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venerdì 25 novembre 2016

POESIA ITALIANA - ALBERTO MARIO MORICONI

ALBERTO MARIO MORICONI

(1920-2010)


IL CASO ALBERTO MARIO MORICONI
di Mario M. Gabriele

Di tutti i fatti e i misfatti compiuti nella lunga storia delle omissioni, tra i tanti nomi illustri o pochi noti, ricordiamo Testori, messo al bando più per la sua fede cristiana che per i suoi scritti, o ancora Sinisgalli, Bigongiari, Parronchi, Accrocca, Pierro, e quelli dell’area marxista presenti in La giovane poesia di Enrico Falqui, e i tanti polverizzati dal tempo, appartenenti alle varie generazioni: la quinta, la sesta, la settima ecc. tutti desaparecidos abbandonati nelle loro patrie regionali, o extraoceaniche e ai quali nessuna antologia o storia letteraria, si assumerà mai il compito di dare onore e giustizia. Qui, tra i tanti esempi ricordiamo anche Alberto Mario Moriconi, mal tollerato nell’ambiente campano fatto di poeti bizzosi e individualisti.
Desiderando in questa sede superare il discorso di una eventuale linea napoletana, che non si addice al Nostro, per ragioni estetiche, tematiche, psicosoggettive e quant’altro, ci pare giusto collocare Moriconi (1920) nel diagramma delle voci metasperimentali, di carattere trovadorico, storico, aedico ecc.
In quest’area Egli si distingue per il vitalismo linguistico in cui l’ironia e il sarcasmo si associano ad un persistente stato di verifica dei dati presi in esame e provenienti da un protocollo poetico storico e contemporaneo, sottoposto a continue indagini e prelazioni di verità. Da qui l’uso del significante dalle diverse affinità culturali: un vero e proprio assemblage di tecnica letteraria e di coesione con i ritmi popolari e giullareschi, fino a trovare le ragioni di una poesia estetica ed etica, giocosa e malumorosa, che rimettono in gioco i segni del mondo e un pessimismo esistenziale come nel testo Fortuna del volume Decreto sui duelli, Laterza, 1982, /Caddi io, così; da zero al doppio / zero: versi che ci riportano al principio delle irreversibili conclusioni riduttive del nostro essere qui e ora.

Che sia questo un carteggio di un poeta con una visione umana del mondo, non ci sembra un’ipotesi azzardata, specie se andiamo ad esaminare il volume Dibattito su amore, Laterza (1969), che è un’appassionata esposizione di fatti ed eventi di cui il testo La tedesca al bosco calabro ne è un vivo esempio di speranza e sacrificio: un dilatare del sentimento come momento di sogno e di fede con ”gli occasionali eroi e le altrettanto occasionali vittime illustri e umili, innocenti e no, che sono chiamati dal poeta a testimoniare, o confessare, con lui, su altri punti, le solitudini, le viltà, le protervie, i furori dell’homo sapiens ormai onnisciente”. (Paolo Ruffilli Q/G. nn.37-38, luglio-agosto 1977, pag..57).

Su un piano generalmente epico si colloca Un Carico di mercurio, Laterza (1975); titolo di forte impatto ecologico, che non disdegna il senso di denuncia contro l’ambiente e il potere visti come soggetti primari nel testo Le inquinatore,pag.118, dove meglio si concentrano le forme del degrado. Tutto il volume è un autentico repertorio di occasioni poetiche millimetrate nella lunghezza della realtà in un procedimento verbale incisivo e autenticamente originale. Decreto sui duelli, Laterza (1982) è un ulteriore esempio e riconferma di una scrittura dal ritmo narrativo, dai diversi piani espressivi caratterizzati da commedia e tragedia, orrori e crudeltà storiche, con un suggestivo ricordo del sacrificio delle masse nomadi, come risulta nelle tre sezioni del testo dal titolo Nomadi, pag.7, anche se si tratta di storia datata, ma mai inattuale e sempre iscritta a futura memoria: ”convennero, compresse…./ in vagoni / piombati / ad Auschwitz, a Dachau… / Sempre cantarono, ballarono, incitavano, / fuori delle baracche, i bimbi, / malritti, scheletrici, / ai balli /, prima che in fumo migrassero al cielo”.

La poesia di Alberto Mario Moriconi può essere paragonata ad un diagramma supportato da un trend linguistico, che difficilmente trova assestamenti in basso verso una stasi cronica dell’azione verbale. Del tutto personale è l’attitudine ad attualizzare gli eventi esterni, attraverso l’uso reiterato degli attacchi ludico-satirico-epigrammatici, sfocianti nel più generale senso critico della riflessione morale, larvata o sottintesa. Sue ed uniche sono le frammentazioni sintattiche per accedere in diversi campi oggettivi e riportare allo scoperto temi e personaggi, sempre al centro di situazioni drammatiche in una fitta serie d’interventi stilistici, tra citazioni e allitterazioni, scambi plurilinguistici e reportages cronachistici, che vanno a caratterizzare i racconti poetici, correlati alla storia passata e a quella recente.

