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lunedì 27 dicembre 2010


UGO PISCOPO
(1934)


Fughe e silenzi germina la parola

Torna a fiorir la rosa o la favola della parola
mattutino risveglio della sera strazia in rossi barbagli
roride ombre disegna d'acque e di tramonti capelvenere
controluce sulla bianca redola educata tra le aiuole

Ma noi noi tu ed io in avaria alla gialla deriva
ci sconnette e arretra e assenta fuori campo oltre la scena
ombre vane che siamo d'un incarnato d'echi
non si sa dove soli soli eravamo e senza

Smarrita la donna in sé s'acciambella e fugge
strappato alla grazia il garbo di luna degli occhi
tanto può bellor di rosa il tuffo d'un bouquet
che irrompe a la chiusa imposta con un ramicel di fiori

In villa al crocevia dove arsi silenzi controvento
si dissolvono come in specchi labili postille
e illuse orme simulano indizi tracce intrighi
un frullo d'ali di cristallo marezza luci decembrine. (1990)

Ugo Piscopo
(da: La parola negata- Rapporto sulla poesia a Napoli,
di Mario M. Gabriele- Nuova Letteratura, 2005)

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale


Merry Christmas

Froehliche Weihnachten
Feliz Navidad
Mo'adim Lesimkha
Iloista Joulua
Kala Christouyenna
Gledelig Jul
Boas Festas

**********

Bloody Monckey aveva già fatto 10 yards
quando tornò indietro attraversando ponti,
e green country, un’isola deserta
come potrebbe dirsi una città vuota
di chicanos e baiadere,
buttarsi nelle braccia
di un novembre piovoso,
dopo aver dipinto un cielo blu all’orizzonte,
fuori da nuvole e tornadi,
sorridendo ancora un poco
delle mani- di Josephine.

Zygel ha scritto che lascerà la campagna,
aspettando agosto e poi ottobre e dicembre
se ritorna la passione e s’apre a coda di rondine
un sogno di ragazzo ritmando Drum Boogie.

lo dice anche il vecchio venuto da Bisanzio
che a dispetto dei roditori
è un vero cercatore di quadrifogli
e di zenzero per la notte.

Il fatto è che non ci si può più fidare neppure dei ritorni,
dolce Deborah, troppo brutte sono le ombre o corvette
come le chiamano
chi si sveglia all’alba e diventa per un giorno
l’enigma di un canto inutile!

Io sto bene con Charlotte,
mi rende la vita come una cascata di fiori
nelle acque del venerdì santo
dove non sostano i vampiri;
allora sì che cominciamo davvero a divertirci,
affrontando l’azzurro.

Non a caso le famiglie Zigfrid e Larsey
ci hanno invitato alla festa del sole
domani, a Freiburg.

Mario M. Gabriele

sabato 4 dicembre 2010

POESIA GRECA
NASOS VAGHENAS
(1945)


Ode barbara XIII

Miei vecchi amori. Visibili
ore di un secolo che non vuole morire.
Si rompono continuamente lune intorno a me.
La luce che m’illumina di certo verrà
da stelle spente.

Tutta la notte sradico sentimenti
dal mio petto che resta sempre verde.
Erbacce con radici d’eternità.
Mi stordisce il rumore del tempo.
Scendo

in una notte più profonda di quella vera
con una duplice tenebra negli angoli
e caligini d’usi passati.
Camminando lentamente, attento
a non svegliarvi.

Traduzione di Filippomaria Pontani

Poeti greci del Novecento

a cura di Nicola Crocetti
e Filippomaria Pontani
Arnoldo Mondadori Editore 2010

sabato 23 ottobre 2010

POESIA ITALIANA

G.BATTISTA NAZZARO

(1933)

