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venerdì 30 ottobre 2009

POESIA INGLESE
JAMES LASDUN
(1958)


LO SPETTRO

Jetlag, un brusco taglio all’alba,
stempera inebetito un rosa, spolverio
di petali o mattoni, fitta
di memoria, mugugno esausto dell’insonne
giugno, il peggio dell’assenza è ritornare,
ridiventare ancora quello che una volta

quasi fosti…le cose dimenticate
si dimenticano di sé, gli specchi delle tue brame
appisolati sognano sabbia. Sogna un gran ciarpame
il libro che chiudi. Li svegli una alla volta all’anno,
e ogni anno è più dura.

Ora delicata,
luna di mica, diafana,
tinta quaresimale (falsa) sulle finestre addormentate,
vai ai giardini comunali: chiusi,
ma ci si entra per una casa in demolizione,

e resti lì nel verde eroso del passato,
fra il laghetto e la panchina dove sedeva il cieco;
i castani che arano la luce – cupola di pietrisco
smeraldino – e una pioggia canterina d’uccelli che farfuglia
una lingua che non parli o non capisci più.

James Lasdun
(Traduzione di V. Andreoni, su Poesia del Novecento in Italia e in Europa, a cura di Edoardo Esposito, II volume, Feltrinelli, 2000)

mercoledì 28 ottobre 2009

PHILIP LARKIN
(1922-1985)



VENTO NUZIALE

Il vento soffiò per tutto il giorno delle mie nozze,
e la mia notte di nozze fu la notte del gran vento;
e una porta della stalla sbatteva e ribatteva
tanto che lui dovette andare a chiuderla, lasciandomi
intontita a lume di candela, a sentire la pioggia,
a vedermi la faccia nel candeliere ritorto,
senza però vedere un bel nulla. Quando rientrò,
disse che i cavalli erano inquieti, e io fui triste
che quella notte ci fosse uomo o bestia senza
la felicità che io avevo

Ora che è giorno,
tutto sotto il sole si scompiglia alle raffiche del vento.
Lui è andato a vedere la piena, e io
porto un secchio sbreccato nel pollaio,
lo poso a terra, e guardo intorno. Tutto è vento,
vento che batte per nuvole e boschi, che sferza
il mio grembiule e i panni stesi sulla corda.
Si può reggere a questa gioia raffigurata dal vento,
su cui i miei gesti ruotano come grani su un filo
di collana? Potrò dormire ora
con questo mattino perpetuo che condivide il mio letto?
Potrà mai la stessa morte disseccare
questi laghi nuovi e felici, o porre termine
al nostro chinarci come armenti su prodighe acque?

Philip Larkin

(Traduzione di V. Gentili, da: Poesia del Novecento in Italia e in Europa, a cura di Edoardo Esposito,
II Volume Feltrinelli, 2000)

martedì 27 ottobre 2009

WILLIAM SHAKESPEARE
(1564-1616)


Di William Shakespeare si riporta il più celebre dei monologhi: quello di “Essere, o non essere”, che ha visto nel corso degli anni varie traduzioni. Qui lo si propone nella versione della prima edizione in quarto del 1603, per la prima volta tradotta in italiano da Alessandro Serpieri, assieme alla versione definitiva, tratta dal volume in quarto del 1605.
“Da un secolo e mezzo la critica si domanda se le due versioni del dramma siano entrambe di Shakespeare. Il testo più breve, solo ora tradotto in italiano è probabilmente la prima stesura, scritta di getto del grande capolavoro della maturità:

I
Essere, o non essere, sì questo è il punto:
morire, dormire, ed è tutto? Si, tutto.
No, dormire, sognare, sì, certo, qui è il nodo
poiché in quel sogno di morte, quando ci svegliamo
e siamo condotti davanti a un Giudice eterno,
da cui nessun passeggero è mai ritornato,
il paese inesplorato, alla cui vista
i giusti sorridono e i maledetti sono dannati….
Se non fosse per questo, la gioiosa speranza di questo,
chi sopporterebbe gli scorni e le lusinghe del mondo —
chi disprezzato dai ricchi, chi ricco maledetto dai poveri,
la vedova oppressa, l’orfano maltrattato —
e il sapore della fame, o il regno di un tiranno,
e mille altre calamità in aggiunta,
per imprecare e sudare sotto questa faticosa vita,
quando ci si potrebbe dare piena quietanza
con un semplice stilo? Chi sopporterebbe questo,
se non per una speranza di qualcosa dopo la morte,
che sconcerta il cervello, e confonde la mente,
che ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che volare ad altri che non conosciamo?


II
Essere o non essere , questa è la domanda:
se sia più nobile per la mente sopportare
i sassi e le frecce della oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, finirli. Morire, dormire….
nient’altro, e con un sonno dire fine
alla stretta del cuore e ai mille tumulti naturali
che eredita la carne: è una consumazione
da desiderare devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Ah qui è l’intoppo.
Perché in quel sonno di morte, quali sogni
possano venire , dopo che ci siamo cavati
di dosso questo groviglio mortale,
deve farci esitare. Ecco il motivo
che dà alla sventura così lunga vita.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli insulti
del tempo, il torto degli oppressori,
l’offesa degli arroganti, gli spasimi
dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e gli insulti
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando da solo potrebbe darsi quietanza
con un semplice stilo? Chi vorrebbe portare pesi,
imprecare e sudare sotto una faticosa vita,
se non fosse che il terrore di qualcosa
dopo la morte, il paese inesplorato
dal cui confine nessun viaggiatore ritorna,
sconcerta la volontà e ci fa sopportare
i mali che abbiamo piuttosto che volare
ad altri che non conosciamo?

DALLA SPERANZA AL TERRORE

“L’Amleto curato da Alessandro Serpieri per i Classici Marsilio è un avvenimento culturale perché consente per la prima volta al lettore italiano di affrontare direttamente i problemi testuali del dramma più famoso della letteratura mondiale. C’è un solo Amleto o ce ne sono due? Shakespeare scrisse l’Amleto all’inizio della sua carriera e lo rielaborò più di dieci anni dopo, all’apice della maturità? Non è solo un problema da filologi, perché nel principe Amleto, incunabolo dell’uomo moderno, troviamo qualcosa di ognuno di noi .
Maestro della filologia shakespeariana — dalla grande impresa del “Laboratorio di Shakespeare “ (Pratiche) all’edizione esemplare dei “Sonetti” (Classici Rizzoli) e recentemente al “Macbeth” per i classici Giunti --- Serpieri racconta… il suo punto di vista sul “giallo” di Amleto. Unico per lunghezza (dura come due Macbeth), profondità filosofica e popolarità, Amleto lo è anche perché esiste in tre versioni, l’In folio postumo del 1623 e due volumetti autonomi formato in quarto: Q2 (questa è la sigla scientifica in uso) pubblicato nel 1605, che fornisce il testo più completo e autorevole, e Q1, di due anni precedente ma scoperto solo nel 1823, molto più breve e scorretto ma anche profondamente diverso nel testo e nella struttura drammatica. Dal 1823 gli studiosi si dividono in due campi fieramente avversi: Q1 è una versione d’autore, sia pure giovanile e vicina al suo modello (sappiamo con certezza che esisteva un Amleto precedente a Shakespeare, anche se il testo è perduto), o un testo pirata ricostruito a memoria da un attore della compagnia e ceduto a un editore senza scrupoli? E’ una prima stesura o un testo posteriore tagliato e corrotto? Se la prima ipotesi fosse vera, Amleto sarebbe l’unico dramma che permetta di seguire in concreto, attraverso due testi diversi e lontani nel tempo, la maturazione di Shakespeare . Le due tesi restano in equilibrio per tutto l’Ottocento. Poi prevale la tesi dell’edizione “pirata” , che nel secondo dopoguerra finisce per diventare senso comune. Ma recentemente i difensori dell'’autenticità del “primo Amleto” sono venuti alla riscossa. Tra questi si schiera autorevolmente Serpieri, che traduce, annota e pubblica in due volumi separati entrambi i testi , aggiungendovi una rassegna e una discussione critica di tutti gli argomenti pro e contro. Ma la tesi della versione d’autore ha ragioni molto forti. Come potrebbero essere “errori di memoria” i nomi diversi dei personaggi (Polonio si chiamava Corambis), il diverso ruolo drammatico della regina, che in Q1 si schiera nettamente dalla parte del figlio, la diversa età di Amleto che ha vent’anni in Q1 e trenta in Q2 (nel frattempo, infatti, era cambiata l’età dell’attore che lo interpretava il grande Richard Burbage), lo spostamento di scene essenziali, come il monologo: in Q1 la tentazione del suicidio è contrastata dalla speranza, in Q2 dal terrore di ciò che verrà dopo la morte. E’ un errore di memoria, o non è piuttosto la visione dell’autore a essere cambiata, dalle speranze giovanili al pessimismo della maturità?”(8) (Nota introduttiva di Andrea Casalegno a: “Il dilemma dei due Amleti” di Alessandro Serpieri su: “Il Sole 24 Ore” del 18.05.1997.)

