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domenica 27 giugno 2010

GIUSEPPE UNGARETTI
(1888-1970)



1
“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto”…
E il volto già scomparso
ma gli occhi ancora vivi
dal guanciale volgeva alla finestra,
e riempivano passeri la stanza
verso le briciole dal babbo sparse
per distrarre il suo bimbo…

2

Ora potrò baciare solo in sogno
le fiduciose mani….
E discorro, lavoro,
sono appena mutato, temo, fumo…
Come si può ch’io regga a tanta notte?...

3

Mi porteranno gli anni
chissà quali altri orrori,
ma ti sentivo accanto,
m’avresti consolato…..

4

Mai, non saprete mai come m’illumina
l’ombra che mi si pone a lato, timida,
quando non spero più…

5

Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze
sollevava dai crucci un uomo stanco?...
La terra l’ha disfatta, la protegge
un passato di favola….

6

Ogni altra voce é un’eco che si spegne
ora che una mi chiama
dalle vette immortali….

7

In cielo cerco il tuo felice volto,
ed i miei occhi in me null’altro vedano
quando anch’essi vorrà chiudere Iddio….

8

E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!....

9

Inferocita terra, immane mare
mi separa dal luogo della tomba
dove ora si disperde
il martoriato corpo…
Non conta….Ascolto sempre più distinta
quella voce d’anima
che non seppi difendere quaggiù….
M’isola, sempre più festosa e amica
di minuto in minuto
nel suo segreto semplice…

10

Sono tornato ai colli, ai pini amati
e del ritmo dell’aria il patrio accento
che non riudrò con te,
mi spezza ad ogni soffio….

11

Passa la rondine e con essa estate,
e anch’io, mi dico, passerò…….
Ma resti dell’amore che mi strazia
non solo segno un breve appannamento
se dall’inferno arrivo a qualche quiete…..

12

Sotto la scure il disilluso ramo
cadendo si lamenta appena, meno
che non la foglia al tocco della brezza….
E fu la furia che abbatté la tenera
forma e la premurosa
carità d’una voce mi consuma….

13

Non più furori reca a me l’estate,
né primavera i suoi presentimenti;
puoi declinare, autunno,
con le tue stolte glorie:
per uno spoglio desiderio, inverno
distende la stagione più clemente!....

14

Già m’è nelle ossa scesa
l’autunnale secchezza ,
ma, protratto dalle ombre,
sopravviene infinito
un demente fulgore:
la tortura segreta del crepuscolo
inabissato….

15

Rievocherò senza rimorso sempre
un’incantevole agonia dei sensi?
Ascolta, cieco:”Un’anima è partita
dal comune castigo ancora illesa….”

Mi abbatterà meno di non più udire
i gridi vivi della sua purezza
che di sentire quasi estinto in me
il fremito pauroso della colpa?….

16

Agli abbagli che squillano dai vetri
squadra un riflesso alla tovaglia l’ombra,
tornano al lustro labile d’un orcio
gonfie d’ortensie dall’aiuola, un rondone ebbro,
il grattacielo in vampe dalle nuvole,
sull’albero, saltelli d’un bimbetto….

Inesauribile fragore di onde
si dà che giunga allora nella stanza
e, alla fermezza inquieta d’una linea
azzurra, ogni parete si dilegua…..

17

Fu dolce e forse qui vicino passi
dicendo:” Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l’aurora e intatto giorno”.
Giuseppe Ungaretti

(da: Giorno per giorno (1940-1946)

venerdì 25 giugno 2010

EDOARDO SANGUINETI
(1930-2010)