Ed è proprio questo il senso degli stili e dei generi letterari di Moriconi proposti in tutti questi anni, che gli hanno consentito di duellare con la poesia, con la punta dell’ironia sostanzialmente riflessa anche nel volume Il dente di Wels, Pironti (1995), che si apre ad una piccola Commedia umana, come Nella casa del Libro (Lamento a quattro voci), esposta a rappresentazioni postume, riguardanti il consuntivo della vita del poeta e il senso dello scrivere versi, il vano scrivere come dice lo stesso Moriconi: tutto un librosario da sradicare post mortem da parte dei sopravvissuti:“S’io morrò (Dio non voglia), appena fatto, / voi spianerete le costole /dei miei libri) ai vostri / muri, dico te, mòglietta, e figli; vi dite: / “Se, appena, costui sarà….ito / (oh possiamo parlarne senza scrupoli, / mica intendiamo eliminarlo, mica / l’avremo avvelenato, noi) – ne parlo! – diroccheremo quest’anomalia, che ci attanaglia / e soffoca, di casa nostra,/ sradicheremo il librosario / estirpo qui tu estirpa là”, ma è anche un messaggio di arte e vita, natura e storia, virtù e fortuna, come si legge in quarta di copertina.

Il volume affronta i fatti e i misfatti della Storia, tra inni goliardici, happening poetici e cronache di delitti eccellenti, che si vengono a realizzare all’interno di una poesia costituita da elementi espressivi diversi; gli stessi che troviamo in: Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti Pironti Editore (1999); assieme ad un piccolo album di ricordi di scrittori che rispondono ai nomi di Li-Po, Leopardi, Laforgue, Pindaro e Rimbaud, con l’autore medesimo, che con vario animo, tono e metro, li ricorda e si ricorda. (Nota editoriale). Esemplificando al massimo i giudizi espressi dalla critica sull’opera di Moriconi, riportiamo quello di Giuliano Manacorda apparso su Rinascita del 13 marzo 1970: “Non molti sono in Italia a coltivare, ad alto livello e come accento normale del proprio poetare, la poesia satirica. Moriconi lo fa con quel piglio sarcastico, con una tale imprevedibilità di sortite e una così ricca fusione di temi seri e del loro rovesciamento, da poter essere considerato forse un caso unico. In realtà, la definizione di poesia satirica, dice assai imperfettamente nei confronti della sua produzione, che è cosa assai complessa” .

Sulla poesia di Moriconi si può discutere a lungo circa l’uso dell’ironia di fronte agli orrori o alle cronache storico-sociali, ma non si può negare che in merito ad alcuni elementi seri, come per esempio la morte o l’ingiustizia, o ad altri temi di più ampio interesse, vi sia un forte sentimento umano che traspare più di quanto si pensi o si legga nei suoi volumi.

Moriconi ha posizionato la poesia su parametri linguistici che ci riportano ad un raffinatissimo aggancio con la letteratura popolare, i cui testi ci inducono a rimarcare un giudizio di Armando Maglione nella sua relazione sulla poesia a Napoli negli anni Quaranta, quando rileva già da allora, l’interesse di Moriconi per la realtà sociale, la cronaca e la storia, che animano quella sorta di “drammaturgia” poetica, moralmente risentita, e stilisticamente contaminata e trasgressiva che sarà la sua personalissima cifra confermata nel corso del tempo in tante short stories che sono libri di vita inseriti autonomamente nel complesso e variegato mondo della poesia italiana.

Alcuni testi di Alberto Mario Moriconi:

La mosca di Lindbergh

Si sa e si saprà sempre di Charles Lindbergh pilota
della prima trasvolata senza scalo dell’Atlantico:
quello che pochissimi sanno è che egli ebbe
a bordo del fragile monoposto – lo Spirit of St.
Louis – un’importante passeggera: dico una mosca.
La prima clandestina che trasvolò
New York-Paris, quella cosina,
il comandante se la scoprì, diciotto e quindici,
un bambinone
biondo, una brunettina,
che dal quadrante (mossa da fame?)
dell’altimetro, tutta un tremito
e minutina come è
un dittero,
lo affrontava! (mossa da fame?). Avesse
gridato, lui, e saltava… Gran Dio! Sotto,
le immense lingue e schiume d’azzannìo….
(lei tutto ignorava d’oceani, terrona del Kansas:
la forosetta, del Kansas).
Ma il bambinone
abbozzò,
la ignorò, trasse due sorsi dal termos.
La clandestina s’occultò.
“ E stia..”
il primo “ New York –Paris”
cartone e spago
-come una vecchia valigia –
e spirito di Saint Louis
“ Stia stia, Miss. Due alucce non guastano
in più, di riserva al mono-
plano, al mono-
posto, al mono-
motore: solo bi-
pala l’elica.
E or la brunetta bïala “
rise Charlie, cercandola: “Via via,
Miss, esca. E mi dica,
che, chi a Paris l’aspetta? A chi, beato, sì
graziosa e ardimentosa vola brunetta?”
soffia
soffia sull’acque,
spirito di Saint Louis,
cartone e spago
Or la compagna di Lindbergh dormiva
cinta di stelle, obliosa di tele
di ragno, che forse fuggiva
dal Kansas, da New.
E a lui, l’aquila
giovane, ancora ignara
di ragne, più truci, umane, (1)
un punto
lui solo di sangue e d’anima
sopra i notturni oceani,
ebrïetà
eterëa di stelle e sogni;
e il pulsar dei pistoni, docile faustamente
monotono, oramai
ammalïava, il remeggio fluidissimo,
a un puerile sonno…..
si riscoteva
picchiando a dritta
e a manca l’ala,
o evoluiva libellula
l’aquilotto
e canticchiava un’arietta di favola
western, di carovane.
Ventinov’ore, due sorsi al termos.
Ma pur le palpebre calano, Lindbergh s’assopisce.
Tre, forse cinque, minuti, o dieci, e il velivolo cala,
lenta la cloche, all’acque,
ma dolce cala
spirito di Saint Louis….
Guizzò, ella! via su!…
Rientrò:
lo picchiettò (vellicò) al naso: riaprì
gli occhi lui abbrancò
la cloche.
Digrignò
le schiumose mandibole l’Oceano.
E a dritta dell’aquilotto fiorì
un primo gabbïano,
e altri
e altri,
bianco di sé scriventi in cielo “WELCOME”.
“Ci siamo, darling,ci siamo, baby….
no, bébé, à Paris. Thanks – no, merci –
amica mia…ma come
ti chiami?… Laggiù! laggiù!
è Le Bourget, bébé !”
Trionfò
la bionda aquila degli oceani.
– Il nome,
però, almeno, della compagna….Sparì. –
Trionfò sonnolento su urla dal buio e su fiaccole:
lei vi sparì.
Chi sa se la mosca del Kansas
trovò chi cercava a Paris.