STROFE PER UN EVENTO

giaceva sul fianco voltata verso il muro

e le pareti erano sporche di sangue;

il resto non conta, il resto non resiste

alla tentazione d’afferrare fulmineamente

la gardenia, lì nel vaso, e infilarsela così,

deliziosamente ghiacciata, nella scollatura;

e c’era l’ingegnere che voleva portare

il rosmarino profumato alla ragazza;

c’era il conte che comprava le terre;

c’era il bambino che nella sabbia bagnata

erigeva un monumento alla cicala;

il dottore, c’era il dottore, quel guardone

in bermuda a fiori celesti sulla sdraio;

il resto era sparso per i villaggi: che era

assente cioè , ch era primavera; con lei

che non reagiva ai profumi e sonnecchiava;

si svegliò quando lui scese dal letto;

poi pensò che fossero surgelati; in buste;

a causa di quella triade un po’ disseccata

che andava matta per gli insetti col calco

di pelle dorata; intanto non si fermavano;

nictofobia= paura della notte e del buio;

l’orologio continuava ad attirare gli sguardi;

Dick era simpatico; anche Otto era simpatico;

e Perry era simpatico; Dick Otto e Perry;

mentre la signorina Giulia era caduta battendo

la testa su di uno spigolo tagliente; aveva

promesso di sposare Perry; e ne venne

una lunga discussione; era la loro specialità,

era stato in un pesce ragno; là andavano

a mangiare; poi entravano in casa;

e poi disse il fatto più importante, la cosa

da tenere a mente; ma non era possibile;

tutto scompariva e tutto si deteriorava

senza rumore; il miglior modo di lottare

contro il rumore è di non farlo; l’acqua

dei fiumi scorre, quella dei laghi sta ferma;

Dick non l’avrebbe mai fatto; Perry sì;

alle 11 le gambe le pulsavano per il dolore;

altra sua caratteristica, la vulnerabilità

nella schiena e poté mostrare la lingua;

ma non ebbe fortuna; da ciò derivano

la prospettiva e lo sviluppo del pensiero

logico; somigliano sempre a sé stessi;

all’osservazione aveva assentito col cenno;

la primavera è una passione; non tarda

a farsi luce in sintonia diretta con la musica

tutt’altro discorso per il tempo e attese

nuovi incontri; ma raramente il parlato

del basso riemergeva; le rughe vanno

curate alo loro apparire con una intensa luce

e pianse; non capiva il mondo correlato;

ma ne valeva la pena per non far dell’asfissia;

il cranio spaccato era un antro ronzante

di congetture; il cerchio si stringeva sempre più;

Gesù le era simpatico; e Marx le era simpatico;

quello che ormai contava di fare era infilarsi

in una tuta e mettersi a passo di corsa;

e s’incamminò tra i tavoli dimenando il bacino;

per il resto, anche le mele sono bacate;

e si afferrò il piede tra le mani; rise di gioia.

G.Battista Nazzaro

(da: Opera Prima : Di un evento 1964-1969, Marcus Edizioni, Napoli, 2010)

(G. Battista Nazzaro è stato negli anni Sessanta uno dei principali protagonisti dell’avanguardia sperimentando poesia visiva e tecnologica e partecipando a mostre nazionali e internazionali con il Gruppo “70” e con l’Operativo “64”).

venerdì 22 ottobre 2010

POESIA ITALIANA
LUIGI DI RUSCIO
(1930- 2011)


8

per un inverno intero una vespa
fu il nostro unico animale domestico
per nutrirla bastò
una goccia di acqua e zucchero alla settimana
con la primavera sparì per sempre
per abbeverarsi in uno zuccherificio infinito
ed oggi per passare dalla zona d’ombra
alla luce è bastato un passo solo

Luigi Di Ruscio
(da “L’iddio ridente”, prefazione Stefano Verdino, edizioni Zona)

venerdì 17 settembre 2010

POESIA ITALIANA
DOMENICO CARA
(1952)


Precisazioni

In altro modo ero euforico, la morte degli incroci
di certi vincoli memoriali, di parole sciolte
per caso dai flash di un’insonnia, madre scomparsa
dal mio occhio, destato dai bui tentacoli e fragori

Era un’ellissi, un fuggevole Voltaire ritornava
alle cose, nel cui nero cercavo di assopirmi; una violazione
del corpo ribelle, di schianti secchi, e contro
tutti fantasmi del silenzio, un’esile collera
di vanti, precisazioni, imperfetti annunci, rinascite
dispiegate contro la pena di bisbigli urbani e passi
nell’età cieca e salmastra, a impure acque e piazze.

