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giovedì 29 ottobre 2015

POESIA ITALIANA

GIULIA PERRONI


Giulia Perroni POESIE SCELTE da La tri dell’eclisse con un Commento di Lidia Gargiulo



L’ultimo, ampio lavoro di Giulia Perroni non approda a un punto fermo né si apre a vie di fuga, eppure è attraversato da una vita in movimento, voci e presenze di un passato che si affaccia a restituire o reinventare la differenza è minima - c che pareva consumato, perduto per sempre. Questo racconto, dunque, pur attraversando esperienze e stati d’animo, sostanzialmente rimane un non finito in attesa di nuovi pensieri. Dal passato riemerge l’intricato confronto con la madre: essere come lei ma essere anche nuova e diversa; e l’oscillare tra presenza e assenza nello strano orologio dei ricordi: prima bambina e poi inquieta adolescente in cerca di se stessa, a ripensare l’accaduto, nel desiderio-illusione che quei fatti compiuti possano cambiare e tornare più leggeri alla memoria. Ora visibile ora segreto, il colloquio di figlia con la madre si svolge nella vita pa- rallela dell’immaginazione. Il buono del narrare, dunque, qui non è nell’invenzione di luoghi e tempi, ma nel ritorno fantasticato di cche vuole rivivere, a cui chiediamo di parlare ancora. Flusso conti- nuo, il quotidiano si inserisce nella Storia maiuscola dei libri di scuola rievocando i luoghi dei trionfi e degli eroi, gli orrori delle stragi; e man mano che il racconto cammina, il lettore entra nel flusso del suo ritmo, ne adotta la sintassi, si immerge nel racconto.

Comunque la si legga, dal primo all’ultimo verso o con casuali assaggi, questa scrittura è un colorato intreccio di memoria e in- venzione, che rimescola storia e leggenda nella verità che ognuno cova e ascolta in privato, verità inventata, ossia ritrovata nel profondo di noi, lì dove il soggettivo conta più dell’oggettivo. In questo sogno ad occhi aperti l’autrice attraversa storia privata e storia di nazioni: Garibaldi e la Sicilia da salvare dai Borbone, la distruzione barbara del territorio preda dei vincitori, nuovi padroni che non la cono- scono e non possono amarla (acqua di fonte mutata in veleno)... Forse solo questo, ai nostri giorni, può darci la poesia, ma non è poco: Giulia Perroni è un interessante esempio di fedeltà di poeta al pro- prio stile, al proprio modo di vedere e indagare; in quest’ultimo la- voro si può dire che, pur affinando lo stile e allargando lorizzonte, rimane così fedele a sé che è impossibile non riconoscerla nell’er- rante abbondanza del narrare.

Al lettore non sfuggirà l’inquietudine del dire nella necessità di questo raccontare, l’alternarsi in folla di fatti e parole, manipoli di pensieri e visioni che si contendono spazio, attenzione e testimo- nianza (...la bellezza si schianta con la vita...); cercano laperto, cercano vita, vogliono ricordo di scrittura... Ma ai tempi doggi non è facile scrivere, non perc non abbiamo parole ma perc ne abbiamo troppe; non per mancanza di fantasia ma perc siamo assaliti da troppe immagini che tutte insieme chiedono di entrare nel discorso. Babele, Labirinto: mescolanza fittizia e ingannevole di tutto con tutto e la clausura del pensiero; lassenza di conversazione nell’immensa presenza di parole... Rinunciando alla comprensione, ci aggiriamo nel caos tra simboli e macerie, in compagnia di fantasmi che non cercano un senso. (...mi dispiace, è la storia. Pg. 93)

È la fine del senso ma non della memoria; la memoria anzi ri- bolle, manda scaglie di vita ma non si ricompone se al passato non diamo un posto nella mente; senza ricordo cè l’invasione che ripete il caos e non diventa cosmo, molecole recalcitranti al senso, insieme nella testa ma ognuna estranea all’altra.