“ma Mocky, tornando da St. Lò, si aggiustava i capelli
sulla fronte
(abbiamo bevuto, anche, con Alain Borne di Montélimar, Dròle);
(ma non volle,
la sera, giocare aux Ambassadeurs): poi tutti dormirono, in macchina,
sulla strada Parigi, nell’alta (e poi giù!) notte
(nell’alta nebbia):
(e poi, giù!) amore!
Philippe (disse),
j’ai SOIF!:
attraverso Hebecrevon, Lessay, Portbail), At.Sauver (sotto la pioggia
sempre) poi Edith disse che non era gentile (perché non scrivevo,
come Pierre,
per lei, quelques poèmes; (e che non dovevamo partire); Micheline
ci giudicò molto semplici; e Edith e Micheline, quando io dissi
che non l’avevo
tradita (mia moglie), vollero crederlo;
e qui cade opportuno ricordare
quel;
“se ti buttassi le braccia al collo ecc”, che venne poi
poi si ballò
tutti, anche
Micha, nel salottino, attraverso Cerisy, Canisy, Coutances,
Begneville;
(ma il 12
luglio era chiuso il Louvre, martedì
e scrisse (sopra un foglio
a quadretti)
“pensavo che non posso guardarti in faccia”; e mi dispiace per te)
e ancora scrisse (mia moglie): “sto male”,
e poi a Gap (H.A.),
(due giorni più tardi), storditi ancora, quasi inerti: e pensare (dissi);
che noi (quasi piangendo, dissi): (e volevo dire, ma quasi mi
soffocava,
davvero, il pianto; volevo dire: con un amore come questo, noi):
un giorno (noi); (e nella piazza strepitava la banda; e la stanza era
in una strana penombra
(noi) dobbiamo morire”
Edoardo Sanguineti
(da: Purgatorio dell’inverno, (1964)
POESIA SIRIANA
ADONIS
(1930)

Oriente e Occidente

Una cosa si era distesa nel cunicolo della storia
una cosa adorna, esplosiva
che trasporta il proprio figlio di nafta avvelenato
al quale il mercante avvelenato intona una canzone
esisteva un Oriente simile a un bambino che implora,
chiede aiuto
e l'Occidente era il suo infallibile signore.

Questa mappa è mutata
l'universo è un fuoco
l'Oriente e l'Occidente sono una tomba
sola
raccolta dalle sue ceneri.

Adonis


mercoledì 23 giugno 2010

POESIA ITALIANA
FABRIZIO DE ANDRE'
(1940-1999)

La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna è il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue l'aquilone.

E c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui pose le sue mani sui tuoi fianchi.

Furono baci e furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle.

Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose.

Fabrizio De André
La canzone di Marinella, 1964

«Una storia senza tempo, che parlava di persone senza storia. Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato trovato massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia, letta alla luce della cronaca.Vista in controluce, invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero »
(
Don Luigi Ciotti)

POESIA ITALIANA
GIOVANNI RAMELLA BAGNERI
(1929-2008)





DOPPIO CANTO D’AMORE

(A)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
uscirò sotto la pioggia a cercarti una corona
di ortiche e penne di corvo e un manto di carta di giornali
e, preso l’anello regalo trovato nel detersivo,
ti condurrò a un altare ornato di corna di becco.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
con una borsa di tue fotografie proibite
andrò a propagandarti per i quattro punti del mondo
finchè tutte le camere le cucine delle casalinghe
non siano piene di strilli e di pantofole scagliate.

(B)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
mi alzerò dalla panca all’angolo del camino,
mi toglierò il grembiule cenerentolo,
mi laverò la faccia e mi riavvierò i capelli
e farò passi di danza fino a te.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
tornerò al mio cantuccio e spingerò via il camino,
mi leverò il vestito da ballo e le scarpette di cristallo,
m’infilerò i blue-jeans e accenderò il televisore
e aspetterò che venga qualcuno più bello di te.

(A)
Se ti amerò, da mattina a sera sarò in giro
a cercare fuscelli per il nido,
ti coverò le uova perché tu prenda respiro,
insegnerò ai pulcini a far pio pio
e sarò tutto fiero e soddisfatto di me.

Se invece non ti amerò, butterò all’aria il tuo nido,
non ci saranno più uova e tanto meno pulcini,
ti beccherò e ti caccerò via,
poi sul ramo più alto starò io
a fare in modo che non torni più.

(B)
Se ti amerò, ti darò da mangiare
sempre la stessa minestra, ma con una tal grazia
che non sentirai più bisogno d’altro,
e se alla fine sarai grasso e sazio,
sarò tranquilla e sicura di te.

Se invece non ti amerò, quella minestra
diventerà un’acquaccia mal salata,
buttata lì senza un minimo di grazia,
sbrigarsi perché poi c’è da fare altro,
e se non sei contento prenditela con te.

(A)

Da gennaio a dicembre ti amerò per il sì
e ritornando indietro ti amerò per il no.
Ti amerò con la pioggia e con la neve ,
col caldo e il freddo e il bello e il brutto tempo.
Amerò in te ciò che passa il convento,
quello che prendi perché non c’è altro,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.


Amerò in te gatta e capra e gallina,
quella che morde e quella che ti becca,
quella che graffia e quella che t’incorna.
Amerò in te la notte e il giorno,
ma così rassegnati tutti e due
che non mi accorgerò nemmeno della morte
quando verrò a riprendersi la museruola e la catena.