IL DILEMMA DEI DUE AMLETI

“Di Shakespeare non ci restano manoscritti. A parte qualche firma su documenti vari, l’unica traccia della sua mano sembra essere stata individuata in una scena di circa centocinquanta righi aggiunta a un dramma non suo, “The Book of Sir Thomas More”, databile al 1592-94, opera di Anthony Munday, con la collaborazione di Henry Chettle, Thomas Dekker, Thomas Heywood e appunto Shakespeare, che non aggiunse mai le scene perché fu bloccata dalla censura (se ne veda l’edizione curata da Giorgio Melchiori e Vittorio Gabrieli, Manchester 1990): Il reperto, pur di indubbio interesse, non getta tuttavia gran luce sui modi in cui il nostro autore lavorava nello stendere i suoi drammi.
E per secoli ha aleggiato nella critica un mito alquanto inverosimile, quello per cui la mano di Shakespeare fosse dotata di una facilità quasi divina. Nel loro appello ai lettori, premesso alla prima edizione quasi completa delle sue opere, il primo In folio del 1623, i curatori, e già attori della sua compagnia, John Heminges e Henry Condell, testimoniavano che “ la sua mente e la sua mano andavano di pari passo”; e il suo collega drammaturgo, Ben Jonson, annotava nei suoi taccuini di aver saputo dagli attori di Shakespeare che “nei suoi scritti, qualsiasi cosa buttasse giù, non ne cancellava mai neanche un rigo”, e aggiungeva sarcastico: “ La mia risposta è stata, ne avesse cancellati un migliaio”. In assenza di manoscritti queste dichiarazioni hanno fatto per lungo tempo pensare che Shakespeare scrivesse di getto e non modificasse più sostanzialmente le proprie opere. Rimaneva tuttavia un inciampo di fronte a tale credenza quasi mistica in una scrittura immediata e definitiva. Di quasi una ventina dei suoi drammi erano state infatti pubblicate edizioni singole, in formato in quarto, già a partire dagli anni 90 del Cinquecento: e in quasi tutti i casi il confronto tra le versioni In folio del 1623 e quelle precedenti mostrava differenze non solo sul piano delle molte varianti morfologiche, lessicali e sintattiche ma anche su quello della stessa struttura drammaturgica.
Come spiegare tali discrepanze? Fino a pochi decenni fa i filologi e, con loro, i critici continuavano a credere, nonostante tutto, che Shakespeare avesse scritto una versione definitiva di ogni suo dramma, le cui variazioni nelle prime edizioni a stampa sarebbero state dovute a errori di composizione o a manipolazioni non autoriali, talchè il compito della filologia doveva essere quello di ricostruire quella versione originaria. La recentissima “New Philology” ritiene, invece, che quei drammi non furono mai stabiliti dall’autore una volta per tutte, ma furono da lui rivisti più volte: erano testi teatrali, mobili per eccellenza, e sottoposti a continue possibili modifiche, nonché a possibili corruzioni e interpolazioni nel corso delle varie messe in scena .La purezza dell’originale, secondo questa nuova prospettiva, va dimenticata una volta per tutte.
Il caso di Amleto è poi del tutto particolare, in quanto è l’unico dramma di cui ci restano ben tre versioni d’epoca. Fino al 1823 se ne conoscevano solo due, quella pubblicata in edizione in quanto nel 1604-5 ( e ristampata con poche varianti, nello stesso formato, nel 1611 e nel 1622 e quella — in parte diversa, a causa di tagli e aggiunte, oltre che di molte varianti morfologiche e lessicali — apparsa nell’In folio del 1623. E i grandi filologi settecenteschi avevano già avuto il loro daffare nello stabilire il testo presuntivamente più vicino all’originale dell’autore oppure alle sue “intenzioni finali” . Ma in quell’anno dell’Ottocento fu fatta una scoperta che mise a rumore il mondo di tutti gli studiosi e gli appassionati di Shakesspeare.
Un certo Sir Henry Bunbury rinvenne in uno stanzino della sua casa di Barton un vecchio volumetto mancante dell’ultima pagina: si trattava di un Amleto pubblicato nel 1603, e dunque prima della prima edizione fino allora conosciuta del dramma. Il frontespizio attribuiva l’opera a Shakespeare e ne indicava una già lunga vita teatrale in rappresentazioni fatte sia a Londra che a Cambridge , Oxford e altrove. Ce n’era abbastanza per incuriosire chiunque , soprattutto perché il testo differiva vistosamente da due fino allora conosciuti. Si sviluppò subito un acceso dibattito sulla sua natura. Si trattava di una prima stesura d’autore: (caso unico in tutto il canone shakespeariano ) o, anche, di una riscrittura giovanile di quel dramma su Amleto, il cosiddetto Ur-Hamlet, da molti attribuito a Thomas Kyd, l’autore della tragedia spagnola) che indubbie testimonianze d’epoca fanno risalire almeno al 1589, ben una dozzina d’anni prima della probabile stesura dell’Amleto classico ? O era da considerarsi un testo piratesco, stenografato durante le rappresentazioni del dramma, o malamente ricostruito a memoria da un attore minore della compagnia, che l’avrebbe venduto sottobanco all’editore? L’unica cosa certa era che quel “primo” Amleto (che tale è, almeno per precedenza cronologica) presentava un’opera molto più breve delle successive due, più rozza, più elementare e, se si vuole, barbarica, mal composta e forse in alcuni passi corrotta, ma dotata di una sua coerenza drammaturgica ed indubbia forza teatrale.
In più punti mostra un diverso montaggio delle azioni. Per fare solo un esempio, la scena -dell’Essere, o non essere- (atto III, scena prima dell’Amleto classico) , cui segue l’incontro tra Amleto e Ofelia, provocato ad arte e spiato da Polonio e dal re per appurare se la follia di Amleto sia davvero follia d’amore, in questo “primo” Amleto ha luogo, coerentemente, subito dopo la “scoperta” di Polonio (che qui, tra l’altro, si chiama Corambis; e altri nomi sono diversi o modificati), mentre nei testi classici viene dopo la lunghissima e seconda scena del II atto .
Alle variazioni delle sequenze drammaturgiche si aggiungono le diverse caratterizzazioni dei personaggi. Il “giovane” Amleto, come in più punti viene definito, è un ventenne mentre negli altri due testi la sua età risulta stranamente spostata ai tremt’anni , e i suoi monologhi, se già ne segnalando lo spaesamento e la vana ricerca di un ruolo e di un senso, appaiono diversamente argomentati (come nell’-Essere, o non essere-) e abbondano di anacoluti e di improvvisi scarti del pensiero.
Quanto al re, appare più unilaterale, più rozzo, e, se possibile, più cattivo. La regina è, invece, meno ambigua, e quindi più innocente, cosicchè nella scena culminante con Amleto può dirsi all’oscuro dell’assassinio del marito e schierarsi decisamente dalla parte del figlio affinchè ne vendichi la morte.
Più coerente per certi aspetti, ma anche più approssimativo, e certo molto inferiore ai due testi classici, questo fantasma testuale ricomparso dopo più di due secoli sembra reclamare a tutt’oggi che si faccia i conti con la sua paternità.
Dal momento della sua scoperta fino a oggi innumerevoli studiosi hanno cercato di risolvere il “giallo” filologico-critico; ma sembra ben difficile che si possa mai chiudere il caso. Troppo incerti, e spesso contraddittori sono gli elementi di cui si deve tenere conto: dati documentali disparati, attestazioni più o meno credibili, riscontri bibliografici dubbi, indizi macro testuali, micro testuali e interstuali interpretabili ad libitum.
L’opera è composita, in più punti quasi un palinsesto va studiata in sé e per sé ma inevitabilmente reclama anche un confronto serrato con i due testi più autorevoli. La critica testuale si trova di fronte a un enorme puzzle, in cui sembra impossibile far combaciare tutti i pezzi in modo che ne emerga la figura dimostrativa inconfutabile. Pertanto, tutti quelli che vi si sono confrontati non hanno potuto fare altro che gli avvocati di parte, ognuno con la sua linea argomentativa di difesa o di accusa; e non si è ancora presentato alcun giudice in grado di emettere un verdetto definitivo.
Proseguendo nella metafora giudiziaria, questo testo è da molti ritenuto “colpevole” in quanto rabberciature dell’opera completa perpetrata da un reporter senza scrupoli, mentre da altri viene considerato “innocente” in quanto prima abbozzo del capolavoro. Anch’io sono stato attirato dentro a questo mistero testuale. All’inizio, la mia posizione è stata quella di semplice spettatore della grande querelle. Ma, man mano che approfondivo l’indagine, mi sono sentito quasi costretto a prendere partito, e, pur non pretendendo di avere scoperto a mia volta dati inconfutabili, ho optato per l’ipotesi della prima stesura autoriale (non importa se condotta su un dramma precedente).
A quel punto, ho ritenuto che il modo migliore di verificare la sensatezza intrinseca di questo testo fosse proprio quello di tradurlo, e conseguentemente di annotarlo, per cercare di carpirne in un’altra lingua i segreti. Tradurre un testo drammatico vuol dire affrontarne non soltanto la semantica discorsiva, ma anche il senso scenico implicito, e cioè la correlazione tra la parola e la mimica, la gestualità, l’azione. Ed è stato proprio alla luce della sua teatralità che questo testo mi è sembrato mostrare, anche nei passi più confusi e corrotti, una sua sostanziale coerenza, una sua autonomia e una sua arcaica bellezza.
Con ciò non intendo dire che tutto fili liscio, né che non si profili qua e là una manipolazione esterna. Ma sta proprio nelle zone d’ombra che ripropone, oltre qualsiasi argomentazionie filologica-critica, il fascino persistente di questo testo. E’ una versione comunque efficace (come hanno dimostrato alcune sue recenti rappresentazioni in Inghilterra, Stati Uniti e Svezia) di una delle più celebri opere drammatiche, una versione che forse costituisce l’unico reperto che possa rivelarci, visto che ci mancano i suoi manoscritti, come lavorava la mente di Shakespeare nella fase embrionale di un capolavoro." (da: “Il dilemma di due Amleti,” — di Alessandro Serpieri su:“Il Sole 24 ore”- del 18/ 05/ 1997 )