Domenico Cara
da: Interni d’immolazione, 2007

giovedì 26 agosto 2010

POESIA ITALIANA
PIERLUIGI CAPPELLO
(1967)


Assetto di volo


A Gino Lorio, in memoria


Con lui venivano una determinazione feroce
dalla camera alla palestra
i cento metri percorsi in cinque minuti,
con una tensione di motore imballato
tutta la forza del suo corpo spastico
ribellata alla forza di gravità.

Sant’Agostino diceva che perfezione
è la carne che si fa spirito, lo spirito che si fa carne
ma non è vero: ogni mattina i puntali delle stampelle
scivolano metro a metro per guadagnarne cento
ogni mattina lo spirito è tagliato via da quel corpo,
dalle suole strascicanti e dalle nocche strette,
bianche sulle impugnature,
ogni mattina dal dorso di lottatore
si stacca un collo di tendini tesi e redini allentate
un urlo chiuso nella sua profondità,
perfetto nella sua separazione.

E io vi vedo una bellezza di cimieri abbattuti
e dentro la parola andare la parola compimento
e sono sicuro che lui sogna baci pieni di vento
mentre la volontà conquista le giornate a morsi,
schiaffo dopo schiaffo perché venga la sera
schiaffo dopo schiaffo, chiglia in piena bufera.

Ci vuole un’estate piena e un padre calmo,
un dio non assiso in mezzo agli sconfitti
ma cosí in tutta bellezza lo posso immaginare
come un bambino alle prime pedalate,
reggilo, eccolo, tienilo cosí – adesso tiene
uniti la terra e il cielo dell’estate
non sbanda piu, vince, è in equilibrio,
vola via.


Pierluigi Cappello
Assetto di volo. Poesie 1992-2005
a cura di Anna De Simone
Crocetti Editore 2006, 2007
Premio Bagutta Opera Prima 2007
Premio Città di San Pellegrino Terme 2007

sabato 17 luglio 2010

RAFFAELE CARRIERI
(1905-1984)


CHI E' PASSATO PRIMA DI ME

Chi è passato prima di me
Di me ha lasciato orma.
Rintraccio l’esile forma
Del piede che fu mio
Tra il terzo e il quarto
Secolo e corse questi lidi
E si portò dall’altra parte
Oltre le isole e gli uliveti
Sulla rotta dei califfi.

Chi è passato prima di me
Di me ha lasciato ombra
Fuggevole di lunga ciglia.
Ma è questa pupilla
Pigra e un poco torva
Graffia sulla ciotola
Di creta rossa: Nel sepolcro
Guardo il mio occhio
Dal profilo di conchiglia.

Chi è passato prima di me
Di me ha lasciato esigua
Impronta dei corta mano.
Riconosco l’effimera curva
Delle costole e il disegno
Scorretto del ginocchio
Dove la rotula s’ingobba,
Mia è questa caviglia
Che dall’argilla traspare.

Chi è passato prima di me
Di me ha lasciato fresca
Memoria di giuochi.
Riodo il nitrito di centauro
Mattiniero e il suono colgo
Della voce che fu mia
Quando Venere rincorrevo
Affamato e veloce
Nelle grotte d’amore.

Chi è passato prima di me
Di me ha lasciato specchio
Di morte e tazze colme.
Lo spazio ritrovo del mio
Corpo e il lino bianco
Odora di limone: nata
Non era la colomba d’Archita
Quando tra questi ulivi
Mi colse prima morte.

Raffaele Carrieri
(Da:Lamento del gabelliere, Mondadori, 1946, Su Quinta Generazione anno XII 1984, maggio-giugno. nn.119-120)

giovedì 1 luglio 2010

GILDA MUSA
(1926-1999)



Evelina R. N.R.

Camminava Evelina con sottili
tacchi su nubi di ovatta, parlando
amalgamava musica e colori,
ma la vita sgranava fra un assurdo
e l’altro e il ripensare giorni che
non sarebbero tornati. Domenica
assurda assurdo lunedì, poi altri
giorni sarebbero venuti vacui
patinati del medesimo assurdo.
Fra un’attesa e un’attesa, un buio e un buio,
scriveva in quella camera d’albergo
lettere senza fine, destinate
a nessuna risposta, rivolgeva
domande agli esili mazzi di fiori
della tappezzeria, e poi lasciava
dalle pupille accese in una febbre
di brividi, di assalti e tentazione
sempre più lunghi sguardi verso la
magnetizzante corda del tendone.
Poi – le sue dita legarono il cappio.

