Riceviamo e pubblichiamo un testo di Antonio Sagredo, con un
commento di Giorgio Linguaglossa e dello stesso Autore che ne esplicano il
senso per una maggiore transizione del significato, non equiparabile all’area
novecentesco-formalista, ma ad una implantologia rivoluzionaria della parola
che, nel suo essere-non essere, traslucida la realtà in tutte le sue
diramazioni sensoriali. C’è un termine usato da Sagredo, che allarma il lettore
non conoscendone il collegamento, ed è: “duende”,
facilmente reperibile, come indica il poeta, in un testo di Lorca. Ora, a parte
gli accostamenti, e le derivazioni, leggendo questa poesia, non possono essere “incomprensibili” gli eventi riportati da
Sagredo, con le varianti mostruose dei delitti della Storia. Da qui, si scorge
subito il “male di vivere” popolato di voci, di allarmi, di perenne conflittualità,
con la stessa lotta del “duende”, che non si pacifica con
nessuno. In questo vivacissimo scontro-incontro, vi è tutta la spettrografia umorale
di Sagredo che cerca un punto di appoggio ma non lo trova se non nel senso
stesso del “duende”. Allora,
sopravvenendo queste direzioni esplicative dell’energia-non forza, l’avvicinamento
di Sagredo alla filosofia, pone da subito la vulnerabilità individuale di un
poeta che cerca di correlarsi (o autoescludersi?) dal circuito referenziale con
il lettore, attraverso la personalità, il carattere e il temperamento.
Conciliando questi tre approcci si può ben carpire la poetica di Sagredo.
Mario M. Gabriele
Antonio Sagredo (1945)
Antonio Sagredo UNA POESIA "La soglia del duende"
con Commento di Giorgio Linguaglossa e Autocommento dell'autore
Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di
Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a
Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini
(Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial
2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia»
(n.17), 1995, Zaragoza.
La Prima Legione (da Legioni, 1989)
in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro
delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.
Come articoli o saggi in La Zagaglia:
Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di
Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della
Porta): Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione
ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n.
11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi,
1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella
stupenda stagione teatrale).
Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni
di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di Josef
Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e
Kateřina Zoufalová; i poemi: Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A.
Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav
Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).
Traduzioni di poesie scelte di Katerina
Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in
varie riviste italiane e ceche.
Recentemente nella rivista «Poesia»
(settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di
lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di
Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È in
uscita, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems di Antonio Sagredo.
Commento di Giorgio Linguaglossa
La poesia di Antonio
Sagredo è un atto irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per incarnarsi deve pescare
nelle profondità dell’Estraneo in quanto «le maschere si somigliano». La
sua è una poesia che si assenta da questo e quello, dagli oggetti storici,
sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego
degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a
stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità del discorso
linguistico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura,
non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari
delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli
orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.
Scrive Octavio Paz ne “L’arco e la lira”: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».
La parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso.
C’è un insieme ballerino
e convergente:
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!
Solitudine della logica:
punto del non-ritorno.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.
Solitudine del punto.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.
L’inizio non ha fine
all’inizio della fine!
È un atto poetico
che vuole situarsi all’inizio della costruzione della Lingua, in una solitudine
assoluta ed eroica. È un atto maniacale e spasmodico, incipitale e magmatico.
Ogni atto «incipitario»
è un «atto fondativo». La poesia di Sagredo va
letta in quest’ottica: come ogni fondazione di città, traccia il decumano e il
cardo e le innumerevoli vie trasversali che li attraversano, anche nella poesia
sagrediana si pone il medesimo problema di disseminare i sensi e le direzioni
di senso ai fini dell’orientamento nella città del Verbo. Sagredo sa bene che
in ogni atto fondativo di parola si cela il Teatro della Rappresentazione,
un rito, un altare (divelto), un logos (rimosso), un messaggio (tradito) ove il
parlante è contraddetto e contraddistinto dalla parola parlata. La parola
sagrediana assume la forma di una erotecnica, è sospinta da un desiderio di
parola che vuole rimettere la parola al centro della scena della rimozione e
del tradimento (di qui l’abbondanza nella sua poesia di armi bianche, di scene
di tradimento, di sanguinamenti, di oltraggi etc.). La poesia sagrediana è
una rappresentazione teatrale di un teatro finto, posticcio, bislacco,
è una parola di cartapesta che la abita, una parola consunta e
infingarda che guarda con orrore e dispetto al discorso poetico che crede
ingenuamente di risolvere il conflitto tra il conscio e il rimosso, tra il
tradimento e la fedeltà con il semplice ricorso ad una parola referenziale che
tradisce un concetto federativo tra discorso poetico e reale (visto come una
serie di oggetti che stanno di fronte al parlante).