mercoledì 21 ottobre 2009

W. B. YEATS
(1865-1939)


VOLTA LE BAMBOLE CON LA FACCIA AL MURO

Poiché oggi è una festa religiosa
C’è stato un prete a dir Messa, e perfino la Giapponese
Col tacco alzato e il peso sulle punte, ha dovuto voltarsi
verso il muro
-Pedante nella passione, dotta in antiche cortesie,
-Veemente e arguta ci era parsa-; la dama Veneziana
Che sembrava andar scivolando verso un qualche
Convegno con le scarpette rosse,
Il domino, la gonna a guardinfante copiata dal Longhi;
Il critico meditabondo; tutti sono in punta di piedi,
Anche la nostra Bella coi pantaloni turchi.
Poiché al prete come ad ogni cane spetta la sua giornata
Altrimenti ci terrà tutti desti abbaiando alla luna,
A noi e alle nostre bambole, che non siamo che il mondo,
conviene star via.

W.B. Yeats
(Da: Quaranta poesie, Traduzione di Giorgio Melchiori, Einaudi, 1965)

venerdì 16 ottobre 2009

POESIA AMERICANA
TED BERRIGAN

(1934)


69

Così, in conclusione, potrei dire
che è così che va la vita qui
bevi un po’ di caffè, dormi un poco
è tutto campato in aria
specialmente noi
che siamo io.

70

Ora
in mezzo a tutto questo
qualcuno che amo è morto
e io non so nemmeno “come”
pensavo che lei mi appartenesse.
Come riempiva la mia vita quando mi sentivo vuoto.
Come mi riempie adesso.

72

Che eccitazione
Traversare Saint Mark’s Place
viso freddo nell’aria
stanotte
quando
quel qualcuno vago che salutava
in bicicletta mi ha fatto voltare
e tornare indietro.

73

Ciò che più mi tocca, direi
di un mattino sereno
è essere solo
con tutti quelli che amo
e attraversare la 6^ e la 1^
nel gelo delle 6
da dove torno a casa
con due bignè alla crema,
pepsi e il New York Times.

74

La gioia è ciò che mi piace.
Questo è l’amore.

Ted Berrigan
(Da:Giovani poeti americani, a cura di Gianni Menarini, Einaudi Editore, 1973)

BILL KNOTT
(SAINT GERAUD)
(1940)

Da fine agosto a inizio novembre
per Helene Knox, poetessa


Se la mia tomba si fa troppo penosa, che dovrei fare?
Perché i vestiti mi s’incollano agli organi interni?
Che significa quando mi addormento e, invece, di sogni,
tutto quel vedo sono le parole “Dati Insufficienti?”

E’ tempo di affidarsi al manuale di- sopravvivenza
della poesia,
di leggersi le istruzioni sui tronchi d’albero, la scienza
delle erbe.
Che provviste portare -10 200 sudari-.
Se sfrego insieme due ricordi, accenderò forse
una strofa?-
quali radici e bacche della fantasia sono buone
e quali sono la mia vita?

Dati insufficienti. Ogni foglia appassita
di mille fiorellini
entra nel computer del suolo.
Risponde aprile:
la bellezza è la coscienza dei nostri sensi;
il poeta è la tomba di tutto ciò che non si può seppellire.

Io cancello continuamente il mio certificato di nascita,
le api mi bombardano con gocce di amnesia fusa –
“Tu sei
la chiaro -veggente” dico a una ragazza-


Bill Knott (Saint Geraud)
(Da: Giovani poeti americani, a cura di Gianni Menarini, Einaudi Editore, 1973)
EDNA St. VINCENT MILLAY
(1892- 1950)


CANTO D’AUTUNNO

Ora l’autunno ha brividi
nel gambo della rosa.
Alte e lontane scale
s’appoggiano tra i flutti.

L’autunno ora s’arrampica
sull’intrecciata trama
e la rosa ricorda la polvere
da cui fu generata.

Più lucente del fiore
sul cespuglio di rosa
è la bacca arancione,
ora avvizzita, amara,

in ozio la bellezza non sa stare,
tutto accade in suo nome,
ma la rosa ricorda la polvere
da cui fu generata.
Edna St. Vincent Millay
(Da: L’amore non è cieco, a cura di Silvio Raffo, Crocetti Editore , 1991.2001)

giovedì 15 ottobre 2009

POESIA CUBANA
EXCILIA SALDANA
(1946)



AUTOBIOGRAFIA

Tanto per cominciare deve sapere tutto
non vale più la pena di mantenere il segreto.
Nacqui un 7 di agosto del 1946
un anno e un giorno dopo il fatto di Hiroshima
(ricorda? una bravata dei nostri vicini).
Nacqui perché non c’era l’aborto
e perché fui testarda anche in questo
mio padre un ragazzo stravagante
(così si diceva allora quando il figlio
di famiglia veniva fuori un magnaccia)
infine non fu colpa sua
come neppure il fatto che fumasse marijuana
giocasse e fornicasse
si immagini le circostanze
mia madre tremante
il buco.
Il fatto è – come le dicevo –
che mio padre era un poco stravagante...
e che io nacqui.
Quando mi videro tutti vollero dire la loro:
mia madre, medico
mia nonna, maestra,
il cane abbaiò
(non so se anche lui voleva che fossi cagna...)
Crebbi grassa e strabica
abominevolmente tonta
samaritana di vocazione
sorella della carità, angelo custode
di uccelli, scarafaggi e mendicanti
e un bel giorno quando tutto indicava
il mio futuro di negra mezza-tacca
trionfò la Rivoluzione, sì
so che lei conosce la Riforma Agraria e il Socialismo.
non è di questo che voglio parlare
ma della mia piccola vita anonima
a collezionare biglie e francobolli
ascoltando le discussioni dei grandi
voglio dirle che io non capivo nulla
ma mi eccitava la voce rauca di Fidel
voglio dire che mio padre mi diede uno schiaffone
(sa cosa significa questo
quando non si è mai ricevuto una carezza?)
il giorno che gridai Patria o Morte!
voglio dirle che gli uccelli azzurri sono in muta
che c’è un lutto ingiustificato in quest’alba di astio
che c’è tanta ira di dei
e tanto e tanto s’è perso
e tanto
e ancora di più.

