vie trasversali che li attraversano, anche nella poesia sagrediana si pone il medesimo problema di disseminare i sensi e le direzioni di senso ai fini dell’orientamento nella città del Verbo. Sagredo sa bene che in ogni atto fondativo di parola si cela il Teatro della Rappresentazione, un rito, un altare (divelto), un logos (rimosso), un messaggio (tradito) ove il parlante è contraddetto e contraddistinto dalla parola parlata. La parola sagrediana assume la forma di una erotecnica, è sospinta da un desiderio di parola che vuole rimettere la parola al centro della scena della rimozione e del tradimento (di qui l’abbondanza nella sua poesia di armi bianche, di scene di tradimento, di sanguinamenti, di oltraggi etc.). La poesia sagrediana è una rappresentazione teatrale di un teatro finto, posticcio, bislacco, è una parola di cartapesta che la abita, una parola consunta e infingarda che guarda con orrore e dispetto al discorso poetico che crede ingenuamente di risolvere il conflitto tra il conscio e il rimosso, tra il tradimento e la fedeltà con il semplice ricorso ad una parola referenziale che tradisce un concetto federativo tra discorso poetico e reale (visto come una serie di oggetti che stanno di fronte al parlante).

Primo intento di Sagredo è quindi rompere il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante, il tacere al parlare, il parlare al tacere visti come soluzioni non accettabili ed insufficienti; secondo intento è rimescolare l’ordine e il disordine delle parole, considerate quali frattaglie algebriche della impossibilità di attingere un senso o una direzione di senso nella Città del Verbo. Lo scompaginamento, lo scassinamento e il caos verbale che ne conseguono sono il diretto risultato di un atteggiamento quasi donchisciottesco del poeta che si rivela impagliatore di frasari, fustigatore di parole, allibratore di scommesse perduteOltraggiatore di quisquilie, posteggiatore di improperi, fustigatore di imperatori. È l’irruzione nel Discorso della ragione Poetica, dell’Estraneo, dell’Alterità, del Simbolico, dell’Immaginario direbbe Lacan, della barra in-significante, della traccia perduta e dimenticata. Forse Antonio Sagredo è più prossimo ad Amleto di quanto si immagini, discetta sulla orditura del cosmo nel mentre che prepara il suo delitto di cartapesta. Forse, l’Utopia di Sagredo è un sogno, il sogno della uccisione del totem del Padre, sopprimere l’Estraneo…

Leggiamo una breve poesia di Antonio Sagredo:

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

La poesia parla di una «gorgiera» (elemento di una vestizione seicentesca che appariva immediatamente sotto il collo maschile, simbolo di nobiltà e di elevato censo sociale); ma la «gorgiera» è un attante di specificazione di un’altra parola chiave del testo: «di un delirio». Qui, subito all’inizio, troviamo una sineddoche, si nomina una parte del tutto per indicare il tutto; è quindi «il delirio» il centro del motore simbolico della poesia, ma appena leggiamo le parole seguenti del primo verso, ci accorgiamo che «la gorgiera» è diventata il soggetto che mostra che «la Via del Calvario Antico», qui si tratta di un accenno semantico alla crocifissione di Gesù, ma è appena un accenno, perché subito dopo si parla di «un crocicchio» dove «la calura» fa una cosa strana, Sagredo usa il verbo neologismo «atterò» (che non sappiamo che cosa possa significare ma che richiama alla mente una serie di accezioni semantiche secondarie). Dunque, siamo arrivati alla metà del secondo verso e già le cose si presentano maledettamente complicate. Ma che cos’è che «attera» (forse nel senso di atterrare, azzerare, sopprimere) «i miei pensieri»?. E qui di nuovo riemerge l’io spodestato dalla «gorgiera» del primo verso la cui presenza viene sottintesa nella declinazione alla prima persona dell’io poetante: «i miei pensieri». A questo punto veniamo informati che «che dall’Oriente […] «fu accecato» «il faro d’Alessandria». Il «faro d’Alessandria» si capisce subito dopo che è «Kavafis»…

Insomma, la poesia procede a zig zag, mediante espedienti del senso che straniano in continuazione il senso del testo, lo straniano appunto introducendo delle deviazioni continue. Il testo si presenta come una serie continua di deviazioni da una immagine, da una simbolica all’altra. La procedura sagrediana è questa: un infinito adeguarsi del senso. Sagredo fa con la mano sinistra quello che con la mano destra disfa; fa e disfa la tela di Penelope. È un falsario, un imbonitore e un rivoluzionario al tempo stesso, procede per tradimenti del senso e dell’orizzonte di attesa del lettore. Una instancabile ricerca di una traccia in direzione di una archi-traccia. Che non verrà mai trovata. Che non può mai essere trovata. Un Salvator Dalì della poesia italiana.