Primo intento di
Sagredo è quindi rompere il patto federativo che lega la parola al referente e
la parola al significante, il
tacere al parlare, il parlare al tacere visti come soluzioni non accettabili ed
insufficienti; secondo intento è rimescolare l’ordine e il disordine delle
parole, considerate quali frattaglie algebriche della impossibilità di
attingere un senso o una direzione di senso nella Città del Verbo.
Lo scompaginamento, lo scassinamento e il caos verbale che ne conseguono sono
il diretto risultato di un atteggiamento quasi donchisciottesco del poeta che
si rivela impagliatore di
frasari, fustigatore di parole, allibratore di scommesse perdute… Oltraggiatore
di quisquilie, posteggiatore di improperi, fustigatore di imperatori. È
l’irruzione nel Discorso della ragione Poetica, dell’Estraneo, dell’Alterità,
del Simbolico, dell’Immaginario direbbe Lacan, della barra in-significante, della
traccia perduta e dimenticata. Forse Antonio Sagredo è più prossimo ad Amleto
di quanto si immagini, discetta sulla orditura del cosmo nel mentre che prepara
il suo delitto di cartapesta. Forse, l’Utopia di Sagredo è un sogno, il sogno
della uccisione del totem del Padre, sopprimere l’Estraneo…
Leggiamo una breve
poesia di Antonio Sagredo:
La
gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…
La poesia parla di una «gorgiera» (elemento di una vestizione seicentesca
che appariva immediatamente sotto il collo maschile, simbolo di nobiltà e di
elevato censo sociale); ma la «gorgiera» è un attante di specificazione di
un’altra parola chiave del testo: «di un delirio». Qui, subito all’inizio,
troviamo una sineddoche, si nomina una parte del tutto per indicare il tutto; è
quindi «il delirio» il centro del motore simbolico della poesia, ma appena
leggiamo le parole seguenti del primo verso, ci accorgiamo che «la gorgiera» è
diventata il soggetto che mostra che «la Via del Calvario Antico», qui si
tratta di un accenno semantico alla crocifissione di Gesù, ma è appena un
accenno, perché subito dopo si parla di «un crocicchio» dove «la calura» fa una
cosa strana, Sagredo usa il verbo neologismo «atterò» (che non sappiamo che
cosa possa significare ma che richiama alla mente una serie di accezioni
semantiche secondarie). Dunque, siamo arrivati alla metà del secondo verso e
già le cose si presentano maledettamente complicate. Ma che cos’è che «attera»
(forse nel senso di atterrare, azzerare, sopprimere) «i miei pensieri»?. E qui
di nuovo riemerge l’io spodestato dalla «gorgiera» del primo verso la cui
presenza viene sottintesa nella declinazione alla prima persona dell’io
poetante: «i miei pensieri». A questo punto veniamo informati che «che
dall’Oriente […] «fu accecato» «il faro d’Alessandria». Il «faro d’Alessandria»
si capisce subito dopo che è «Kavafis»…
Insomma, la poesia procede a zig zag, mediante espedienti del senso che straniano in continuazione il senso del testo, lo straniano appunto introducendo delle deviazioni continue. Il testo si presenta come una serie continua di deviazioni da una immagine, da una simbolica all’altra. La procedura sagrediana è questa: un infinito adeguarsi del senso. Sagredo fa con la mano sinistra quello che con la mano destra disfa; fa e disfa la tela di Penelope. È un falsario, un imbonitore e un rivoluzionario al tempo stesso, procede per tradimenti del senso e dell’orizzonte di attesa del lettore. Una instancabile ricerca di una traccia in direzione di una archi-traccia. Che non verrà mai trovata. Che non può mai essere trovata. Un Salvator Dalì della poesia italiana.