(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)
(1) Cinque anni dopo patì il rapimento e l’uccisione del figlioletto.


Fortuna

Gridar “Fortuna! ficca
un chiodo d’oro nella tua ruota” (1)
non potei, non la scorsi
neppure girar la ruota. Quando
godetti l’attimo
– vorticare
vorticare il suono
d’essa non colsi –
lo volli merito
mio: nessuna
bontà del Cielo, sull’idiota
nessun influsso
 di luna
Cade così l’impero
a uno scettro ebro di sé, derisi
gli astri:
così l’Empire
all’ivre
Empereur, (2) all’impérieux
mépris.
Caddi io così : da zero al doppio
zero.
E ricaddi. E sempre,
col mio sprezzo, nel mio stazzo,
ancor non pago, sguazzo e annaspo credulo
in me, e che sia
virtù una cosa, e uscir dal brago stia
in me:
mai
mi son visto tuo ragazzo,
guercia.

(da: Decreto sui duelli, Laterza, 1982)
(1) Così un personaggio di Lope de Vega.
(2) Napoleone.



Piromani d’agosto

Nell’aria, un pianto…..d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
Zvanìi Pascoli “La quercia caduta”
Evoluivano pazzi fischiavano
intorno ai due alberelli fatti torce
nugoli insupponibili d’uccelli.
Allo sconvolto strido,
accorsi, d’alcuno di loro,
padre o madre a un nido, da ogni dove, al nido
arso e svanito.
Contro i vampanti e i fumanti crepiti uno stridio
crescente, un inaudito ora urlio, una frenetica
musica, una scomposta rabbïosa farandola
di ali e ali, quanti….
I due incendiarii
di più si ritraggono,
ma più eccitati, il perché si domandano
di tanta ressa e ridda ai lor falò: poi, no,
perplessi un po’….”turbati: non sospettano
il nido incenerito”. Che hanno fritto.
“Chi poco cuor sortì cuor non sospetta
in du’ alberelli”. Zitto, Zvanìi, ti prego. Hitchcock,
i tuoi, qui, uccelli i tuoi….!” (*)

(da: Il dente di Wels, Pironti, 1995)

(*) I terribili pennuti del film “The Birds”.

Alberto Mario Moriconi, nato a Terni, il 26 gennaio 1920, vive a Napoli fin dalla fanciullezza. Penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia di Belle Arti di Napoli, collaboratore letterario di quotidiani e riviste per “Il Mattino” ha tenuto rubriche culturali. La sua opera poetica: Vortici, rupi, mammole, Gastaldi, 1952; Trittico fraterno, Milano, Ceschina, 1955; Anno mille, Padova, Rebellato1958; Le torri mobili, Parma, Guanda, 1963; Dibattito su amore, Bari, Laterza, 1969; Un carico di Mercurio, ivi, 1975; Decreto sui duelli, ivi, 1982; Il dente di Wels, Napoli, Pironti, 1995; Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, ivi, 1999; Non salvo Atene, ivi, 2007. Sue poesie sono state tradotte in più lingue.



mercoledì 16 novembre 2016

POESIA ITALIANA - ANGELO FERRANTE


ANGELO FERRANTE
(1938-2010)