Ma sarebbe bastato che un fringuello
sul davanzale improvvisasse un canto:
Evelina si sarebbe distratta
a disegnare docile nell’aria
lo snodarsi-annodarsi a chiaroscuri
ora in tensione ora in distensione
del filo-ghirigoro musicale,
a farsi persuadere dalla forma
imitazione- Illuminante forma - imitazione
di annodati-snodati chiaroscuri
del filo-ghirigoro esistenziale
teso e disteso, attorcigliato e sciolto
nella serie allacciata degli eventi.
Tanto poco sarebbe bastato.

Gilda Musa
(da Notizie in bianco e nero, Sciascia, 1983, su Q/G, maggio-giugno 1984 nn.119-120)

domenica 27 giugno 2010

GIUSEPPE UNGARETTI
(1888-1970)



1
“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto”…
E il volto già scomparso
ma gli occhi ancora vivi
dal guanciale volgeva alla finestra,
e riempivano passeri la stanza
verso le briciole dal babbo sparse
per distrarre il suo bimbo…

2

Ora potrò baciare solo in sogno
le fiduciose mani….
E discorro, lavoro,
sono appena mutato, temo, fumo…
Come si può ch’io regga a tanta notte?...

3

Mi porteranno gli anni
chissà quali altri orrori,
ma ti sentivo accanto,
m’avresti consolato…..

4

Mai, non saprete mai come m’illumina
l’ombra che mi si pone a lato, timida,
quando non spero più…

5

Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze
sollevava dai crucci un uomo stanco?...
La terra l’ha disfatta, la protegge
un passato di favola….

6

Ogni altra voce é un’eco che si spegne
ora che una mi chiama
dalle vette immortali….

7

In cielo cerco il tuo felice volto,
ed i miei occhi in me null’altro vedano
quando anch’essi vorrà chiudere Iddio….

8

E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!....

9

Inferocita terra, immane mare
mi separa dal luogo della tomba
dove ora si disperde
il martoriato corpo…
Non conta….Ascolto sempre più distinta
quella voce d’anima
che non seppi difendere quaggiù….
M’isola, sempre più festosa e amica
di minuto in minuto
nel suo segreto semplice…

10

Sono tornato ai colli, ai pini amati
e del ritmo dell’aria il patrio accento
che non riudrò con te,
mi spezza ad ogni soffio….

11

Passa la rondine e con essa estate,
e anch’io, mi dico, passerò…….
Ma resti dell’amore che mi strazia
non solo segno un breve appannamento
se dall’inferno arrivo a qualche quiete…..

12

Sotto la scure il disilluso ramo
cadendo si lamenta appena, meno
che non la foglia al tocco della brezza….
E fu la furia che abbatté la tenera
forma e la premurosa
carità d’una voce mi consuma….

13

Non più furori reca a me l’estate,
né primavera i suoi presentimenti;
puoi declinare, autunno,
con le tue stolte glorie:
per uno spoglio desiderio, inverno
distende la stagione più clemente!....

14

Già m’è nelle ossa scesa
l’autunnale secchezza ,
ma, protratto dalle ombre,
sopravviene infinito
un demente fulgore:
la tortura segreta del crepuscolo
inabissato….

15

Rievocherò senza rimorso sempre
un’incantevole agonia dei sensi?
Ascolta, cieco:”Un’anima è partita
dal comune castigo ancora illesa….”

Mi abbatterà meno di non più udire
i gridi vivi della sua purezza
che di sentire quasi estinto in me
il fremito pauroso della colpa?….

16

Agli abbagli che squillano dai vetri
squadra un riflesso alla tovaglia l’ombra,
tornano al lustro labile d’un orcio
gonfie d’ortensie dall’aiuola, un rondone ebbro,
il grattacielo in vampe dalle nuvole,
sull’albero, saltelli d’un bimbetto….

Inesauribile fragore di onde
si dà che giunga allora nella stanza
e, alla fermezza inquieta d’una linea
azzurra, ogni parete si dilegua…..