Excilia Saldana
(Poesia tratta dalla collana Cuando una mujer no duerme – poesie di Cuba al femminile –, a cura di Valeria Manca, Datanews editrice, Roma, 2002 - Sagarana.net)

POESIA SCOZZESE
NORMAN MacCAIG
(1910-1996)



NON C'E' SCELTA

Penso a te
nei vari modi in cui la pioggia scende.
(sempre di più, con l’età,
odio le metafore – la loro rigidità
la loro inadeguatezza.)
A volte questi pensieri sono
pioggerellina, appena percettibile, niente
di più leggero:
a volte uno scroscio battente, una
solerte pulizia primaverile della mente:
a volte, un terribile temporale.
Sempre di più, con l’età,
odio le metafore,amo la leggerezza,
temo i temporali.

Norman MacCaig
(Traduzione di Andrea Sirotti)
(da: Sagarana.net)
POESIA ITALIANA
GIORGIO BARBERI SQUAROTTI
(1929)


LO SGABELLO DI DIO

ad Angelo Jacomuzzi

Sì, è vero, anche se accumuli a migliaia
fogli su fogli scritti ai margini
(e anche qualche disegno d’angelo, una rondine
in un angolo del cielo bianco), il tremore di una foglia
dove è caduta una riga, forse, un volto
vecchio si affaccia da una macchia bruna,
sembra voler parlare, poi gli occhi come se
per la prima volta avesse visto davvero il libro scritto
del mondo, troppo lungo e confuso, pieno
di storie senza senso e tutte di morti da chi sa
quanto tempo o uno traballa un poco, poi si lascia
cadere troppo lentamente a terra,
allargando le braccia, mentre ancora
in una mano convulsamente stringe
una bandiera vuota); ecco, neppure —
mettendo l’uno su l’altro tutti i sogni
sognati sul Parnaso e altrove si può giungere
anche soltanto a intravedere lo sgabello
dove i suoi piedi a volte posa Dio —
un passo lento, un’orma pesante sul broccato
rosso, la punta di una pantofola un po’ lisa
nel tremare dell’aria come dopo
il primo tuono della primavera
proprio niente di tutto questo, solo un muro
di carta o di cartone, e quale spazio
può rimanere oltre un angolo d’aria muta e morta,
un lembo di tenda grigia che un vento
inesistente a volte spinge fino
ai fogli, una mano di bambino che saluta
in un’alba d’inverno, il punto animato di una mosca
che cerca a lungo la parola fine
dove fermarsi.

Giorgio Bàrberi Squarotti
(da: "Gerico" - Guida Editore, 1983)
ANGELO FERRANTE
(1938-2010)


I

Tu, mio sentire il tempo, la sorte,
la vita, non abbandonarmi mai.
Sii aspro e dolce, aprimi le porte
dell'anima, e canta quel che sai.

Non tralasciare ciò che l'occhio umano
non scorge: i minimi frantumi, il lento
sfarinìo delle rocce, il lontano
mormorìo degli astri, l'aria, il vento.

E più rammenta il moto della polvere
quando, nuda, s'adagia sulle cose.
E' nell'invisibile dissolvere
il sè che la vita traccia le sue pòse.

Ma poi tutto si muove e si trasforma,
anche ciò che non sembra che si muova.
E anche l'eterno, che non lascia orma,
nell'ignoto si muta e si rinnova.

Angelo Ferrante
(da: "dentro la vita" - Moretti & Vitali Editore, 2007)
DINO CAMPANA
(1885-1932)


La sera fumosa d’estate
dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
e mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume s’accende una lampada) chi ha
a la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – C’è
nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto;
e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
nel cuore della sera c’è
sempre una piaga rossa languente.
Dino Campana
(Da:“Canti Orfici” Marradi, 1914, su La poesia Italiana Contemporanea a cura di G. Cavallini e L. Marguati)
ARTURO GIOVANNITTI
(1884-1959)


COLUI CHE CAMMINA

Al di sopra del mio capo, odo il rumore dei passi,
tutta la notte.
Avanti e indietro; vanno e vengono….
Ancora….ancora….ancora….
Tutta la notte; tutte le notti…..
Un’eternità nei quattro passi che vanno; un’eternità
nei quattro passi che tornano e nei brevi,
sempre
uguali intervalli, pesa il Silenzio, la Notte, l’Infinito.
Ché infiniti sono i nove passi di una cella di prigione,
e senza fine è la marcia di colui che cammina,
tra i muri di mattoni gialli ed il rosso cancello di ferro
ingenerando pensieri che non si possono ammanettare
che non si possono segregare, perché errano lontano,
nella luce solare del mondo, ed ognuno di essi va
peregrino verso la meta del suo destino.
T’imploro, fratello mio, perché sono assai stanco
di udire e contare i tuoi passi, e non mi reggo
più dal sonno.
Fermati, riposa, dormi fratello mio, ché l’alba è
assai vicina e non è soltanto la chiave che può
riaprirci il cancello.

Arturo Giovannitti
(da: Quando canta il gallo, Ed. Clemente e Figli, Chicago - 1957)

martedì 13 ottobre 2009

MILO DE ANGELIS
(1951)


*

Il luogo era immobile, la parola oscura. Era quello
il luogo stabilito. Addio memoria di notti
lucenti, addio grande sorriso. Il luogo era lì.
Respirare fu un buio di persiane, uno stare primitivo.
Silenzio e deserto si scambiavano volto e noi
parlavamo a una lampada. Il luogo era quello. I tram
passavano radi. Venere ritornava nella sua baracca.
Dalla gola guerriera si staccavano episodi. Non abbiamo
detto più niente. Il luogo era quello. Era lì
che stavi morendo.


Milo De Angelis
(Da:Tema dell’addio, su La Parola Plurale, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli, e Paolo Zublena, Sossella Ebitore, 2005)
GIOVANNA SICARI
(1954-2003)


PER UN AMORE EDIPICO


Malgrado quel tuo odore
mi distraesse dal resto
di dicembre squartava l’aria
un altro anno scandiva la sequenza.
Nei solchi delle periferie
distratte bocche dalle tasche dei pantaloni
inseguono l’atmosfera pigra
del sogno di stanotte
fra tradimenti e chiese devastate,
niente oltre il tuo respiro di usignolo
fra i quadri rubati nella penombra
dell’ultima guerra fratricida
raccontando tutto a un amico
sempre lo stesso dalle mille conturbanti facce
di pavone, di bue, di filigrana gentile
di vitello da scorreria.
Dov’era, chi era
con la faccia bestiale o floreale
non mi scuoteva,
per caso- diceva-
per un amore edipico.

Giovanna Sicari
(Su: Tam – Tam n. 29, anno 1982)

lunedì 12 ottobre 2009

HELLE BUSACCA
(1915-1996)



*

E perché dovrei andare in grecia
o a creta o in egitto o a siviglia,
e perché sognerei
gli atolli dalle verdi lagune,

mio fratello non è là.

I suoi occhi infinitamente tristi
infinitamente dolci in cui brilla
quel radioso sorriso,
questo universo senza pupille
non sapeva che cosa farsene.

E la sardegna, sì, paola,
un tempo, è bella, avrei potuto scriverti;
ma ora,
..............ed è questo che vorrei che udissi,
aldo che dormi accorato ancora
di ciò che non avesti,
....................................................non è che limo
e cenere come ogni cosa: bello e gentile,
nulla, se non quel nulla ch'è un cuore d'uomo.

Helle Busacca
(Dal Blog Blanc de ta nuque di Stefano Guglielmin)



TV
(Revival anni 40)

Come se n’é andata la nostra vita,
Aldo, perduta, sprecata,
eppure sempre meravigliosa
anni”40, “40”)
quando era giovane nostro padre,
quando eravamo ragazzi noi,
e siamo già nell’ottantacinque,
io qui nel risucchio, tu chi sa dove.

Helle Busacca
(Su Progetto di curva e di volo, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle arti, Milano, 1994)

DAVIDE RONDONI
(1964)


*

Sia dolce con noi.
Su di noi altissimo cielo,
in noi vicinissima pietà.
Sia respiro,
tremato segreto.
Sia cuore nel cuore della notte,
sia nuovo arco del giorno.
Sia Compassione!

Sii dolce con noi.

Vieni
nella sera che si svena.
Nelle feste di cocci.
Vieni al morire delle ore,
vieni nel nostro livore.

Vieni nei grandi presepi,
nei bambini vuoti.
Vieni nelle ore carcerate,
nelle preziose coppe sbeccate.