 COMMENTO DI MARIO M. GABRIELE

Se si eccettua qualche isolata e significativa esperienza nel campo della narrativa col romanzo “Marirene”, pubblicato nel 1985 nella collana il “ Gazebo ”, diretta da Mariella Bettarini e Gabriella Maleti, si può senz’altro affermare che l’impegno letterario di Angelo Ferrante è da molti anni rivolto sul versante della poesia, quella cioè che dalle ceneri della Neoavanguardia è venuta via via a definirsi e a realizzarsi come operazione espansiva sul territorio della lingua.
Già con “Segni “ -Seledizioni Bologna - 1983 -, finalista al Premio Viareggio, per l’Opera Prima, Ferrante dà una prova del suo personale sperimentalismo poetico con un sotterraneo e silenzioso lavoro di ri(fondazione) del testo, attraverso molteplici strumenti operativi e grafico-semantici, come opposizione alla comune prassi linguistica. Questa operazione non passò inosservata tant’è che essa trovò ospitalità nella Antologia “Il segno e la metamorfosi”- Forum - Forlì - 1987-, nella quale Ferrante dà un chiaro esempio di poesia trasgressiva fitta di plurilinguismo e di introspezioni psicosomatiche all’interno di un lirismo elegiaco che recupera gli affetti familiari interamente trasferiti sul piano dei ricordi, come in: “Frammento”, che è solo uno dei tanti testi dedicati al padre, brevi nella misura del verso e nella conversazione con la morte:

Questa pausa nella vecchia casa paterna il rubinetto
non funziona come al solito non credo che gli si
possa
attribuire tutto l’umido che impregna le mura.
E’ non odo presenze di lui se non del suo odore
di tabacco quando mi guardava correre
nella strada gli si inumidivano gli occhi.

O ancora da “ Album “, che è un monologo lungamente discorsivo col caro estinto, sotto forma di - epigrafi -:

I riflessi del sole nel bicchiere di vino
un incendio di pampini contro l’arco romano
le statue decapitate ancora un soffio nelle
labbra di pietra
tu incantato gli occhi rossi la voce accesa dai ricordi
il racconto al vecchio contadino erede di Tiberio e Druso
la mano tagliuzzata le dita gonfie e l’unghie nere di terra
nella pace del tardo pomeriggio d’ottobre
io ti ascolto la tua poesia le favole di un tempo
sorridendo in volo sui latrati dei cani giro sereno
il volto e gli occhi alle colonne.

Qui riportiamo altri due brevi testi non “recuperati” dall’Autore nella seconda edizione del volume:

non abbiamo più tempo per parlarci
io ho i miei impegni di lavoro sempre più pressanti
mai un’evasione, mai un momento di abbandono
nella nostra casa e nell’orto gonfio di ortiche
tu del resto da quel 4 di agosto
non ti sei fatto più vivo

dopo la curva appena dopo quella che tu vedevi
come un palco affacciato sul paese
mi giunge il brivido del viale senza ghiaia
l’ultimo che hai percorso e ogni volta mi manca
come un ritmo o un fiato e un coccio di questa
mia vita abbandonato

e che rivelano suggestioni riconducibili alla poetica neocrepuscolare, inevitabile quando il discorso poetico esalta al massimo l’atmosfera emotiva di tipo larico-familiare, con tutte le varie sensazioni e percezioni come “Segni ” del passato, ricomposti e assemblati all’interno di un mondo di solitudine e di abbandono, come in” “Mutazioni”:
*
vieni dolore vieni
nel sangue e nel midollo vieni amore
una storia che langue di sussulti
ha bisogno come il brivido freddo
non cancella i tumulti del mio sogno
*
la strada all’infinito dritta
e lontana sfuma i pampini
nei cui contorni bui non cerco
chi sono né so se sono o fui
*
bambino mio i saraceni si sono dissolti
nella notte dei tempi e i muschi avvolti
ai seni delle statue e alle basole
della città morta quando ti conduco
per mano sul decumano sconnesso verso l’arco
della porta e nei tuoi occhi vedo
le ruote dei cocchi scalpitano
*
condurti sui sentieri nel vento
darti il sole proteggerti dall’acqua
e dalla neve come lieve scorre il tempo
mentre La tua piccola mano nel palmo
della mia cresce e l’accolma
*
è un battito l’uva che gronda
d’acqua alle viti e l’autunno
premonitore come l’ombra che inghiotte
i dirupi ove aspettano affamati
i lupi della notte.

“Segni ”, pur offrendo una spaccatura stilistica, tra il documento lirico e la proposta sperimentale, rimane, comunque, il primo esempio di poesia alternativa apparso nel 1982 nel Molise, e che veramente compie una svolta nel panorama poetico nella regione, che registra nuovi poeti, in linea con le istanze sostitutive della lingua provenienti dalla nazione. La potenzialità del linguaggio e il rifiuto di ogni forma archetipa della lingua, fanno di “Segni” un’opera aperta a vastissime architetture verbali, con forti sequenze onomatopeiche e fonoetimologiche, in una fitta geografia di simboli e di metafore, di legamenti ironici e tragici, tutti elementi precursori di una storia o evento, come specchio atto a riflettere le cifre del quotidiano e le trame del vissuto.
Protagonista assoluto è sempre la parola, agglomerato di invenzione e di svuotamento del senso logico della archeologia semantica come in “Legge matematica”:

*
attonca papino la mogga la giocca
i megalenti lègami legumienti
lègami milèga miagola è un forza
orriprimente del fuggioloso
momento