(B)
Dal lunedì alla domenica ti amerò per il diritto
e ritornando indietro ti amerò per il rovescio.
In ogni settimana mese stagione anno ti amerò.
Amerò in te ogni mia sconfitta, ogni vergogna,
il brutto della vita, il disgustoso,
ciò che si vorrebbe dimenticare,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.

Amerò in te il caprone, l’asino, il topo e il pidocchio,
il viscido, lo sporco, ciò che ti salta addosso
e mai riesci a scrollare da te.
La paura, il sonno della ragione.
Ciò che ti rode, ti strania e ti svuota.
Alla fine sarò così contenta di morire
che quasi non sentirò cadere a terra la catena.

Giovanni Ramella Bagneri
da: Il teatrino del mondo - Forum Q/G Forlì, 1984



Nella casa

Questa è la nostra casa,
la bella ,solida casa
dove potrai vivere tranquilla.
La bella casa sicura
con le finestre aperte sulla strada
per guardar fuori la gente che passa
per guardare il traffico fluire
guardarti la civiltà
far passare il tempo in qualche modo,
o accendere il televisore.
Seguire il tuo programma preferito,
con le spalle protette,
al calduccio d’inverno.

Qui c’è il televisore
e anche il frigorifero,
c’è la cucina elettrica
e la lucidatrice e il frullatore
e il giradischi con gli ultimi successi.
Ti ho comprato tutto, proprio tutto.
Potrai vivere bene,
almeno fin che dura.

Fin che dura? Come fin che dura?

E’ così. Ti sbatteranno fuori
e non protesterai nemmeno.

- Tu dici fuori di qui?
Chi mi sbatterà fuori?

Tutto quello che c’è dentro.
Tu credi che una casa
sia fatta solo per te.
Una casa è una casa
e tu sei solo una donna.
Se non obbedirai,
ti sbatterà sulla strada


Non mi sbatterà sulla strada.

Dovrai lasciarla sfogare
E poi chiedere scusa.
Una casa è una casa
e noi siamo di troppo.
Da queste parti è difficile vivere.
Occorre rassegnarsi, amore,
perché ne abbiamo bisogno.
Forse, una volta o l’altra
ci brucerà il paglione
e allora sarà finita.

Perché? Finita?
Perché non siamo niente.
Poi verrà qualcun altro e sarà uguale.
Non siamo proprio niente.
Gente che va e che viene
e che non può mettere radici.
Una casa sente queste cose
e allora ti brucia il paglione.

Non voglio andarmene di qui.
Ho lottato tutta la vita
e non mi lascerò cacciare.
Dovremo fare qualcosa.

La lasceremo sfogare,
poi torneremo con la faccia allegra.
come se non fosse stato nulla.

Non possiamo vivere così.
Questo non durerà a lungo.
Occorre essere forti,
dire quello che pensiamo
Tu credi che una donna
non sappia ciò che vuole.
Volevo un anello e ce l’ho.
Volevo una casa e ho anche questa.
Saprò farmi obbedire in un minuto.
Lascia alla donna il suo posto
è fatta per queste cose.

- Ti brucerà il paglione.

Non me lo brucerà.

La prenderai di punta
e ti farà filare.
Una casa è una casa:
chi non si adatta va fuori.
Poi fai la barba e rientri,
ma trovi tutto cambiato
e nemmeno più di tuo gusto.
D’altronde non sarai la prima.
Qui succede sovente.

- Che succede? Che succede?

- Quando ti sbattono fuori,
puoi rientrare dalla parte sbagliata.
- Io non mi sbaglierò.

- Ci farai l’abitudine.
Tu credi di essere davanti
e invece ti ritrovi dietro.
Aspetti di vedere il traffico
e invece non passa nessuno.
C’è solo un vallone di cespugli.

- Un vallone di cespugli?

- O forse è la parte giusta.
Quando rientri, non c’è niente.
Allora accendi il fuoco
e metti i panni ad asciugare
Tireremo avanti in qualche modo.
Coltiveremo la terra,
alleveremo bambini,
almeno fin che dura.
Quando sbaglierai entrata
non ci farai più caso.
Ogni tanto di qua,
ogni tanto di là:
in fondo non c’è differenza.


- Non coltiverò la terra
e nemmeno laverò i panni.