Sii Compassione!

Vieni
nel valzer triste,
nella dischiusa mandorla del sogno.
Vieni nelle ore chinate,
nell’incanto, nelle poesie dimenticate.

Vieni nei debolissimi pianti,
negli uomini profanati.
Vieni nelle ore gementi,
nella malattia, vieni nelle menti.

Sii respiro!

Vieni nella sconosciuta particella,
nei pensieri filo -di –ragno.
Vieni nelle ore centellinate,
nelle regine denudate.

Vieni
nel nostro amore balbuziente,
nel niente di voce rimasto.
Nelle ore ingravidate.
Vieni nelle nostre polveri innamorate.
Vieni e sii tormento.
Vieni nel mio frammento.

Davide Rondoni
(Natale 1983, su Quinta Generazione, Anno XII, 1984, Maggio-Giugno, nn. 119-120)

domenica 11 ottobre 2009

GIOVANNI GIUDICI
(1924)



GUARDERO' INDIETRO

Guarderò indietro, non avrò più paura.
Dimenticare amici, dimenticare sventura
o ventura, non serve, cambiare accento,
sapere tutte le giuste notizie,

dunque non serve. Se è da rifare il mondo,
datemi la mia parte, fissatemi il tempo,
controllatemi, lavorerò….Ma qui un po’ di vento
già mi sbalestra, mi scopro se mi nascondo,

mi coglie in fallo: basta un niente a tradirti,
e sbagliare da soli non dà esperienza.
Cominceremo daccapo, ma qui è già sabato sera,
credo che il Diavolo esiste, volevo dirti.

Giovanni Giudici
(da: La vita in versi di Giovanni Giudici, a cura di Enrico Testa, su “Poesia”, anno III, gennaio 1990, numero 25)

sabato 10 ottobre 2009

GIORGIO BASSANI
(1916-2000)
DOVE VIVI?

Dove vivi? - mi chiede corrugando la
fronte e stringendo le palpebre – Dov’è
che diavolo stai?

A Roma? A Ferrara? Laggiù a
Maratea? Oppure nuovamente
altrove?

Nessuno pensando a te saprebbe darti oggi il più
piccolo posto un po’ tuo- concludo – proprio tu che fino
all’altro ieri soltanto
non ne hai abitato in fondo che
uno
Giorgio Bassani
(Da: In gran segreto, Mondadori, 1978)


a MOMI

Gli anni – quaranta almeno dei tuoi sessanta – tutti una ritmica
alternanza d’autunnali nebbie ineffabili di inverni
del pari inesprimibili nelle opache loro o fulgenti
nevi urbane e collinari d’estati
anch’esse da non dirsi nei loro padani
polverosi ori
supremi


o nel frattempo tu sempre lì in attesa di un’improbabile
inaudita primavera giammai
avere tu fretta anzi marcissero
in te cose ed eventi prossimi sempre a una mirabile
epifania ad una imminente
caduta….


Era alla Poesia che tiravi a quella

Giorgio Bassani
(Da: In gran segreto, Mondadori, 1978)

venerdì 9 ottobre 2009

FELICE PIEMONTESE
(1942)


STREGHE (a Patrizia Vicinelli)

di Patrizia Vicinelli ricordo un gesto
di tenerezza, davanti a una fontana
di Pesaro (m’innamorai subito
naturalmente, quando già
aveva deciso che lo spreco
di sé è l’unica fatica
che merita di essere
fatta. Negli ultimi tempi (ma
la saggezza non arriverà, dissi) amava
raccontare le sue avventure, come farebbe
un vecchio esploratore: le fughe,
il carcere, i molti umori, le rivolte, questa
vita di rossori, Anastasia,
anche gli aborti, certo, e
la lunga droga, le persecuzioni, la strega
degli Abruzzi (fu a Tangeri
o a Westminster bridge che
ci venne incontro?). Sono (quasi) sempre
allegra, disse, Il futuro sarà
radioso (aveva
ancora pochi mesi). E almeno
non ci saranno la compassione, la senilità
precoce, irreversibile
è il tempo, nevvero, e certe
le macerie. Chi sa perché

Felice Piemontese
(Su Risvolti, Edizioni Riccardi, quaderni di linguaggio in movimento, Misenum Rain n. 6, 2001)
STELIO MARIA MARTINI
(1934)


*

é vero, amore, è vero: dietro i muri, oltre le porte
esistono gli angeli lievitanti dei bordelli-
é vero, amore, è vero: basterebbe infatti abolire gli opericoli-
io credo ai miracoli, al sonno, e intanto giacciono i terremoti-

ognuno mi stende la mano, una sua zampetta pelosa
ognuno mi offre una rosa o un’unghia, ma invano-
la strada, la folla, ogni cosa caduta e gettata
è bella con te… è vero, ma, cos’è mai capire?

é vero, amore, è vero: né per frigus pars destrens
mi sento rivivere, né sono per questo più acuto-
il mare, il cielo, il sole, le zanzare, i tafani, le mosche
è tutto una musica nel tuo ronzare plenilunio-

ho l’anima piena di luce, non sono altro che un bugno
io amo, io sono felice nonostante i privati fetori-
è vero, un miracolo, è vero, in questo ricettacolo di goccioline,
amore, sei tu, ritrovato nell’incredibile brulicante

Stelio Maria Martini
(Da: Schemi, su Risvolti, Quaderni di linguaggi in movimento, Edizioni Riccardi, Arvenum Poetryn. 1, 1008)


HARLET’S HOUSE

C’incamminammo a passo errante
per la lunare strada sognante
e finimmo davanti all’Harlot’s House.

Da dentro udimmo oltre il fracasso,
alto e distinto in mezzo al chiasso,
il Treus Liebes Herz di Strauss.

Come strani automi grotteschi
componevano fantastici arabeschi
ombre in moto di là da un paravento.

Vedevamo spettrali ballerini
muoversi a suon di corni e di violini:
un turbinio di foglie nere al vento.

Come pupazzi comandati a fili
quei gracili scheletrici profili
saltellavano simili a birilli.

Si prendevano l’un l’altro per mano
ballando seriamente un ballo vano
tra sonore risate, grida e strilli.

Ora una bambola stringeva al petto
un fantoccio meccanico all’aspetto,
ora sembrava accennassero a un canto.

Ora invece un’orrenda marionetta
usciva a fumare una sua sigaretta
come se fosse viva per incanto.

Allora dissi rivolto al mio amore:
ballano i morti coi morti, è un orrore,
un vortice di polvere in caduta!

Ma lei sentiva il violino e lasciò,
lasciò il mio fianco sinistro ed entrò,
entrò il mio amore nella casa perduta.

Ed ecco di colpo quei suoni stonarono,
i ballerini il ballo arrestarono,
cessava con il valzer l’impostura.

E giù per la lunga, immobile strada
nell’alba grigia di fredda rugiada
un brivido corse di bimba in paura.

Stelio Maria Martini
(Da: Via nel tempo,Il Laboratorio/ Le Edizioni, Nola, 1997)
MARISA PAPA RUGGIERO
(1943)


SULLA SCENA

Dal mio pennello
la stanza scende
sulla tela, non diversa
né uguale alla mia stanza

e dentro qui nel mezzo
dipingo un cavalletto ed una tela…
e sulla tela una scena,

poi me stessa
che dipinge una scena
(me stessa due volte)
o due me in una volta
entro cogli occhi dentro i miei
sulla scena,
mi guardo in ciò che manca

e ciò che manca è dipinto
e tuttavia esistente,
nato qui:
sulla scena

Marisa Papa Ruggiero
(Da: L’estremità del nome, su Risvolti, Quaderni di linguaggi in Movimento, Edizioni Riccardi, Arvenum Poetry, n.1, 1998)

giovedì 8 ottobre 2009

GIOVANNI TESTORI
(1923-1993)


A TE

Se tu m’amassi un po’ di più,
ti giuro
non potrei,
non vivere più.

*

Nella vita
non incontrerai più nessuno.

Il miracolo non si ripete é uno.
Si adagia su di te la sera,
si adagia su di me
la tua affranta, perseguita giovinezza.

Non ci sarà più bellezza;
se tu parti,
non ci sarà più salvezza.

*

Sei tu che hai fatto nevicare?
E per dirmi che mi vuoi davvero stringere,
baciare?

*

Non guardarmi.
Sai che posso piangere,
tremare

E’ solo così che ci possiamo amare?