*
ecco, nel suono, ti avrei telefonofonato
io se tu mi avessi asteppato se tu
non fossi stato inzapiente come al tòsilo
l’è stata una forma di nuerosi con
crisi predessive un perpuerpetuo
sibogno di pianger pingere mingere
( purchè tu non cannaliassi)
*
consopizione sperchirolata spericolocolata
nata una tana da impremissioni introibenti
introibernate in un pomeriggio di pioggiucolucola
quando bibitando una zattina di cocciolato
fumigolante sentii sulle papillole una
stoccatura che mi pelipelò la lingua
ti dissi perché non hai stutoliato il
gas quand’era l’aro l’ora il memonto
prozipio ora non serve sifoliare la
stoccatura me la sono beccolombata digià

così pure nel testo “Segni” che dà il titolo al volume stesso

*
non è per sfiducia fuga eclissi parzialmente visibile che
un ambiguo egoismo fa passare in second’ordine agonie di 3
mesi: pare che il carcinoma colpisca con crescente frequenza
le parti basse colon e retto nei pressi del giardino delle
delizie e NESSUNO ci va a riflettere preferisce coltivare
narcisi nel giardino ubriacarsi di profumi esotici andare
(anda anda) fino in fondo verso la parabola ellittica/corsa
afrore di cellulose giallocra CLIMAX domani vedremo di
che si tratta/SEMIOTICA SEMIOLOGIA SEMANTICA
in fondo radica unica univoca unisona radicula quel-eme
ch’altro non è se non spruzzo sprizzo dall’erectio del/ene.
DO NOT DISTURB la notte punge segnali mescola germoglia
anche in periferia PERIFRASTICAMENTE parlando
sto per andare a letto forse non suderò tanto sul
labbro superior forse queste fitte intercostali dolori precordiali
dimenticami stanotte non russare

COUP DE SOLEIL

non riesco in assoluto a contare tutti i bruchetti
che ruminano travi di memorie sono verdi rossi blu
alcuni antibes (insule antille sicut faville scintille
papille
a mille a mille)
al mattino cadono peli
canuti
sulle scucchie prominenti pelle vizza muscoli flosci
non puoi mica spalmarti di cerone (vade retro
ottusangolo-
il y a du FARD) rosa marrone
(tintarella fittizia) rosantico ambra carne color carne
(da non confondere con il filetto o i tre quarti di
dietro)
dico che chi spezza in più pezzi un pezzo solo
non tollera confronti anche perché il colpo netto
dell’affilato triangolo acutangolo nel punto più
vulnerabile
è (INEQUIVOCABILMENTE) un colpo da maestro

Per questa via e per strutture unitarie più compatte e armoniose, Ferrante ci conduce, dopo un lungo silenzio, in una ampia sala per “ Concerto per flauto dolce “ - Edizioni del Leone - 1992 - fuori da ogni nevrosi di linguaggio o di bipolarità stilistiche, attraverso “Ouverture” e “Suite”.
Qui il discorso poetico è veramente unitario, anche per una maggiore disponibilità ideologica a istituzionalizzare lo sperimentalismo nelle forme più dinamiche, contro gli archetipi strutturali della tradizione.
E’ già un punto di arrivo, una scelta inequivocabile dell’adozione di una nuova civiltà letteraria, come spinta in avanti nel variegato panorama della poesia molisana.
Un esempio di questa nuova evoluzione linguistica è dato dalla sezione “Ouverture”:

*
dolceonda la mia caraonda bara l’onda
o casino scendono le vecchie al fiume
mentre non rompere ma la speranza è
l’ultima se avanza su carro della luna
infilava mia madre la cruna del suo ago
il sugo il pesce le morte pinne le
flaccide zinne (non un’oscura fine ma
una scomparsa tenera come un’alba sul
mare) o i campanacci delle mucche al
pascolo su lo matese messo lì per caso
quando gemeva un vento sderrupava e
il confuso risveglio di camomilla o
l’attache di una tachicardia improvvisa
come il petto scuoteva l’assenza del
respiro che almeno finisse presto
(oh le conchiglie le concave chiglie
delle barche d’aria carche sul mare)
turba la pace d’erba la macchina che
cuce le foglie della ruta il vento
stuta la fiammella oblunga era non so
di maggio il congresso delle rondini
nell’orto vieni è finita disse il
tocco d’onda di suono lungamente si
appendeva al cielo che anneriva le
labbra ed io le primole sbattuto
l’erba il sambuco il suco m’avea
bucato il palmo e germina ora il già
colmo dolore né potrà lasciarmi
*
nemmeno sancta sanctorum omnium
decembrina novena ardea l’incienso
alba nei vicoli buissimi dal sonno
scardinato e la maglia di lana
corrono in fila i pidocchi e il prurito
nel sogno sfrigola la punta del fioretto
sotto un archetto emerso dalla fucina
con mani nere da lame di coltelli
scorrea il lapis al folio prendevano corpo
il volto di rossano e le labbra di alida
addio kira su opachi lustri il paese
calvo d’alberi al vento non avea
divorato il silenzio delle chiese
*
vacue scintille a vuoto vagolammo
librata l’aria di un uccello mostro
era di vento l’alba luce del chiostro
su di noi che nel fuoco liquido ardemmo
niuna pace a quella assimilabile
serena contemplazione dei gesti
lo stacco impartecipe che i mesti
rondoni strinse con un cappio labile
era una memoria una lieve cadenza
della mente non ancora al cospetto
delle tenebre bianche sciolte in un’ardenza
di fuochi fatui di lapilli nel petto
e si spingeva oltre le azzurre cornici
dei monti ottobrini sfogliati nei fumi
di nebbie precarie attente ai malefici
delle streghe e dei pallidi gnomi
*
perché questo silenzio di lenzuola e di vento?
La poesia non esiste è cavo il cuore
crocevia di letizia e patimento
mai che finisca questo grido
chissà che non compaia all’improvviso
un uccello dalle ali di neve
ma da spirali di luce il nostro passaggio
il contadino aveva le mani di terra
lo guardai come un corvo e dal taglio
tra le foglie il vento aveva mosso un raggio
si schiantava nel cielo dei suoi occhi
e moriva
*
Le superficie sono state lucidate. Ho un piede nell’alba e
l’altro nella notte. Fammi male ma fallo di nascosto
dolce-
mente. Odori fumano nel triangolo di terra
sull’uscio.
Il nero immacolato si allontana come una palla: Se,
comunque,
l’erba non si dissecca nelle tue estati, puoi adombrarmi
accarezzarmi più piano che sai.
Una traccia: la campana al break
nell’hotel frullato dai piccioni. Dalle vetrate si mostra
un oceano di cielo. Un autunno molisano nero di
commorienza
ha lamentazioni acute spingole nel ventre. Dio se
potesse
urlare! Sebbene agonizzi al freddo lumicino del
martedì-
alla prima silloge sei un angelo incompreso.
Mai- intanto - si chiude il vecchio oggetto. E al
riparo,
ricurvo, nel perfido richiamo delle cose, mi distraggo
nel
toccare i risvolti, nel lucidare il cielo, nel mandarlo via,
e forse nell’obliarmi appena - destinato a non essere
colore,
fiato, disuguaglianza netta, ma dissolto per sempre.