Nelle poesie di Sagredo noi sediamo in platea mentre sulla scena ha luogo una recita (non dimentichiamoci che Sagredo è stato attore ed è stato un ammiratore della poesia attoriale di Ripellino); nella recita Sagredo recita a soggetto. Ha in mente soltanto un canovaccio, sa a memoria soltanto alcune battute ma, al momento dell’entrata in scena, il canovaccio viene tradito, consegnato al pubblico e tradito. Sul palco del teatro si annuncia una messinscena, si allestisce uno spettacolo, si allestisce un parricidio simbolico che si risolve in un ossessivo, maniacale, spostamento degli oggetti e della suppellettile della casa paterna. Sagredo fa nella sua poesia ciò che Shakespeare ha fatto nell’Amleto, crea, e mentre che crea sente il bisogno di distruggere ciò che crea. È un cerchio simbolico che qui ha luogo. Un assassinio del Totem, sempre ripetuto e sempre rinviato. La poesia sagrediana diventa così un atto liturgico, regredisce a rito apotropaico. Sagredo decostruisce il testo nel momento in cui lo mette in scena o, almeno, nel momento in cui tenta di metterlo in scena.
Antonio Sagredo
La soglia del duende
Mi giunsero notizie
come varianti mostruose da ogni luogo terrestre: l’orrore
non era più una
novità per me, gli eventi sugli occhi battevano i ritmi delle visioni
recidive:
catastrofi, apocalissi il nostro pane quotidiano… i tasti del duende scellerati:
Sono rose
nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!
Voi forse credete le
croci meno mostruose delle scimitarre? I candelabri meno
mostruosi di quelle?
Caroselli, giostre, morgue, obitori, mattatoi ad uso comune…
tutto o nulla
fluisce dalla pianta dei piedi al midollo… meno cantavo più la
canzone
mi era sonoramente
insensata: fuoco del sangue! sangue del fuoco!
Ho spremuto la Morte
come un limone di primavera quel giorno romano che il silenzio
oscillava al canto
del gallo come una banderuola gitana. Eloisa, meretrice di Siviglia,
batteva i quattro
boulevards dell’arena, lei che era gobba come una prefica
medievale
cantava Santa Teresa
barocca dal volto più affilato di una falce!
Sugli altari
delle lagrime scrisse con dita di cera un epitaffio muliebre con gli
stiletti
delle sue unghie
arcuate … era famosa come la bambina dei pettini e gareggiava
con le ballerine
di Cadice, e danzava al canto di Silverio l’emorragia dei gesti
dai balconi
giudei dei fiori di
sale… mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
La soglia e la
ferita mi contesero il poeta sulle scale delle lagrime: era
la squillante
voce piombata degli
zoccoli sul nero suono muschiato…un’aria con odore di saliva
di bimbo, di erba
pestata e velo di medusa sotto
nuovi portali di scoperta.
Ma contro la
geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!
Roma, 10
ottobre 2015
Autocommento di Antonio Sagredo
Caro Giorgio,
cerco di spiegarmi:
Intanto dovresti
sapere cosa è il duende. Se non lo sai dovresti leggere il testo di
Federico Lorca del 1930: El duende teoria
y juego.
Il poeta assegna
alla ispanità 4 linee come strade o boulevards, e sono: gitano, barocco,
ebraico, romano.
la prima strofa:
a tutti giungono
notizie da tutto il mondo e sono notizie tragiche colme di orrori di vario
genere, si presentano, come visioni recidive (nulla al mondo è cambiato in
meglio e tutto gli orrori si ripetono fin dalle nostre origini tant'è che è pane
quotidiano!), al contrario del duende che non si ripete mai!
Il duende questa
forza di cui si sa e non si sa la natura ci suona il cervello (midollo)
dai nostri primordi e suona scelleratamente: il quarto verso mio è tratto
dalla poesia "Me ne fotto" del 2011. "Rose nere"
coincidono (non lo sapevo prima) con quanto ci riporta Lorca nel suo scritto su
menzionato, citando una frase di un personaggio spagnolo, dice Lorca:" Manuel
Torres pronunciò questa splendida frase: : tutto ciò che
ha suoni neri ha duende>".
seconda strofa:
croci sta per
cristianesimo; scimitarre sta per islamismo; candelabri sta per ebraismo . sono
le tre religioni monoteiste e tutte e tre responsabili delle
catastrofi e
tragedie dell'umanità! Esse sono: caroselli morgue, ecc. alla portata di tutti,
cioè tutti sono in grado di realizzare apocalissi! E il duende fluisce
in noi dalla
pianta dei piedi fino al midollo (dal testo di Lorca), vuole significare
che questa forza-nonforza penetra in noi e ci cambia e con la stessa tendenza
se ne esce da noi!