*

Avremmo percorso insieme
Le strade che attendono
i misconosciuti, i banditi.
Saremmo stati dei vermi, dei cani,
ma la sera, oh amore, la sera
ci saremmo stretti come due poveri figli
nelle nostre tristissime mani…

*

Lentamente ti carichi anche tu
della mia stessa croce.

Affranto sotto il peso
non ti senti triste,
non ti senti offeso.

Sei una pecora che avanza
e non bela ormai più:
sei hai bisogno – mi dici –
la mia felicità prendila tu.

Giovanni Testori
(Da: A te, Almanacco dello Specchio, 1979, su Quinta Generazione, Anno XII-1984, Maggio-Giugno nn. 119-120)

PATRIZIA CAVALLI
(1947)



Da: L’io singolare proprio mio

Ah smetti sedia di essere così sedia!
E voi, libri, non siate così libri!
Come le metti stanno, le giacche abbandonate.
Troppa materia, troppa identità.
Tutti padroni della propria forma.
Sono. Sono quel che sono. Solitari.
E io li vedo a uno a uno separati
e ferma anch’io faccio da piazzetta
a questi oggetti fermi, soli, raggelati.
Ci vuole molta ariosa tenerezza,
una fretta pietosa che muova e che confonda
queste forme padrone sempre uguali, perché
non è vero che si torna, non si ritorna
al ventre, si parte solamente,
si diventa singolari.

Patrizia Cavalli
(da Parola plurale, Sossella editore, 2005)

VIVIAN LAMARQUE
(1946)


QUESTA QUIETA POLVERE

1

Che fa il mio bimbo?
Che fa il mio capriolo?
Verrà tre volte ancora
E poi non verrà più

Disse al figurinaio fammi una statua di cera
che si muova come un uomo vero

i morti se li tocchi sono freddi
invece i vivi sono tutta un’altra cosa

l’amore mio quando lo toccavo
ero felice

In un certo reame in un certo stato
vivevano un tempo un re e una regina

ieri ho avuto una visione
l’amore mio era in giardino
metà era vecchio
metà era bambino

l’ultima volta mi aveva detto
se mi ammalo tu mi curi?
e io avevo detto di sì
sai smacchiare le giacche?
e io avevo detto un po’

In un certo reame in un certo stato
vivevano un tempo un re e una regina

il mattino dopo che si è morti
non ci si può svegliare
la vita è finita
è incominciata la morte

non si può sempre restare
un po’ starò
e un po’ andrò

io lo so dove andare
conosco certi luoghi
dove l’amore mio col suo profilo va
Le acque di una stessa rapida vanno fra mille ostacoli
poi si riuniscono, anche se non subito

dimmi: ma tu e l’amore tuo siete di una stessa rapida?
sì se no non saremmo una volta confluiti

e quando sarebbe se non subito?f
fra mille e ottomila generazioni finché questo ciottolo
diventi masso

certe volte io credo di assomigliare a qualcuno
certe volte io credo di non assomigliare a nessuno
io assomiglio a me stessa
innamorata dell’amore mio

Che fa il mio bimbo?
Che fa il mio capriolo?
Verrà tre volte ancora
E poi non verrà più

con questa luce forte
si vede a prima vista che l’amore mio non c’è
l’amore mio manca così tanto
che non vedo l’ora che sia buio
buio nero per non vederci più

al buio certe volte
l’amore mio col suo profilo appare

non mi dice parole
né si lascia toccare
comunque al buio certe volte
l’amore mio coi suo profilo appare

II

io mi ricordo la prima volta che lo vidi
erano le ore 16 del giorno sabato di giugno
lui arrivava da un corridoio lungo

dove si ritira l’amore
avanza la morte Giardiniera

io non voglio la Morte Giardiniera
io voglio un giardino
con dentro l’amore mio a zappare

se un giorno l’amore mio ritornerà
io sarò felice

come le piantine di riso che in autunno
si reclinano tutte d’un verso
a voi a voi vorrei piegarmi

adesso basta non esserci
adesso voglio che l’amore mio ci sia
voglio che l’amore mio sia lì
anzi qui
che io possa allungando una mano
toccarlo

Disse al figurinaio : fammi una statua di cera
che si muova come un vero uomo

i morti se li tocchi sono freddi
invece i vivi sono tutta un’altra cosa

l’amore mio quando lo toccavo
ero felice

io non voglio essere quieta
io non voglio essere polvere

nelle vite quando mettono la data di nascita
io vado subito a vedere la data di morte
poi faccio la sottrazione
e metto il risultato

io non sono morta io sono nata
il 18 aprile 1946

sono viva credo
i rami sulla mia mano
sono pieni di convolvolo

Vivian Lamarque
(Da: Una quieta polvere, - Parola Plurale-, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinellii e Paolo Zublema, Sossella Editore, Roma, 2005)

mercoledì 7 ottobre 2009

BIANCAMARIA FRABOTTA
(1946)

5

Se postumo è il nostro dialogo perché ci bastò
una vita soltanto e non
fin oltre l’orto concluso che anche qui le conifere
stagliano e scorciano se sondi troppo le punte?
Immune da ogni esito andrà ancora a capo
la muta insidia del caso
il bacio delle note che ancora ci adesca
il giro delle quinte in cui più vale la finta
che con tantalica mente appaga chi non resiste
e mente e quel neo sulla guancia diventa
il cielo nero di una notte illune. L’ultima
in cui poter dormire. L’unica che imparò a morire.

Biancamaria Frabotta


10

Non più la trepida festa del vento che sciabola rincorse.
Sédati vento. E’ il tempo della posa.
Cheta la tua impaziente opera di limatura.
Lascia che Jole sparga la sua segatura e la lucertola
immota risalga dal fondo d’un ossario marino
dove rosseggia la seppiolina e argentea risplende
la lisca dell’aringa. E se gli ultimi
saranno i primi venga presto la primula
a ultimare le dimenticanze dello scalpellino.
Domani avrò anch’io l’impareggiabile lucentezza del marmo.

Biancamaria Frabotta
(Da: Il vento a Bures,- Parola plurale a cura di Giancarlo Alfano. Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublema..
Sossella Editore, Roma, 2005)

COSIMO ORTESTA
(1939)


IL SENTIERO DAL CUORE DELLA CASA


Piccole navi morte, sotto tetto d’acciaio,
del nero ardore parlano
che il figlio di Corneille consunse –
la percezione dell’acqua e dell’età,
il soffio delle foglie,
la lettura del thè in cui (tutto fiorito
a morte)- il figlio: “Orsù mio bel signore
disàrmati” dicendo, insiste a che
la Defayis discenda adesso ammantata
di carezze fresche e vedove medaglie
che l’ebbero corrotta ma sempre più inflessibile
nel negarsi.

A dodici anni o a trenta da altissime
vele soffocato inutilmente o da collana d’acciaio
-dolcissimi pigiami! – l’astuto sollievo
inerte si fingeva col fiato corto reclamando
letto di spighe e lande belle e piane.
Ma aria di paragone con l’aria già di collera
di crepe giù nella corte si era fasciata

Cosimo Ortesta
(In margine alla lettura di una biografia di Pierre Corneille e di una lettera alla madre (Caroline Archnhaut Defayis) di Charles Baudelaire.


PAROLA STESSA


Cominciata nell’orizzonte dove crolli
mi dai la mano (sì, che me lo dici)
bella a me gridando se conosci
il lungo pelo e il bosco
che s’inarca

paziente trasudi qui son
io perché non scrivi e giri
intorno un quarto di parola
parola stessa d’ago e storia
entrata veglia
nei colpi sul femore battuti

ti sbarri gli occhi e il respiro
nei tiepidi scongiuri
alla porta chiusi con fendenti
e sveli l’alluce posato sulla foglia
la forchetta a te imboccata
la carezza stoccata sulla nuca.

Cosimo Ortesta
(Da: Il bagno degli occhi, Società di poesia,1980) Su Quinta Generazione, Anno XII,1984, Maggio.Giugno , nn. 119-120)
GIULIANO GRAMIGNA
(1920)


UNA CITTA’ LOMBARDA


2

Ben altro ti attende che il fischio
sordo della lampada a gas
sullo sterrato: non è il cuore che batte
ma il martello pneumatico nel punto
dove comincia l’inferno
come in un blocco di tormalina
eritis sicut dei, pensieri, desolati, volti
ghiacciati nella speranza!
Ogni sera c’è sempre meno rimorso
nello spazio di guadagnare,
meno tempo da ingannare. Piove nella stanza
diggià la cenere del Capo Nord.