*
Ecco la beltà trasgressiva di Ferrante, misurata nel racconto, sobria nella coesistenza pacifica della parola, per farsi, alla fine, trasfigurazione di un mondo - fisico e spirituale - legato al tempo e sigillato nella memoria.
A riconfermare in pieno l’esperienza poetica coagulatasi attorno a “ Segni “ e a “ Concerto per flauto dolce “ è l’ultima raccolta di poesie : “ Làcero quotidiano “- Campanotto Editore - 1995 -, nella quale Ferrante esplora e sa esplorarsi all’interno delle cose che concorrono a formare delle - storie - prive di arricchimenti virtuali, e nelle quali il disfacimento dell’esistente, ovvero il “ làcero “ è il vero filo conduttore dell’indagine nei dintorni dell’io, sempre più legato ai temi del ricordo-amore e della vita-morte, soggetti ugualmente dominanti ed egemoni della nostra letteratura, che escludono qualsiasi ipotesi metafisica di salvezza e che tendono a rafforzare la visione laica del mondo e della crisi morale dell’uomo di fronte al negativo.
Il sapiente controllo dell’automatismo verbale mette in comunicazione un processo di identificazione tra - l’io - (soggetto esterno della fabulazione) e il - tu - (personaggio ombra o presenza amorosa), quale rapporto di natura affettivo-sentimentale, tanto che i personaggi stessi rappresentati dall’io e dal tu, risultano, alla fine, impotenti di fronte al “ làcero quotidiano”, nella scansione del verso ipermetro e alessandrino reso più prezioso da un linguaggio di derivazione trecentesca, con vari inserimenti dialettali, che amplificano il ritmo del discorso, con il trionfo dei neologismi (multifilter, tempation, matador, ecc.), del linguaggio siculo e molisano ( u tunnu a la tunnara o règna) e del latino antico (crudelitas mundi, ecc.), condensati anche in altri testi come - Collage -, Gli stupori del vento e della neve -,Variazioni sul tema -, Ipotensione-, e - Free love -, ma ve ne sono diversi, ugualmente degni di citazione, come - Tautologia - o come la seconda parte di - Segmenti - che attraverso la riscrittura temporale su alcuni episodi di guerra, carica su di sé sequenze cinematografiche, vivissime e indimenticabili nel dato fenomenico. Il ritorno cadenzato della memoria alla propria terra, anche dopo lo sradicamento dalle sue radici, attraverso una poesia chiaramente - urbana - mette in evidenza il problema della - molisanità - ed - extra-regionalità - delle opere di Ferrante, che da qualsiasi prospettiva le si mettano, pongono diatribe al lettore e alla stessa critica.
In questo contesto è d’obbligo ricondurre la problematica al saggio critico:” La memoria, il ritorno e la fuga” apparso su - Misure Critiche - Conte Editore -nn.37/39 - X - XI - ottobre - dicembre 1980 - gennaio - giugno 1981, a firma di Pasquale A. De Lisio che precisa il termine stesso della -molisanità - che va ricercato non solo nel dato anagrafico del poeta o dello scrittore ma anche “nella stratificazione di una cultura locale che ingloba la storia della propria terra e della propria gente”, mentre le connotazioni poetiche extraregionali vanno individuate soprattutto nelle “ reti di collegamento e di possibile dialogo con le altre aree nazionali” - caratteristiche queste che sembrano proprie di Ferrante, per cui dire che l’una esclude l’altra, significherebbe annullarle con la loro enunciazione testuale, essendo quest’ultima una connotazione peculiare di questo poeta che non dimentica mai il - paesaggio molisano - , né le istanze riformistiche della lingua provenienti dalla nazione In questo senso anche il viaggio misterioso e labirintico del linguaggio finisce con l’essere tutt’uno con la memoria e la presenza del proprio paese in un processo interiore di ricerca e di identificazione.
Quanto al - paesaggio molisano - esso non emerge mai come sentimento periferico nella struttura del testo, ma è quasi sempre connaturale alle esigenze biomemoriali del poeta legato alle radici della propria terra che è spesso rivisitata in ogni suo spazio planimetrico. Tutta l’opera poetica di Ferrante offre squarci sinceri al - paesaggio molisano -, reso vivo dai luoghi, dalla natura, dal perenne incedere delle stagioni che si identificano nella dimensione effimera dell’uomo e del suo “habita”. La riscoperta del - borgo antico - e la riappropriazione dei miti e degli usi della civiltà contadina trovano spazio e vitalità in un onirismo delicato che sfocia in un indissolubile legame tra il poeta-figlio e la terra-madre, dando luogo a tutta una fitta sequenza di rapporti vari, come ad esempio:” le stoppie e la macina”, “ il silenzio delle chiese e il decumano”, “ il pioppeto e l’autunno molisano”, “ il contadino erede di Tiberio e Druso” con la “ superstizione e i “ malefici delle streghe e dei pallidi gnomi”, il tutto senza sfociare nell’enfasi e nella rivisitazione neonaturalistica dell’ambiente, mentre il linguaggio opera su se stesso una fuga in avanti, con materiali iperattivi di vero e proprio - engagement - con le altre proposte del - centro-, che si sono venute a realizzare durante e dopo la Neoavanguardia. Dopo Lacero quotidiano (1995) e Reperti Fonici (2000) si assiste ad un ripensamento delle espressioni e delle comunicazioni soprattutto con Racconto d’inverno, (2002), Senso del tempo, (2003), e Lessico privato, (2004), che introducono una varietà di temi, non ultimi quelli civili, presenti nel volume Dentro la vita (2007), nel quale predominano gli endecasillabi e le terzine, che fanno da ponte al negativo, con la vita illuminata dai ricordi e dalle immagini, anche se, a conti fatti, sembrano poi più forti i debiti con le meditate estrensicazioni linguistiche di Zanzotto, (Plinio Perilli) nonchè di tutta l' area del Secondo Novecento.