–(il duende non sta nella gola (Lorca) ciò significa che il poeta canta
invano! e meno il poeta canta più il suono (nero) della canzone
diviene insensato da non comprendere più dove sta il nostro fuoco e il nostro
sangue:
vuol significare che
il duende (questa energia) è così padrona di noi che noi stessi non sappiamo
più chi siamo.
terza strofa:
la terza strofa
richiede obbligatoriamente la conoscenza del testo di Lorca. Giorno
romano (una delle quattro grandi strade della tradizione
spagnola - Lorca)… banderuola gitana…; Eloisa, la meretrice
personaggio reale di Siviglia… gobba come una prefica… che (mia
versione) canta Santa Teresa, barocca, induendata (sovrassatura
di duende!) al massimo grado! – Lorca nel testo ci dice che la Musa e
l’Angelo non hanno alcuna importanza per il duende, che sta altrove e che è di
altra natura!
E ci dice qualcosa
di fondamentale importanza che riguarda il Poeta: il duende ama la lotta, anzi
il duende è la lotta stessa!... “e questa lotta per l’espressione e per la
comunicazione dell’espressione a volte acquisisce, in poesia, caratteri
mortali”.(Lorca) - (frase che definisce i miei versi!).
quarta strofa:
“sugli altari delle
lacrime…” chi scrisse con mano di cera? Fu la Musa vinta, dice Lorca. E
Santa Teresa? (carne viva!), e il Duende? E il Poeta? E la
Meretrice? = la bambina dei pettini che gareggia (mia versione) con le
ballerine di Cadice, elogiate da Marziale (Lorca)… al canto di Silverio
(gran personaggio spagnolo reale, artista e compositore di musiche…)… balconi
giudei… - “mirando del mio corpo il non agire… e poi non più”: (mio
verso tratto dalla poesia del 2004 Ponte del suono)… e ho scoperto di
aver detto qualcosa di stupefacente sul duende che non sapevo e cioè che il
non agire - (scrive Lorca: ”Così, dunque, il duende è un potere e non un
agire, è un lottare e non un pensare”).
quinta strofa:
Il duende sta ai
bordi (soglia) , sta alla ferita, e esso stesso bordo e ferita. Scrive
Lorca :” Angelo e Musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e
nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito,
l’inventato dell’pera umana”.
Il verso: … si
contesero il poeta sulle scale delle lacrime (lacrime come ferite aperte, carne viva, voce
del poeta che è errato che resti nella gola quando il duende è invece
l’energia che dalla pianta dei piedi sale fino al midollo!)... si, ma
giunge con suoni neri di zoccoli piombati? Suono del piombo! E infine
del testo Lorca scrive :”Ma dov’è il duende? [è in] un’aria con odore
di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante
battesimo delle cose appena create”.
Il mio verso
finale:
Ma contro la
geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera! –
Che significa? È una
uscita soltanto teatrale come di solito uso fare? Oppure no?
Scrive Lorca.”il
duende è il sangue che respinge tutta la dolce geometria appresa, che
rompe gli stili… Che il duende bisogna svegliarlo nelle più
recondite stanze del sangue”.
È tutto una serietà
apparente, oppure no?
Di contro tutte le
geometrie (“per cercare il duende non v’è mappa, né esercizio”, scrive
Lorca) qui, del pianto (ma possono essere altre geometrie) io oppongo il trucco
con gesso di Ruidera
(Ruidera, località
lacustre nella arida regione di Castilla-La Mancha). Il trucco, per me,
scompagina ogni classificazione geometrica della vita, per questo è una altra
via che segna l’entrata trionfale del duende… sulla SOGLIA appare e tutto si
inizia!
2 commenti:
Credo che il "Duende" per Antonio Sagredo sia qualcosa di simile ad un'esca che consente di agguantare un pesce. Il "duende" consente a Sagredo di trovare consonanza con quella dimensione speciale fatta di vuoto che, volgarmente, noi chiamiamo ispirazione, equivocando sulla sua natura profonda.
l'interpretazione che ne fai del termine "duende" in aggiunta al tuo commento principale sulla poesia di Sagredo, qui pubblicata, è una felice intuizione. Bene! Ma qui, correlandomi al tuo concetto di "esca", senza, ovviamente, deturpare la tua definizione, mi corre un dubbio ed è questo: siamo in grado di riempire sempre il "vuoto" dandogli forma e vita? E se "l'esca" buttata in mare, per agguantare il pesce come felicemente tu definisci il "duende", alla fine non riporta in superficie il ricercatissimo "tartufo di mare"?
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