Giuliano Gramigna
(Da: La pazienza, Rebellato, 1959, su Quinta Generazione, Anno XII-1984, Maggio-Giugno. Nn. 119-120)

martedì 6 ottobre 2009

GIULIA NICCOLAI
(1934)


Da:FRISBIES (1982)


Una volta
aprendo il frigorifero
é capitato anche a me di dire:
“C’è qualcosa di marcio in Danimarca”.

Un uomo mi fa notare
-durante l’intervallo di una mia lettura alla Pasticceria-
che il pane in Toscana viene fatto senza sale
e che Dante ha scritto:
“Tu proverai sì come sa di sale
Lo pane altrui…
E intanto Dante sale.

IS mi dice di aver visto vicino alla Porta Romana
un picoloo ristourante Thaigliandeisi.
“Come, dico io, “il ristorante si chiama Italia Daisy?
“Come, dice lui, (“Italian Daisy? Thaigliandeisi”
“Ah, Thailandese, dico io. (Lui, IS, mi stava parlando
in italiano e io lo stavo ascoltando in inglese).
E pensare che la più “bella” signora dell’orto
che io ero convinta si chiamasse Italia,
si chiama invece Margherita.

Non si gioca a Frisby solo con le parole
è bene farlo anche con le braccia e con le gambe.

“Beati i poveri di spirito”
dovrebbe dare in inglese
“Blessed are the half-wits”
Invece fa: “Blessed are the poor in spirito”
Sì, bevo sempre parecchio.

Vichinghi, normanni e altri
-per lo più navigatori –
vengono solitamente raffigurati
a prua, in piedi, che scrutano l’orizzonte. Alias infinito.
A un certo punto, però anche loro
saranno costretti a dire “Terra-terra-.

I Presidenti degli Stati Uniti
-da quando televisione é televisione-
e quando parlano al popolo americano,
fissano sempre un punto sopra l’obiettivo della camera.
(Vedi: orizzonte. Vedi infinito).

Sapeva quello che si diceva
quello che ha detto:
“Vedi Napoli e poi muori”.
(Questo è un omaggio ai leopardi, ai gattopardi, ai viceré, alle
pantere nere?)

La poesia
va da tutte le parti
e così fo’ io.
Laudata sia.

Giulia Niccolai
(da: Nuovi segnali, antologia sulle poetiche verbo-visuali italiane negli Anni Settanta-Ottanta, a cura di Vitaldo Conte, Maggioli editore, 1994). Riportato nella Rivista Quinta Generazione, anno XII, 1984, Maggio-Giugno)

lunedì 5 ottobre 2009

EDOARDO SANGUINETI
(1930)


Purgatorio de L’Inferno
XVII poesie, 1960-196316


16

mentre dicevamo: ma guardatela; (quella luna); ma proprio allora
io pensavo (ma tranquillo) alle parole già scritte a mia moglie:” ma
tranquilla”; (avendo spiegato); “ma tranquillo” (più tardi); “ per
Sempre” (quel minaccioso significato);
i piedi
nell’erba bagnata, nel sentiero, dopo la pioggia, incerto, in mezzo alle mucche
normanne (.:.); e poi l’alba, appunto; e poi Madame Heurgon, che ci vede
da una finestra del castello (nell’alba);
e poi non importa, appunto, niente;
(dopo la colazione, la buonanotte, il buongiorno, nella cucina, nell’alba);
e poi: stanco di spiegare, poi, di giustificare (di giustificarmi); (e volevo
dire, appunto: di giustificarmi – come ho spiegato – “ per sempre”);
e poi:
stanco di così insistente ricorso; (a fantasmi); dicendo: perché avrai
notato come mi sono affrettato, insistente, a ricorrere….;
e così via); (a fantasmi);
ma tranquilla, Luciana, davvero ( il 30
settembre), più tardi; ma voglio poi dire, adesso: “per sempre” (….);


Edoardo Sanguineti
(da Segnalibro. Poesie 1951-1981, Feltrinelli, 1982)
ANTONIO PORTA
(1935-1989)


RAPPORTI UMANI

Camminare diviene intollerabile, è passato
un altro anno con i piedi incollati ai pavimenti,
prima o dopo, con le gambe ridotte all’osso,
miele dei muscoli, più che un’antica verità,
rinchiuso nella stanza, non ti sa dire, e poi non c’é.

Sulle strade di ghiaccio, pattinando, con la sciarpa
verde e un berretto scuro, per un complesso di colpe,
breve felicità, non s’incontrano mai, così t’infurii,
gratti il muro con l’unghia e te la spezzi, disteso
sulla panchina, anitre imbalsamate galleggiano sul lago,
mi raccontava una storia- sì, ma soltanto la fine-

Antonio Porta
(da: I rapporti, su Poesia italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, 1969)
NANNI BALESTRINI
(1935)


1


Di fronte a un panorama di immensa bellezza
che si apre sui ghiacciai

la vista è incomparabile col bel tempo ma è
spesso offuscata dalla nebbia

panorama superbo sui seracchi e i crepacci del
ghiacciato sulla vallata e le montagne circostan-
ti

panorama grandioso sull’immenso ghiacciaio e le
cime oscillanti che lo dominano

con una rivista meravigliosa sull’Aiguille du Midi
che appare vicinissima e sulla vallata e le mon-
tagne a O e a N

fino alla pianura lombarda a Milano e agli Ap-
pennini e dal lato opposto fino a Lione e alle
Cevenne

avvolto dall’immenso silenzio e dall’abbagliante
splendore del ghiacciaio sotto l’azzurro nitido
del cielo

increspato da onde di ghiaccio e da seracchi co-
me un fiume che discende nella vallata

lo sguardo distingue le cime dell’Oberland da un
lato e le alpi marittime da quello opposto

lo sguardo sprofonda a picco da una parte e dal-
tra sui due versanti

colori nitidissimi sagome sfrangiate di nuvoloni
carichi di pioggia spruzzi di azzurro

un azzurro fiume di jeans.

Nanni Balestrini
(da:” Blachout” Feltrinelli, 1980)

domenica 4 ottobre 2009

TOMMASO OTTONIERI
(1958)


IL SOFFIO DELLA TERRA


Sono nella terra, solo. Tutt’intorno, zolle rivoltate, terreni
coltivati a patate, e la raccolta detto fatto, e via. Tutto quello
che non si vede, stando nella terra. E il ventare discontinuo
d’un’autostrada semiabbandonata, lassù, che se ci passa un
autotreno sul cavalcavia vibra, gonfia le ossa, le stritola, Io
sento: Terrapieni, dalla piana, e il gettito d’asfalto lungo fino
all’Adriatico, che io non posso vedere e che sento. Vibrato…
nella terra…. dove sciogliendosi giorno su giorno….No, que-
sta è la terra, questi sono gli occhi, occhi su occhi, occhi nel-
la terra. Dove colliquandosi a nutrirla….Vedo la pianta non la
vedo che si gonfia, giorno su giorno, succhia via…..scioglien-
dosi….e si fa grassa e soffia. E’ la mia terra.

E’ la tua terra. Vedo i tuoi occhi nella terra. Vedo le mani……
sprofondano in liquami…..occhi spenti, terra spenta, si gon-
fia, tua. I canali che convogliano nella spianata quello che la
gonfia e la fa forte, le strade diritte si secheranno a 90° rico-
noscenti, ancora, auff, ancora, file d’alberi chinandosi, si pi-
gliano la pappa, salutano, frusciano, arrivano dove sei tu,
non ti preoccupare.

Immobile. Una maledizione ti dico. Questo piantare le radi-
ci e la radice sei tu, in questa terra inesistente, stare nella ter-
ra e la terra sei tu, proprio tu, inesistente, ah! — un metro e
poco più di terra su di sé ed è tutta un’altra storia. Niente da
ridere. Tutto filtra, tutto cresce. Si pianta, sono le radici,
niente da ridere, filamentoso, qualcosa che mi pianta quas-
sotto, che mica lo estirperesti, fa freddo. Dio, i miei pensieri
qui a sciogliersi nella distesa di patate….E la nutrono, amo-
revoli, distesa, l’infinità dei campi, che mi gonfia non lo ve-
dono i miei occhi….Nella mia terra.

Dentro la terra. Occhi spaziano. Spenti spaziano, spenta ter-
ra, la tua.