Nelle poesie di Sagredo noi sediamo in platea mentre sulla scena ha luogo una recita (non dimentichiamoci che Sagredo è stato attore ed è stato un ammiratore della poesia attoriale di Ripellino); nella recita Sagredo recita a soggetto. Ha in mente soltanto un canovaccio, sa a memoria soltanto alcune battute ma, al momento dell’entrata in scena, il canovaccio viene tradito, consegnato al pubblico e tradito. Sul palco del teatro si annuncia una messinscena, si allestisce uno spettacolo, si allestisce un parricidio simbolico che si risolve in un ossessivo, maniacale, spostamento degli oggetti e della suppellettile della casa paterna. Sagredo fa nella sua poesia ciò che Shakespeare ha fatto nell’Amleto, crea, e mentre che crea sente il bisogno di distruggere ciò che crea. È un cerchio simbolico che qui ha luogo. Un assassinio del Totem, sempre ripetuto e sempre rinviato. La poesia sagrediana diventa così un atto liturgico, regredisce a rito apotropaico. Sagredo decostruisce il testo nel momento in cui lo mette in scena o, almeno, nel momento in cui tenta di metterlo in scena.


Antonio Sagredo
La soglia del duende


Mi giunsero notizie come varianti mostruose da ogni luogo terrestre: l’orrore
non era più una novità per me, gli eventi  sugli occhi battevano i ritmi delle visioni
recidive: catastrofi, apocalissi il nostro pane quotidiano… i tasti del duende scellerati:
 Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!

Voi forse credete le croci meno mostruose delle scimitarre? I candelabri meno
mostruosi di quelle? Caroselli, giostre, morgue, obitori, mattatoi ad uso comune…
tutto o nulla fluisce dalla pianta dei piedi  al midollo… meno cantavo più la canzone
mi era sonoramente insensata: fuoco del sangue! sangue del fuoco!

Ho spremuto la Morte come un limone di primavera quel giorno romano che il silenzio
oscillava al canto del gallo come una banderuola gitana. Eloisa, meretrice di Siviglia,
batteva i quattro boulevards dell’arena, lei che era gobba come una prefica medievale  
cantava Santa Teresa barocca dal volto più affilato di una falce!

 Sugli altari delle lagrime scrisse con dita di cera un epitaffio muliebre con gli stiletti
delle sue unghie arcuate … era famosa come la bambina dei pettini e gareggiava
con le ballerine di Cadice, e danzava al canto di Silverio l’emorragia dei gesti dai balconi
giudei dei fiori di sale… mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.

La soglia e la ferita mi contesero il poeta sulle scale delle lagrime: era la squillante
voce piombata degli zoccoli sul nero suono muschiato…un’aria con odore di saliva
di bimbo, di erba pestata e velo di medusa sotto nuovi portali di scoperta.
Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!

  Roma, 10 ottobre 2015

Autocommento di Antonio Sagredo

Caro Giorgio,

cerco di spiegarmi:

Intanto dovresti sapere cosa è il duende. Se non lo sai dovresti leggere il testo di Federico Lorca del 1930: El duende teoria y juego.
Il poeta assegna alla ispanità 4 linee come strade o boulevards, e sono: gitano, barocco, ebraico, romano.

la prima strofa:

a tutti giungono notizie da tutto il mondo e sono notizie tragiche colme di orrori di vario genere, si presentano, come visioni recidive (nulla al mondo è cambiato in meglio e tutto gli orrori si ripetono fin dalle nostre origini tant'è che è pane quotidiano!), al contrario del duende che non si ripete mai!
Il duende questa forza di cui si sa e non si sa la natura ci suona il cervello (midollo) dai nostri primordi e suona scelleratamente: il quarto verso mio è tratto dalla poesia "Me ne fotto" del 2011. "Rose nere" coincidono (non lo sapevo prima) con quanto ci riporta Lorca nel suo scritto su menzionato, citando una frase di un personaggio spagnolo, dice Lorca:" Manuel Torres pronunciò questa splendida frase: : tutto ciò che ha suoni neri ha duende>".