domenica 13 novembre 2016

POESIA ITALIANA - ANTONIO SAGREDO



Commento di Lucio Mayoor Tosi
Quartetti.
Per Antonio Sagredo.



“Io, figlio mio, ho messo al sicuro la tua anima qui in questo noce. Il diavolo possiede solo il tuo corpo. Quando ti sarai liberato di lui, torna a rivendicare il tuo spirito immortale. Fiorisce in giardino” ( S. Rushdie)

L’idea di consegnare ogni memoria di sé, pensieri e poesie, il proprio sangue a una macchina, non lo rende felice: che l’immortalità possa, debba essere contenuta in un moderno sarcofago è quanto di più svilente riesca a immaginare, e sopportare. Destino ineluttabile che sa di condanna, di prigionia!

“ha nelle sue mani i ricordi e la mia mente”.

Il quinto elemento, dove risiede ciò che è immutabile, eterno, la dimora di tutte le cose che esistono e consistono, sarebbe dunque una macchina? E’ inaccettabile. Disperante.
Dover rinunciare all’ariosità della carta, alla sua riproducibilità, per consegnarsi a Moloch:

“Morte, tu mi rapini i versi e il mio furore,
dai voce ai finti simulacri della scienza,
perché soltanto mio è il fine che contesta e disonora
la maschera che cela l’epitaffio e il suo rancore!”

Il dubbio, quel che manca alle “macchine pazienti”, è forse l’unico sentimento concesso alla mente umana per poter capire, scegliere, evolvere. Destarsi.
Dubbio è quel che le macchine di memoria non possono sopportare: le manderebbe in tilt.

Sul ring: “Quartetto”.  By Antonio Sagredo.  Quattro match.
“Il capezzale è pronto:  son io la preda!”

Sull’unico tema ma cambiando registro, recitando con voci diverse (poiché in teatro l’attore è vivo, I’m not a robot) Antonio Sagredo si oppone indossando le sue migliori maschere. Ma l’incontro finisce con verdetto di parità: non muore nessuno. L’etere è salvo, e così anche il cestello dei bit.  Del resto, qualcuno potrebbe dire, non è compito del poeta quello di risolvere, se mai oggigiorno quello di esibirsi.  (Dimenticare Eliot. Ai suoi tempi la filosofia poteva ancora far brillare sotto e sopra la meccanica. Oggi è nervatura, collegamento, fusione in un battito).
Antonio Sagredo indossa maschere nel tentativo di costruirsi un’identità terrestre. Il difficile compito di esserci si svolge cambiando e modificando le proprie metafore: un turbine che roteando finirà col comporre l’ologramma si sé medesimo: poeta che scrive da attore per un non-sé che recitando si disvela. Intoccato.