17

Fu dolce e forse qui vicino passi
dicendo:” Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l’aurora e intatto giorno”.
Giuseppe Ungaretti

(da: Giorno per giorno (1940-1946)

venerdì 25 giugno 2010

EDOARDO SANGUINETI
(1930-2010)



“ma Mocky, tornando da St. Lò, si aggiustava i capelli
sulla fronte
(abbiamo bevuto, anche, con Alain Borne di Montélimar, Dròle);
(ma non volle,
la sera, giocare aux Ambassadeurs): poi tutti dormirono, in macchina,
sulla strada Parigi, nell’alta (e poi giù!) notte
(nell’alta nebbia):
(e poi, giù!) amore!
Philippe (disse),
j’ai SOIF!:
attraverso Hebecrevon, Lessay, Portbail), At.Sauver (sotto la pioggia
sempre) poi Edith disse che non era gentile (perché non scrivevo,
come Pierre,
per lei, quelques poèmes; (e che non dovevamo partire); Micheline
ci giudicò molto semplici; e Edith e Micheline, quando io dissi
che non l’avevo
tradita (mia moglie), vollero crederlo;
e qui cade opportuno ricordare
quel;
“se ti buttassi le braccia al collo ecc”, che venne poi
poi si ballò
tutti, anche
Micha, nel salottino, attraverso Cerisy, Canisy, Coutances,
Begneville;
(ma il 12
luglio era chiuso il Louvre, martedì
e scrisse (sopra un foglio
a quadretti)
“pensavo che non posso guardarti in faccia”; e mi dispiace per te)
e ancora scrisse (mia moglie): “sto male”,
e poi a Gap (H.A.),
(due giorni più tardi), storditi ancora, quasi inerti: e pensare (dissi);
che noi (quasi piangendo, dissi): (e volevo dire, ma quasi mi
soffocava,
davvero, il pianto; volevo dire: con un amore come questo, noi):
un giorno (noi); (e nella piazza strepitava la banda; e la stanza era
in una strana penombra
(noi) dobbiamo morire”
Edoardo Sanguineti
(da: Purgatorio dell’inverno, (1964)
POESIA SIRIANA
ADONIS
(1930)

Oriente e Occidente

Una cosa si era distesa nel cunicolo della storia
una cosa adorna, esplosiva
che trasporta il proprio figlio di nafta avvelenato
al quale il mercante avvelenato intona una canzone
esisteva un Oriente simile a un bambino che implora,
chiede aiuto
e l'Occidente era il suo infallibile signore.

Questa mappa è mutata
l'universo è un fuoco
l'Oriente e l'Occidente sono una tomba
sola
raccolta dalle sue ceneri.

Adonis


mercoledì 23 giugno 2010

POESIA ITALIANA
FABRIZIO DE ANDRE'
(1940-1999)

La canzone di Marinella

Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna è il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue l'aquilone.

E c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui pose le sue mani sui tuoi fianchi.

Furono baci e furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle.

Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose.

Fabrizio De André
La canzone di Marinella, 1964

«Una storia senza tempo, che parlava di persone senza storia. Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato trovato massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia, letta alla luce della cronaca.Vista in controluce, invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero »
(
Don Luigi Ciotti)

POESIA ITALIANA
GIOVANNI RAMELLA BAGNERI
(1929-2008)





DOPPIO CANTO D’AMORE

(A)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
uscirò sotto la pioggia a cercarti una corona
di ortiche e penne di corvo e un manto di carta di giornali
e, preso l’anello regalo trovato nel detersivo,
ti condurrò a un altare ornato di corna di becco.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
con una borsa di tue fotografie proibite
andrò a propagandarti per i quattro punti del mondo
finchè tutte le camere le cucine delle casalinghe
non siano piene di strilli e di pantofole scagliate.

(B)
Se mi amerai, e questo è più facile in primavera,
mi alzerò dalla panca all’angolo del camino,
mi toglierò il grembiule cenerentolo,
mi laverò la faccia e mi riavvierò i capelli
e farò passi di danza fino a te.