Scrivere, raccontare, riferire sono esposti a strategie narrative che a volte, invece di testimoniare, tolgono o aggiungono all’accaduto qualcosa che dovrebbe abbellire ma in verità deforma o tradisce. Forse perc nei versi della Tribù troviamo l’accaduto ma raramente il senso: troviamo nude le cose, ognuna con se stessa e solo quella, refrattaria alla composizione; storie che si affacciano e altre storie spingono sul palcoscenico del dire e ricordare (la bellezza verrà, te lo prometto, pg.84), vediamo cose del mondo ma non è il cosmo, c’è l’accaduto ma non è la storia, c’è un vai e vieni di fatti e nomi. La frantumazione non è nuova alla poesia di Giulia Perroni, ma in quest’ultima prova si rivela scelta consapevole. Più visibile marchio del suo pensare e dire, un fluido caos scorre negli occhi e negli orecchi di chi legge, ricco di immagini, colori, scene, residui di vita umana alla deriva, di cui non si conosce approdo, non si vede ri- medio...

Siamo nel Labirinto della leggenda antica reinventata in un rac- conto da Friedrich Dürrenmatt: tra specchi e moltiplicate immagini, in tempi di troppe verità che si smentiscono l’una con l’altra siccmenzogna e verità, presenza e assenza, memoria e oblio sono la

stessa cosa, cerchiamo il padrone di casa, cerchiamo l’uscita, cer- chiamo il Minotauro ma non troviamo. Niente e nessuno ci salverà, non verrà Teseo a liberarci, non vedremo il Minotauro, forse nem- meno esiste... Eppure, incantati dai colori del mondo, il labirinto ci invita al futuro. Quale futuro? Siamo prigionieri che si credono liberi: è l’umano felice-tragico del nostro stare al mondo, il troppo di accadere, il poco di memoria, il distratto momento dellascolto... C’è tutto nelle pagine e tuttavia può essere poco; dipende, come sempre, da colui che legge, l’ignoto lettore che nello specchio dei versi riconosce una parte di sé.

Al poeta non chiedere come si fa, lui stesso non lo sa; lo sa in altro modo:
lo ha scritto, è questa la risposta. (lidia gargiulo)



Nereidi, nottetempo, appena dopo l’equinozio d’autunno
                                                                                                                             
*
Giulia Perroni da La tribù dell’eclisse(Passigli, 2015)
(...)
Io bevevo la pioggia sacrosanta come le zolle in cielo
e mi stupivo che la bellezza fosse nelle strade
oscura nella forza

Mi stupivo che fossi io la bellezza

La  vittoria di serpi di corallo

Voi date onore ai morti, cavalieri

Cavalieri che nelle lance mai perdete il giorno

Giulia era bella nel soffitto d’oro

Malinconia d’un tempo

Cavalieri che forse veleggiate
alla ricerca della vita bionda
del calice che imprime la sua fine
non uccidete gli uomini già morti

Ci fu un tempo ora l’anima è stravolta
la gran virtù s’è fatta titubanza
pepita d’oro e attimo violento
nella stanza degli echi

La ferocia è la paga dei vigliacchi
l’estirpare rinfocola la notte
e il grigio buio aliena le sorgenti

Non ci sarà speranza

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca

Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno

L’ossessione che naviga nel cielo

E questo è tutto

Origine del vero

C’è silenzio quando origlia la notte

Era tabù la stanza di orologi
di fucili di lame di fanfare
brillava solo il mondo solo il mare
e l’abbraccio magnifico e stupendo
con la vita del tutto

Solo il mare

L’immensità che canta

Il mare azzurro denso d’amore e quieto

Penzolava una rosa dal giardino
dalla soglia si nutre la speranza
anche oggi un fiore rosa
penzola all’aria fuori dal cancello

Anche oggi è la vita
mescolata ai colchici dell’ombra

Ezra rimane duro e battagliero
solitario e profondo
ed anche chi non seppe dire il mantra
che popolava i secoli

Dorme con me la vita

Gli sconfitti hanno una giara che riabbaglia il senso
la pregnanza che illude le chimere