(12 nov 2016)

QUARTETTI

                                                                “Parea ch’a danza e non a morte  andasse
                                                                                        ciascun de’ vostri o a splendido convito”
                                                                                                 Giacomo Leopardi     

                                                                  Pudesse o instante da festa romper o ten luto                                                               Sophia de Mello Breyer Andresen

               


 Quartetto 
(4 finali… in macerie!)

1

Quello che in me resterà dopo il sangue
invidia la mestizia delle macchine pazienti.
L’ombra che mi dette un vasto oblio e il confine
ha nelle sue mani i ricordi e la mia mente.

Morte, tu mi rapini i versi e il mio furore,
dai voce ai finti simulacri della scienza,
perché soltanto mio è il fine che contesta e disonora
la maschera che cela l’epitaffio e il suo rancore!

fuochi fatui… memorie in fiamme… segni in cenere…
Ha il dubbio contrito del morente il carnefice geloso
perché stampi la sentenza il suo sguardo senza limiti.
Il capezzale è pronto:  son io la preda!

2

Quello che in me perderò dopo il sangue
mi dette un vasto oblio e il confine,
la mestizia delle macchine pazienti,
i ricordi delle mani e la mia mente.

Morte, tu nascondi alla maschera il rancore
di un fine che contesta e disonora della scienza
la ricerca, il suo epitaffio e il mio furore…
e alla mia voce rapini i versi e i finti simulacri.

Gelosa delle memorie in fiamme e delle fatue
ceneri hai il dubbio del carnefice e del morente.
Sul capezzale non hai confini se per una sentenza,
e il tuo sguardo io sono pronto: son io la preda!

3

Quello che in me perderò dopo il sangue
sarà la cenere che contesta una sentenza
e disonora il mio furore e la mia scienza,
l’ombra invidia dell’epitaffio il vasto oblio.

Morte, tu mi hai dato un rancore senza fine,
la mestizia delle macchine pazienti,
un confine e il dubbio di finti simulacri.
Nelle tue mani non ha voce la mia mente.

I versi miei e le mie ceneri senza limiti
stampano i ricordi di un carnefice geloso
che nello sguardo nasconde un vuoto capezzale.
La memoria è approntata: son io la preda!

4

Quello che in me resterà dopo il sangue
disonora l’ombra, il vasto oblio e il vuoto.
La mestizia delle macchine pazienti
stampi l’epitaffio del mio furore senza fine.

Morte, che la scienza dei finti simulacri
contesti il dubbio e il confine del mio rancore!
Che la mia voce sia invidia alla mia mente,
una sentenza nelle mie mani una memoria.

I versi e i ricordi non hanno limiti nel dubbio.
Sono contrito e geloso di un carnefice morente
che nel capezzale ha uno sguardo in fiamme.
La ricerca è approntata: son io la preda!

                                                                       antonio sagredo

Vermicino, 28/05 -10/06    2003


sabato 12 novembre 2016

GRAZIE AI LETTORI DI QUESTO BLOG


INEDITO DA: IN VIAGGIO CON GODOT 
di Mario M. Gabriele

Tornammo alle idee. Fummo un solo centro,
                   un unico soffio di mistral.
Vennero turisti dall'aldilà,
senza fiori e trolley da viaggio.
Mary offrì dolci. Chiese notizie.
Parlò due o tre lingue.
Offrì agli ospiti crema Chantilly.
Poi domandò:
-How long they were there?-.
Un gentleman, già in partenza su vaporetto,
e la luna sotto il braccio:
-Sono anni- disse,- che nella terra riposiamo.
Abbiamo conosciuto  Oxford e Lisbona,
e Potsdamer Platz,
visitato il Museo Castillo di Dalì,
puliti i chiodi del Crocefisso,
sentita la Sinfonia n. 6 di Beethoven
diretta da Janowski-.

Oggi, il mio pensiero è ritrovarti
come la ragazza bruna ritta
vicino a una barca a remi sulla riva del lago.
Hai rimosso le coperte,
tolto il blazer di Crizia,
pure l’aria risale le scale.
E’ tempo di superare il check-in,
fuggire dal cappio che stringe la gola.

Madame Sorius capovolse la clessidra.
Parlò di oroscopi.
Un Tutankhamon alle spalle  
sussurrò che Aprile era vicino.
Per credere al domani
dovrò ascoltare ciò che  mi dice  la primavera.
Il palco all'aperto aveva già il giravento.






venerdì 11 novembre 2016

POESIA AMERICANA - E. L. MASTERS


EDGAR LEE MASTERS
(1868-1950)


Dall' "Antologia di Spoon River"
di Edgar Lee Masters - Traduzione a cura di Fernanda Pivano

LA COLLINA

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l'abulico, l'atletico, il buffone, l'ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso in miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,
la tenera, la semplice, la vociona, l'orgogliosa, la felicie?
Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di un parto illecito,
una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag -
tutt, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono zio Isaac e la zia Emily,
e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva conosciuto
uomini venerabili della Rivoluzione? *
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,
e figlie infrante dalla vita,
e i loro bimbi orfani, piangenti -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dov'è quel vecchio suonatore Jones
che giocò con la vita per tutti i novant'anni,
fronteggiando il nevischio a petto nudo,
bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,
né al denaro, né all'amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,
delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.

* La guerra per l'indipendenza dall'Inghilterra vinta nel 1776, che sotto la guida di George Washington portò alla costituzione degli Stati Uniti.