Se invece non mi amerai, e questo è più facile d’autunno,
tornerò al mio cantuccio e spingerò via il camino,
mi leverò il vestito da ballo e le scarpette di cristallo,
m’infilerò i blue-jeans e accenderò il televisore
e aspetterò che venga qualcuno più bello di te.

(A)
Se ti amerò, da mattina a sera sarò in giro
a cercare fuscelli per il nido,
ti coverò le uova perché tu prenda respiro,
insegnerò ai pulcini a far pio pio
e sarò tutto fiero e soddisfatto di me.

Se invece non ti amerò, butterò all’aria il tuo nido,
non ci saranno più uova e tanto meno pulcini,
ti beccherò e ti caccerò via,
poi sul ramo più alto starò io
a fare in modo che non torni più.

(B)
Se ti amerò, ti darò da mangiare
sempre la stessa minestra, ma con una tal grazia
che non sentirai più bisogno d’altro,
e se alla fine sarai grasso e sazio,
sarò tranquilla e sicura di te.

Se invece non ti amerò, quella minestra
diventerà un’acquaccia mal salata,
buttata lì senza un minimo di grazia,
sbrigarsi perché poi c’è da fare altro,
e se non sei contento prenditela con te.

(A)

Da gennaio a dicembre ti amerò per il sì
e ritornando indietro ti amerò per il no.
Ti amerò con la pioggia e con la neve ,
col caldo e il freddo e il bello e il brutto tempo.
Amerò in te ciò che passa il convento,
quello che prendi perché non c’è altro,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.


Amerò in te gatta e capra e gallina,
quella che morde e quella che ti becca,
quella che graffia e quella che t’incorna.
Amerò in te la notte e il giorno,
ma così rassegnati tutti e due
che non mi accorgerò nemmeno della morte
quando verrò a riprendersi la museruola e la catena.


(B)
Dal lunedì alla domenica ti amerò per il diritto
e ritornando indietro ti amerò per il rovescio.
In ogni settimana mese stagione anno ti amerò.
Amerò in te ogni mia sconfitta, ogni vergogna,
il brutto della vita, il disgustoso,
ciò che si vorrebbe dimenticare,
ma non lo dirò mai, nemmeno a te o a me.

Amerò in te il caprone, l’asino, il topo e il pidocchio,
il viscido, lo sporco, ciò che ti salta addosso
e mai riesci a scrollare da te.
La paura, il sonno della ragione.
Ciò che ti rode, ti strania e ti svuota.
Alla fine sarò così contenta di morire
che quasi non sentirò cadere a terra la catena.

Giovanni Ramella Bagneri
da: Il teatrino del mondo - Forum Q/G Forlì, 1984



Nella casa

Questa è la nostra casa,
la bella ,solida casa
dove potrai vivere tranquilla.
La bella casa sicura
con le finestre aperte sulla strada
per guardar fuori la gente che passa
per guardare il traffico fluire
guardarti la civiltà
far passare il tempo in qualche modo,
o accendere il televisore.
Seguire il tuo programma preferito,
con le spalle protette,
al calduccio d’inverno.

Qui c’è il televisore
e anche il frigorifero,
c’è la cucina elettrica
e la lucidatrice e il frullatore
e il giradischi con gli ultimi successi.
Ti ho comprato tutto, proprio tutto.
Potrai vivere bene,
almeno fin che dura.

Fin che dura? Come fin che dura?

E’ così. Ti sbatteranno fuori
e non protesterai nemmeno.

- Tu dici fuori di qui?
Chi mi sbatterà fuori?

Tutto quello che c’è dentro.
Tu credi che una casa
sia fatta solo per te.
Una casa è una casa
e tu sei solo una donna.
Se non obbedirai,
ti sbatterà sulla strada


Non mi sbatterà sulla strada.

Dovrai lasciarla sfogare
E poi chiedere scusa.
Una casa è una casa
e noi siamo di troppo.
Da queste parti è difficile vivere.
Occorre rassegnarsi, amore,
perché ne abbiamo bisogno.
Forse, una volta o l’altra
ci brucerà il paglione
e allora sarà finita.

Perché? Finita?
Perché non siamo niente.
Poi verrà qualcun altro e sarà uguale.
Non siamo proprio niente.
Gente che va e che viene
e che non può mettere radici.
Una casa sente queste cose
e allora ti brucia il paglione.