seconda strofa:

croci sta per cristianesimo; scimitarre sta per islamismo; candelabri sta per ebraismo . sono le tre religioni monoteiste e tutte e tre responsabili delle
catastrofi e tragedie dell'umanità! Esse sono: caroselli morgue, ecc. alla portata di tutti, cioè tutti sono in grado di realizzare apocalissi! E il duende fluisce
 in noi dalla pianta dei piedi fino al midollo (dal testo di Lorca), vuole significare che questa forza-nonforza penetra in noi e ci cambia e con la stessa tendenza
se ne esce da noi! –(il duende non sta nella gola (Lorca) ciò significa che il poeta canta invano! e meno il poeta canta più il suono (nero) della canzone diviene insensato da non comprendere più dove sta il nostro fuoco e il nostro sangue:
vuol significare che il duende (questa energia) è così padrona di noi che noi stessi non sappiamo più chi siamo.

terza strofa:

la terza strofa richiede obbligatoriamente la conoscenza del testo di Lorca. Giorno romano  (una delle quattro grandi strade della tradizione spagnola - Lorca)… banderuola gitana…; Eloisa, la meretrice personaggio reale di Siviglia… gobba come una prefica… che (mia versione) canta Santa Teresa, barocca, induendata (sovrassatura di duende!) al massimo grado! – Lorca nel testo ci dice che la Musa e l’Angelo non hanno alcuna importanza per il duende, che sta altrove e che è di altra natura!
E ci dice qualcosa di fondamentale importanza che riguarda il Poeta: il duende ama la lotta, anzi il duende è la lotta stessa!... “e questa lotta per l’espressione e per la comunicazione dell’espressione a volte acquisisce, in poesia, caratteri mortali”.(Lorca) - (frase che definisce i miei versi!).

quarta strofa:

“sugli altari delle lacrime…” chi scrisse con mano di cera? Fu la Musa vinta, dice Lorca. E Santa Teresa? (carne viva!), e  il Duende? E il Poeta? E la Meretrice? = la bambina dei pettini che gareggia (mia versione) con le ballerine di Cadice, elogiate da Marziale (Lorca)… al canto di Silverio (gran personaggio spagnolo reale, artista e compositore di musiche…)… balconi giudei… - “mirando del mio corpo il non agire… e poi non più”: (mio verso tratto dalla poesia del 2004 Ponte del suono)… e ho scoperto di aver detto qualcosa di stupefacente sul duende che non sapevo e cioè che il non agire - (scrive Lorca: ”Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare”).

quinta strofa:

Il duende sta ai bordi (soglia) , sta  alla ferita, e esso stesso bordo e ferita. Scrive Lorca :” Angelo e Musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito, l’inventato dell’pera umana”.
Il verso: … si contesero il poeta sulle scale delle lacrime (lacrime come ferite aperte, carne viva, voce del poeta che è errato che resti nella gola quando il duende è invece l’energia che dalla pianta dei piedi sale fino al midollo!)... si, ma giunge con suoni neri di zoccoli piombati? Suono del piombo! E infine del testo Lorca scrive :”Ma dov’è il duende? [è in] un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create”.


 Il mio verso finale:
Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!
Che significa? È una uscita soltanto teatrale come di solito uso fare? Oppure no?
Scrive Lorca.”il duende è il sangue che  respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili… Che il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue”.
È tutto una serietà apparente, oppure no?
Di contro tutte le geometrie (“per cercare il duende non v’è mappa, né esercizio”, scrive Lorca) qui, del pianto (ma possono essere altre geometrie) io oppongo il trucco con gesso di Ruidera
(Ruidera, località lacustre nella arida regione di Castilla-La Mancha). Il trucco, per me, scompagina ogni classificazione geometrica della vita, per questo è una altra via che segna l’entrata trionfale del duende… sulla SOGLIA appare e tutto si inizia!



2 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

Credo che il "Duende" per Antonio Sagredo sia qualcosa di simile ad un'esca che consente di agguantare un pesce. Il "duende" consente a Sagredo di trovare consonanza con quella dimensione speciale fatta di vuoto che, volgarmente, noi chiamiamo ispirazione, equivocando sulla sua natura profonda.

Mario M. Gabriele ha detto...

l'interpretazione che ne fai del termine "duende" in aggiunta al tuo commento principale sulla poesia di Sagredo, qui pubblicata, è una felice intuizione. Bene! Ma qui, correlandomi al tuo concetto di "esca", senza, ovviamente, deturpare la tua definizione, mi corre un dubbio ed è questo: siamo in grado di riempire sempre il "vuoto" dandogli forma e vita? E se "l'esca" buttata in mare, per agguantare il pesce come felicemente tu definisci il "duende", alla fine non riporta in superficie il ricercatissimo "tartufo di mare"?