- Coltiveremo la terra
alleveremo bambini.
Quando siamo di qui
è già molto se si mangia.
Ci guadagneremo il pane
col sudore della fronte.
Andremo a dormire presto.
Ascolterai la notte
dilavata. Andrai fuori
se lo vorrai. Non sei la prima che
vi resista.
- Resistere?
- Resistere. Questo è
il luogo della paura deforme
che strepita e impedisce di pensare.
Qui si vive in attesa,
qui si stenta e si spera
di andare via, qui sale il freddo e c’è
chi urla a lungo e ha sempre fame e sete
e di notte si leva dal suo angolo
e ringhia e raspa sulla porta se
nessuno scende: questa è la mia parte
d’eredità e la tengo preziosa.

- Chi è? Chi è?

- Qualcuno , e tutto. Sono due, e tutto.
La Morte e il Diavolo.
Vivono qui da tempo. Sono amici.

- Io non li voglio per amici. Dove sono?

- Nella stalla.

- Nella stalla?

- Ruminano in pace
e mi dànno da vivere e ne ho cura.

- Io non ne avrò cura. Tu, ci penserai.
Anzi, no. Dovrai mandarli via.
Voglio dormire tranquilla.

- Tu non dormirai.
Io non dormirò.

- Perché? Perché?

- E’ così: non dormirai.
Io nemmeno.
Noi non dormiremo né qui né fuori,
potremo al più ripararci dal freddo,
perché quando la Morte ha fame
e il Diavolo ha sete,
perché quando hanno fame e sete
e la Morte urla
e il Diavolo risponde,
e il Diavolo urla
e la Morte risponde,
fanno un frastuono per la casa
e raspano sui muri e sulla porta
e cercano la botola per salire
nella stanzaccia dove stiamo col
lume acceso e rabbrividiamo stretti,
e gridare non val nulla perché
quando vogliono balzan fuori e corrono
per la terra e nessuno può fermarli:
poi tornano quieti
e se siamo fuggiti
ci vengono a cercare.

Giovanni Ramella Bagneri
da: Il teatrino del mondo, Forum Q/G - Forlì 1984
POESIA BRASILIANA
MARTHA MEDEIROS
(1961)



Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.

Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

Martha Mereidos
Nota: Poesia erroneamente attribuita a Pablo Neruda

sabato 19 giugno 2010

POESIA PORTOGHESE
JOSE’ SARAMAGO

(1922-2010)


DEV’ESSERCI…

Dev’esserci un colore da scoprire,
un recondito accordo di parole,
dev’esserci una chiave per aprire
nel muro smisurato questa porta.

Dev’esserci un’ isola più a sud,
una corda più tesa e più vibrante,
un altro mar che nuota in un altro blu,
un'altra intonazione più cantante.

Poesia tardiva che non riesci
a dire la metà di quel che sai:
non taci, quanto puoi, e non sconfessi
questo corpo casuale e inadeguato.
José Saramago

(da: Le Poesie possibili”, traduzione di F. Toriello
Su Gemina Europa “Il Caso Management”n. 5 luglio-agosto 2004
www.caosmanagement.it)

martedì 15 giugno 2010

POESIA AMERICANA
HART CRANE
(1899-1932)


Le mele della domenica mattina

A William Sommer

Le foglie ancora cadranno qualche volta
e copriranno il vello
della natura con tutti quei propositi
che sono la tua ricca e fiduciosa
forza di tratto. Ma ora

molte provocazioni alla primavera vi sono
in quel nudo maturo con la testa
alta
in un regno di spade,
con la sua ombra di porpora che esplode
sull'inverno del mondo
dal bianco che grida alla neve la sua sfida.

Davanti al sole un ragazzo corre con il cane,
a cavalcioni della spontaneità che forma
le loro orbite indipendenti, la loro eternità di luce
nella valle dove vivi
(che ha nome Brandywine).

Laggiù ho visto le mele che agitano tutti i tuoi segreti,
—amate mele della pazzia stagionale, che nutrono
le tue domande con aereo vino.
Pónile ancora accanto ad una brocca, con un coltello,
in perfetto equilibrio e pronte all'esplosione
—le mele, Bill, le mele!


Nell'ombra

Fuori nel tardo pomeriggio di colore ambrato,
confuso in mezzo ai crisantemi, il suo
parasole, areostato pallido, oscilla
nell'ombra come una luna in attesa.

La sua trina furtiva e i suoi capelli
vaporosi distillano la luce
sopra la meridiana del giardino, — e poi
ritraendosi indossano l'ombre secondo il suo volere.