Abbiate pace tutti quelli che vissero

Ogni cosa serve per essere

Venne la pietra a contrastare l’acqua, il fuoco la vertigine
il riparo fu nel sole bellissimo la vita quando l’arte ci avvolse
e in quei momenti come dentro l’amore si discinse
il giorno con la pioggia

E in quei momenti di mezzo sole l’arte fu fulgore

Per la vita strapperò le catene

Anche mia figlia è sogno

Per la vita datemi un nodo per i lestofanti
forse ne avrò pietà
ma non c’è forza che oscuri in me l’Amore
che possa dire smetti di sognare

Io non potrò lasciarle nella casa il sandalo dei lumi o l’impreciso
bianco sconforto delle tele bianche nelle attese ghiottissime
dei nembi non potrò con sveltissimi riguardi tambureggiare
varchi e gelsomini né capriole di nubi oltre lo sguardo ma dirle
che l’eccelso può apparire e darle pace e un’ottima carezza

I lestofanti sono indistinguibili
ma tu per me rimani
accetta il sole sopra ai mandarini
è un disegno di vita

Per favore rimani

Dal deserto sorgono fiabe dentro visi scuri

Rimani, ogni cosa avrà corso

I lestofanti fuggiranno più svelti della luna
quando i cervi camminano e singhiozzano
sulle radure d’api e cinghialini
faranno d’aria i monti

Fuggiranno e tu sarai regina

Te lo prometto

Anche se il male grida
vivrà sempre nel mondo la speranza

I pacifisti hanno nel raggio amaro ribattezzato il fascino
la luna in sette spade c’è silenzio un messaggio cifrato
per chi ascolta

La bellezza verrà te lo prometto

Lo promette lo Spirito alla folla

Nel discorso che viene da montagne

E resiste l’immagine dipinta
sotto cui ero solita mangiare
la fiamma con la luna la fierezza
i cavalieri usciti da quel mare

Tutto così sognante

Poi la vita

La guardo in occhi di ferocia e argento
e ho paura del buio
così come nessuno potrà mai riempire
il mio essere donna

C’era bellezza intorno
nonostante lo stridere dei ferri

C’era un’asse e una luce

La giustizia

Lontana e indispensabile

L’aurora

Necessaria ferocia del linguaggio
ora che tutto è aperto

L’albero incauto a cui mancò una foglia

Altezza del coraggio

Il suo nome fu quello

Quello solo

Coraggio

Come se i sogni nutrano
e passeggino
in un sogno deciso

Olga e Giulia a braccetto
ed io tremante come un nudo fagiano

La bellezza

Io piccolina

Olga e Giulia e la donna
che sputava in faccia ai suoi carnefici la vita

C’era un giardino un giorno
una volta sì c’era

C’era una volta

Un principe e una luce

Un guardiano di faggi

Un promontorio

Una lucciola spersa tra le foglie

Una eresia

Un incanto

Una carrozza che possedeva i suoi lingotti d’oro

Sono perduta e ascolto: così assurdo il linguaggio

Così acceso il cantare e il mormorio che fa di sale la cintura d’oro

Ho cento rapimenti

Lincoln ucciso, ucciso Petrosino ed ucciso Giuliano

E tanti ancora moriranno nel dubbio

Chi colora i rami della pioggia?

La bellezza fuori dal mondo viva



1 commento:

giorgio linguaglossa ha detto...

conosco Giulia Perroni da più di 20 anni e la leggo da altrettanto tempo. Ma riconosco che non è facile entrare dentro questo testo, complesso, polimorfico, variegato, lunghissimo, che si snoda come una muraglia cinese per migliaia di parole, sopra monti ed alture e lungo le pianure. Si sa che le vie della poesia sono infinite e che Melpomene si diverte a giocarsi a nascondino, per apparire in attimi fugaci quando siamo sopra pensiero e pensiamo ad altro. Complimenti ed auguri per questo ultimo libro di Giulia Perroni.