Un fazzoletto di terra dove sognare, e già che sogno. Spen-
to, liquido, non qui, non altrove. Dove te ne vai ragazzo?
Perché non qui a mandarmi il tuo calore? Corpo vivo sulla
terra morta. Quaggiù, con qualche buona spanna di terra so-
pra gli occhi….respiro…questo disciogliersi….qualcosa bat-
te….più niente. Il freddo che fermenta dagli alluci in su, stan-
do nella terra, la mia terra. Dimmi ci pensi? Dissipando le
sostanze negli umori della piana….

Tommaso Ottonieri
(da: Contatto, 2002 - La parola negata di Mario M. Gabriele - Nuova Letteratura, 2005)
MARIANO BAINO
(1953)


Pinocchio fuggitore
all’alba, nel levare
chiodoso delle gambe

in un odore
elettrico, che ha un filo
di preumano

(il gesto
della fruga, l’ora)

a salti di capretto. di puledro
stincoso o di felpata lepre

fughe
in nebbie, brume del fuggire
cose che t’inseguono,
a inseguirle
fuggono, vaghe anch’esse

dell’utopica
figura del fagotto, i tacchi
alzati,
via

dai troppi
padroni, troppi
cacciatori

la strada di pinocchio
tra le case
taglia, s’inoltra
nei vicoli incrociando
quartieri, s’inerpica in salita,
rampa
sugli azzurrognoli contorni della city
come in rollanti corridoi di Josef K.

surriscaldato legno di pinokkio, pianta
stremata, fruscula nel vento
strapazzone

su terrazze condominiali, cieli o terre
di nessuno, a balzi lunghi
da fare i vermi

biancheria per aria,
in asciugata
in aria dove alte
gru sorvegliano

cancellerie parcheggi assi
pedonali, in cima a un monte
d’immondizia oveggia
un uovo

Mariano Bàino
(da Pinocchio (moviole) Introduzione di Francesco Leonetti, Manni Editore, 2000)

sabato 3 ottobre 2009

LEONARDO SINISGALLI
(1908-1981)


PASQUA 1952


Le sere d’aprile son fredde e tristi
quaggiù nei cameroni di casa mia.
Mio padre si muove appena tra il focolare
e la latrina. Lo portiamo a braccia, lo svestiamo
gli sciogliamo le scarpe per farlo dormire.

Le pendici del Serino sono ancora bianche di neve.
Ci siamo tappati nelle stanze, a stento
ci arrivano dalla piazza i rintocchi dell’orologio
Il fumo ci arrossa gli occhi,
è umida di bosco la legna mortacina.

Cristo risorgerà dal sepolcro di iris,
i messaggeri ce l’hanno annunziato
bussando alle imposte.
I piccoli pastori ci portano i primi
asparagi dalle spinete, l’ortolana
scalza è entrata con un cesto di fiori di rape.

Aspettavo da trent’anni una Pasqua
tra i fossi, il muschio sopra i sassi,
le viole tra le tegole. Ma i morti
dormono nelle bare di castagno,
sugli archi delle stalle e dei porcili,
sulle crociere delle cantine e dei pollai.
Fanno fatica ad abbandonare per sempre
le nostre sedie, i nostri letti,
dove vissero tanti anni di lenta agonia.

Lungo le strade gli stracci
neri delle vesti sono più silenziosi.
Un gruppo d’uomini brucia col ferro
il grumo di veleno nella bocca dell’asino.

M’ero messo in viaggio verso una Pasqua
in fiore, incontro al Cristo purpureo
che solleva il coperchio di grano bianco
cresciuto nelle grotte.

Tutto quello che io so non mi giova
a cancellare tutto quello che ho visto.
I fanciulli soffiano sul carbone
perché dal piombo fiorisca
il simulacro della rosa.
Vanno e vengono per casa le visitatri
cia portarci i sarmenti per il fuoco,
le ceste d’uova, le parole di cordoglio.

C’è sempre nelle stanze il ricordo
di un lutto recente o il gemito
di un vecchio malato.
Mio padre ha il sangue greve.
Si duole della sua immobilità.
Lo caricheranno sulle spalle i miei nipoti
e un giorno, un tiepido giorno di là da venire
lo porteranno alla vigna. Lo porteranno
a mezza costa, sulla sedia
di braccia intrecciate.

Ci è toccata questa valle, questa valle
abbiamo scelta per tornarci a morire.
Dove Gesù risorgerà con molta pena
noi speriamo ardentemente di sopravvivere
nel cuore dei congiunti e dei compagni,
nel ricordo dei vicini di casa e di campo.

Come fischiano le rondini
intorno alla chiesa di San Domenico
semibuia il giovedì delle tenebre!


Leonardo Sinisgalli
(da: LucaniArt.Magazine)

venerdì 2 ottobre 2009

AMELIA ROSSELLI
(1930-1996)


X

Ho nella stella nera del mio destino
un qualche cosa che non è questo
versificare per buone donne o fanti
o spente illuse stelle silenziose
o rauche vanità d’essere additata
tra i primi.

In capo al masto, che scotendosi
s’adattava bene a tutti i venti
e silenziosamente sempre rimontava
tu ti penti.

Ma ora hai scelto magnificamente
la tua sorte, sortendo tra i sorteggi
un bacio immaginario, tutto un
trainare di distinzioni, sfumate
e elefantiche.

Direttamente nel vuoto del fango
mai alzare voce, infatti: quando
sostando vicino alla tua passione
la bruciasti.

Amelia Rosselli

(Da: Documento- dodici poesie, su Almanacco dello Specchio, n. 5, 1976 a cura di Marco Forti, Mondadori)
ARMANDA GUIDUCCI
(1923-1992)

MUTAZIONE 2

Un graffio sul tuo viso e un altro graffio
presto di te non rimarrà più nulla
del tuo fulgore, di tutto ciò che ho amato.
Lo scatto dello sguardo, quei capelli –
le tue mani sottili, di betulla.
Eppure, ti ho distrutto. Io sono il giorno
che ti ha goduto posando sai sul giorno.
Sono io la goccia che ti ha eroso,
fra occhi e guance scavano questa fossa.
Il tempo che ti uccide ha ormai il mio viso.
Il mio respiro attraversa la tua morte.

Armanda Guiducci
(da Effetto città. Sedici poesie, introduzione di Marco Forti, Almanacco dello Specchio n.4, 1975)

giovedì 1 ottobre 2009

GIOVANNI RABONI
(1932-2004)


CREDITORI


Cerchiamo di parlare
in due minuti, mentre qualcuno aggiusta
le tende alle finestre e gli amici
sono già per le scale. Sempre c’è
poco tempo quando dobbiamo fare
i conti con i morti. E così dico
a mia madre di aver pazienza – a lei
che vicina a morire, ancora
vuol sapere com’era la mia cena.

Giovanni Raboni
(Da :Parti di requiem, Almanacco dello Specchio n. 4- 1975, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore)

TRASLOCO


Presto di mattina
a un passo dal cancello, non ricordo
se in strada o nel giardino.
Non era chiuso, né aperto. Poteva
essere molto tardi. Poteva esserci vento.
Bisognava rincorrerli – gridare
slittando sulla ghiaia,
darsi slancio sui pali delle dalie,
abbattersi sui platani, volare
su tre gradini di graniglia,
svelto, più svelto! Prima che qualcuno
(la Gondrad, anche allora?) bestemmiando
per troppo noce,
ansando cieco per le scale,
portasse dentro – prima la testata,
poi le molle, le sponde –
il letto di mia madre.

Giovanni Raboni
(Da: Parti di requiem, Almanacco dello Specchio n. 4. 1975, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore)

LA BARA


Mi chiedo se una bara
può essere così calda, davvero, come è stato
questa notte in un sogno-
dico calda da dentro se per ridere
cerco di sollevarla, se la tolgo
al fugone, alla fossa,
se l’abbraccio, sapendo nel legno che sei viva.

Giovanni Raboni
(Da: Parti di requiem, Almanacco dello Specchio n. 4-1975, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore)
MARGHERITA GUIDACCI
(1921-1992)


IL GRANDE MAZZO DI GIGLI


Il grande mazzo di gigli… Stringevo tra le braccia
quel candore, stordita dal profumo vertiginoso.
In cosa mi somiglia, mi chiedevo. Domandomelo
tu avevi detto che in qualche modo mi somigliava.

Avvizzito da anni, tornava ancora
ad abbagliare la memoria con la sua luce di neve.
Era invincibile come l’alba, come la scia della luna
sulle acque in cui sprofondava la mia vita
di naufraga- e soltanto a quell’immagine
io mi aggrappavo allora, per salvarmi

Margherita Guidacci
(da: Inno alla gioia, Centro Internazionale del Libro, Firenze, 1983)