Lieve ma all'improvviso lo splendore
delle stelle le avvolge il parasole. E lei
ode il mio passo oltre il crepuscolo verde
più immobile dell'ombre mentre cade.

« Vieni, è già tardi, — è troppo tardi per
rischiare solo il declino della luce:
né la sera può attendere per molto », — ma le sue
parole sono della notte e mie.

Hart Crane
da Il ponte e altre poesie, a cura di Roberto Sanesi, Guanda, Collana La Fenice, 1967









lunedì 7 giugno 2010

POESIA VENEZUELANA
EUGENIO MONTEJO
(1938-2008)


PARTENZA

Parto con ogni nave di questo porto,
con ogni goccia azzurra di ossigeno
tra rauchi fischi.

Vado a Rotterdam, dove ora cade spessa
la neve,
e i gabbiani olandesi
frugando tra le merci
si posano sugli alberi delle navi.

Una cabina mi attende in ogni nave,
un libro di Li Po per la mia traversata;
– cercatemi a Rotterdam, scrivetemi
anche se non partissi.

Se non parto a quest’ora lo farò in un’altra;
le navi cambieranno, non il mio desiderio;
il mio desiderio è a Rotterdam:
da qui lo intravedo assieme alla neve
tra le sue case.

Non c’è una sola via sul mare
che non abbia il suo contrario,
non ci sono modi di stare e di non stare
dove si viaggia.
Se scegliessi un’altra via piú semplice,
piú umana,
partirei senza assentarmi,
toccandola la neve mi parrebbe calda.

In ogni nave di questo porto
ho noleggiato il mio bagaglio;
se anche mi vedessero domani qui nei moli,
sono a bordo;
le navi cambieranno, non il mio desiderio;
– cercatemi a Rotterdam, scrivetemi,
il mio desiderio ha il volo del gabbiano
e neve tra le sue ali.

Eugenio Montejo

Traduzione di Luca Rosi
Poesia n. 234 Gennaio 2009
Perché il canto perduri a cura di Arturo Gutiérrez Plaza,
M. Gasparini Lagrange e Claudio Cinti
Crocetti Editore 2009

domenica 6 giugno 2010

POESIA ITALIANA
EMILIO VILLA
(1914-2003)


ORMAI

Un giorno la giovinezza, con circospezione
Abbandona arbitrariamente i capolinea. Ecco.
E io ricordo le finestre che si accendono al pianterreno
Sul vialone, e somigliano così profondamente ai radi
Ragionamenti che faremo sul punto di morire,
in articulo, con l’ombra degli amici, a fior di mente.

Invero
non so più se viva tra le secche
ancora il suo tepido serpire, adesso,
in provincie gelate, come una romanza
fine e perenne sul filo della schiena, ma davvero
so che nelle lacrime lombarde, ove credemmo
di mieterci a vicenda, vagabondi baleni
dissipavano i veli nuziali alle riviere.

Ed era un nome d’alta Italia, a ripensare bene,
era un nome questa raffica, che non osi
più inseguire? E la felicità dell’Occidente
si salva in Occidente?

Disabitate ormai le alzaie, e disperando
ormai del nostro sentimento )e la nebbia
ormai mietuta che ci stringe a mezza vita),
disabitate le alzaie e disperando ormai
se la patria fosse una cittadinanza unica e reale,
andrebbe ricordata in un risucchio, a capofitto
per le celesti aiuole, la parte più dimessa
del nostro pensare lontanamente andrebbe
ricordato uno spesso passaggio di brumisti
e di taxi, quel che tossisce sul margine caduco
del Naviglio, o libero tra le pioppe luccicanti
che i diti del vento tamburellano lassù, il brivido
dell’ultimo brum, in una corsa matta, che ci porta
via tutti i fanali e il nostro cuore salutando.
Emilio Villa

(da: Omaggio a Emilio Villa , a cura di Giacinto Spagnoletti, Fondazione Piazzolla1998, su Poesia n. 170, anno XVI, Marzo 2003)

MARIO RAMOUS
(1924-1999)
3/72521
Voglio qui per un certo verso
rivelare le carte segrete che accompagnano
il tuo modo imprevedibile di mostrarti,
contraddittorio più di quanto sembra accettabile,
incantevole per chi ne comprenda il senso,
un maledetto modo comune
per chi sia destinato a subirlo giorno e notte di seguito
e ridotto così alla consuetudine di vivere
per me, per me,Valeria amore;
in un bozzolo di nevi.
Mario Ramous
(da: Macchina naturale, Feltrinelli, 1975)