Non voglio andarmene di qui.
Ho lottato tutta la vita
e non mi lascerò cacciare.
Dovremo fare qualcosa.

La lasceremo sfogare,
poi torneremo con la faccia allegra.
come se non fosse stato nulla.

Non possiamo vivere così.
Questo non durerà a lungo.
Occorre essere forti,
dire quello che pensiamo
Tu credi che una donna
non sappia ciò che vuole.
Volevo un anello e ce l’ho.
Volevo una casa e ho anche questa.
Saprò farmi obbedire in un minuto.
Lascia alla donna il suo posto
è fatta per queste cose.

- Ti brucerà il paglione.

Non me lo brucerà.

La prenderai di punta
e ti farà filare.
Una casa è una casa:
chi non si adatta va fuori.
Poi fai la barba e rientri,
ma trovi tutto cambiato
e nemmeno più di tuo gusto.
D’altronde non sarai la prima.
Qui succede sovente.

- Che succede? Che succede?

- Quando ti sbattono fuori,
puoi rientrare dalla parte sbagliata.
- Io non mi sbaglierò.

- Ci farai l’abitudine.
Tu credi di essere davanti
e invece ti ritrovi dietro.
Aspetti di vedere il traffico
e invece non passa nessuno.
C’è solo un vallone di cespugli.

- Un vallone di cespugli?

- O forse è la parte giusta.
Quando rientri, non c’è niente.
Allora accendi il fuoco
e metti i panni ad asciugare
Tireremo avanti in qualche modo.
Coltiveremo la terra,
alleveremo bambini,
almeno fin che dura.
Quando sbaglierai entrata
non ci farai più caso.
Ogni tanto di qua,
ogni tanto di là:
in fondo non c’è differenza.


- Non coltiverò la terra
e nemmeno laverò i panni.

- Coltiveremo la terra
alleveremo bambini.
Quando siamo di qui
è già molto se si mangia.
Ci guadagneremo il pane
col sudore della fronte.
Andremo a dormire presto.
Ascolterai la notte
dilavata. Andrai fuori
se lo vorrai. Non sei la prima che
vi resista.
- Resistere?
- Resistere. Questo è
il luogo della paura deforme
che strepita e impedisce di pensare.
Qui si vive in attesa,
qui si stenta e si spera
di andare via, qui sale il freddo e c’è
chi urla a lungo e ha sempre fame e sete
e di notte si leva dal suo angolo
e ringhia e raspa sulla porta se
nessuno scende: questa è la mia parte
d’eredità e la tengo preziosa.

- Chi è? Chi è?

- Qualcuno , e tutto. Sono due, e tutto.
La Morte e il Diavolo.
Vivono qui da tempo. Sono amici.

- Io non li voglio per amici. Dove sono?

- Nella stalla.

- Nella stalla?

- Ruminano in pace
e mi dànno da vivere e ne ho cura.

- Io non ne avrò cura. Tu, ci penserai.
Anzi, no. Dovrai mandarli via.
Voglio dormire tranquilla.

- Tu non dormirai.
Io non dormirò.

- Perché? Perché?

- E’ così: non dormirai.
Io nemmeno.
Noi non dormiremo né qui né fuori,
potremo al più ripararci dal freddo,
perché quando la Morte ha fame
e il Diavolo ha sete,
perché quando hanno fame e sete
e la Morte urla
e il Diavolo risponde,
e il Diavolo urla
e la Morte risponde,
fanno un frastuono per la casa
e raspano sui muri e sulla porta
e cercano la botola per salire
nella stanzaccia dove stiamo col
lume acceso e rabbrividiamo stretti,
e gridare non val nulla perché
quando vogliono balzan fuori e corrono
per la terra e nessuno può fermarli:
poi tornano quieti
e se siamo fuggiti
ci vengono a cercare.

Giovanni Ramella Bagneri
da: Il teatrino del mondo, Forum Q/G - Forlì 1984
POESIA BRASILIANA
MARTHA MEDEIROS
(1961)



Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.

Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

Martha Mereidos
Nota: Poesia erroneamente attribuita a Pablo Neruda