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lunedì 3 novembre 2008

SYLVIA PLATH
(1932-1963)



L’aspirante

Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l’hai?
Un occhio di vetro, denti finti o una gruccia.
Un tirante o un uncino,
Seni di gomma, inguine di gomma,

Rattoppi o qualcosa che manca? Ah
No? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una mano

Che la riempie, disposta
A porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
E a fare ogni cosa che gli dirai,
La vorresti sposare?
E’ garantita,

Ti tapperà gli occhi alla fine della vita
E del dolore,
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme –

Un po’ rigido e nero, ma niente male,
Lo vorresti sposare?

E’ impensabile, in frantumabile, abile
Contro il fuoco e imbombardabile
Credi a me, ti ci farai sotterrare.

E adesso, scusa, hai vuota la testa
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci fuori dal guscio.
Ecco, ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca.

Ma in venticinque anni d’argento,
D’oro in cinquanta, potrà diventare,
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
Sa parlare, parlare, parlare.

E funziona, non ha una magagna,
Qua c’è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l’ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?
Sylvia Plath

(Traduzione di Giovanni Giudici, “Almanacco dello Specchio” n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori)

Lady Lazarus

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
Ci riesco –

Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Un fermacarte il mio

Piede destro,
la mia faccia un anonimo, perfetto
Lino ebraico

Via il drappo
O mio nemico!
Faccio forse paura?

Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.

Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me

E io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.

Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.

Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
Si accalca per vedere

Che mi sbendano mano e piede –
Il grande spogliarello.
Signori e Signore, ecco qui

Le mie mani,
I miei ginocchi,
Sarò anche pelle e ossa.

Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.

Ma la seconda volta ero decisa
A insistere,a non eccedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.

Morire
E’ un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.

E’ facile abbastanza da farlo in una cella.
E’ facile abbastanza da farlo e starsene lì.
E’ il teatrale

Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale
Urlo divertito e animale:

“Miracolo!”
E’ questo che mi ammazza,
C’è un prezzo da pagare

Per spiare
Le mie cicatrici, per auscultare
Il mio cuore . eh sì, batte.

E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po’ del mio sangue

O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor
Eh sì, Herr Nemico.

Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creatura d’oro puro

Che a uno strillo si liquefa.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.

Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate-

Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.

Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.

Dalla cenere io rinvengo
Con le mie ossa chiome
E mangio uomini come aria di vento.
Sylvia Plath

(Traduzione di Giovanni Giudici, Almanacco dello Specchio n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore)
Questi due testi sono il resoconto poetico di vari suicidi tentati dalla Plath, uno dei quali, riuscito la mattina dell’11 febbraio 1963. “Taluni critici” scrive Giovanni Giudici nella introduzione e traduzione di Lady Lazarus, otto poesie, su l’Almanacco dello Specchio,“tendono spesso a considerare il suicidio di un poeta come corollario e addirittura parte integrante dell’opera, che ne diventerebbe, pertanto, una o più o meno consapevole preparazione. – Nel caso della Plath (che quando ci riuscì era già al terzo tentativo) ciò potrebbe apparire quasi vero alla lettura dei testi. Ma potrebbe valere anche l’ipotesi contraria che la presenza del tema –suicidio- o – autocancellazione- in alcune delle sue poesie più riuscite fosse in effetti un modo rituale di esorcizzare l’irrazionale del cupio dissolvi; la poesia è spesso finzione scenica dove il tanto parlare di morte può significare in realtà un disperato amore del vivere”


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