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venerdì 19 dicembre 2008

POESIA PERUVIANA
CESAR VALLEJO
(1892-1938)

Trilce

III

I grandi
a che ora torneranno?
Batte le sei il cieco Santiago
ed è già molto buio.

Mamma ha detto che non farà tardi.

Aguedita,Nativa,Miguel,
attenti a non andare di là, dove
sono appena passati accascianti dolori
borbottando i loro ricordi,
verso il cortile in silenzio, e dove
le galline che ora vanno a dormire
si sono tanto spaventate.
E’ meglio che ce ne stiamo qui.
Mamma ha detto che non farà tardi.

Non stiamo in pena. Piuttosto guardiamo
le navi, la mia è più bella di tutte!
con cui giuochiamo tutto il santo giorno
senza litigare, da bravi:
son rimaste nella cisterna, già preparate,
cariche di dolci per domani.

Aspettiamo così, ubbidienti – tanto
è inutile- il ritorno e le scuse
dei grandi sempre pronti
a lasciare in casa noi piccoli,
come se pure noi
non potessimo partire.

Aguedita, Nativa, Miguel?
Chiamo cerco a tentoni nel buio.
Non mi avranno lasciato solo
e l’unico rinchiuso sarò io.
Cèsar Vallejo

(Traduzione di Martha Canfield, su “Poesia”, anno V, settembre 1992, n. 54, Crocetti Editore)

Gli araldi neri

Ci sono colpi nella vita, così duri….Non so!
Colpi come dell’odio di Dio, come se dinanzi a loro
la risacca di quanto si è sofferto
divenisse pozzanghera nell’anima….Non so!

Sono pochi; ma sono…. Aprono oscuri solchi
nel volto più feroce, nella schiena più forte.
Forse sono i cavalli di barbari attila
o gli araldi neri che ti manda la Morte.

Sono le cadute a fondo dei Cristi dell’anima,
di una fede adorata che il Destino bestemmia.
Questi colpi cruenti sono il crepitare
di un pane che brucia alla bocca del forno

E l’uomo…. Povero….povero! Gira gli occhi, come
quando sulla spalla una mano ci chiama;
gira gli occhi folli, e tutto il suo vissuto
si raggruma, pozzanghera di colpe, nello sguardo.

Ci sono colpi nella vita, tanto duri….Non so!
César Vallejo
(Traduzione di Marha Canfield, su:”Poesia” anno V, settembre 1992, n.54, Crocetti Editore)

giovedì 18 dicembre 2008

POESIA MODERNISTA SPAGNOLA
PEDRO GIMFERRER
(1945)



Nelle cabine telefoniche
Nelle cabine telefoniche
ci sono misteriose iscrizioni disegnate con il rossetto.
Sono le ultime parole delle dolci ragazze bionde
che con la scollatura insanguinata si rifugiano lì per morire.
Ultima notte sotto il pallido neon, ultimo giorno sotto il sole
allucinante,
strade appena annaffiate con magnolie, fari giallognoli,
delle macchine di pattuglia all’alba.
Ti aspetterò all’una e mezza all’uscita dal cinema –
e a quell’ora è già morta nell’Obitorio quella il cui corpo
era un ramo d’orchidee.
Ferita in sparatorie notturne, incalzata per strada dai
riflettori, schiaffeggiata nei nights clubs,
il mio vero e dolce amore piange tra le mie braccia.
Un ultimo chiarore, il più sottile e nitido,
sembra scivolar fuori dai locali chiusi:
questa luce che trattiene i passanti
e gli parla dolcemente dell’infanzia.
Musiche di altri tempi, canzone al ritmo delle cui vecchie
note conoscemmo una sera Ava Gardner,
ragazza avvolta in un impermeabile chiaro che baciammo
una volta in ascensore, al buio tra un piano e l’altro, e
aveva gli occhi molto azzurri, e parlava sempre a voce
bassa, si chiamava Nelly.
Chiude gli occhi e ascolta il canto delle sirene nella notte
inargentata di annunci luminosi.
La notte ha caldi viali azzurri.
Ombre abbracciano ombre in piscina e bar.
Nell’oscuro cielo combattevano gli astri
quando morì d’amore
ed era come se odorasse lentissimamente
un profumo.
Pedro Gimferrer
(Traduzione di R. Rossi, su”Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito, Feltrinelli, 2000)

venerdì 12 dicembre 2008

POESIA GRECA
TITOS PATRIKIOS
(1928)
Debito
Tra tutta questa morte che è venuta e viene,
guerre, esecuzioni, processi, morte e ancora morte
malattie, fame, fatalità fatali,
amici e nemici assassinati da sicari,
stroncature sistematiche e necrologi pronti,
la vita che vivo è quasi un dono.
Un dono della sorte, se non un furto della vita altrui,
perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto
ma colpí l’altro corpo che si trovò al mio posto.
Cosí, come un dono immeritato, mi fu data la vita,
e tutto il tempo che mi resta
è come se mi fosse stato regalato dai morti
per narrare la loro storia.
Novembre 1957
Traduzione di Nicola Crocetti
Titos Patrikios -La resistenza dei fattia cura di Nicola Crocetti
Crocetti Editore 2007



giovedì 11 dicembre 2008

GIORGIO SEFERIS
(1900-1971)


La casa vicino al mare

Le case che avevo me l’hanno prese. Capitarono
Annate bisestili, guerre disastri deportazioni;
a volte il cacciatore incontra uccelli di passo
a volte non incontra; la caccia
era buona ai tempi miei; quante vittime fecero le pallottole;
gli altri vanno qua e là o impazziscono nei rifugi.

Non parlarmi dell’usignolo né dell’allodola
neppure della piccola cutrettola
che disegna cifre con la coda alla luce;
non so molto di case
so che appartengono ad una razza e nient’altro.
Sono nuove da principio, come bambini
che giocano al giardino con le frange del sole,
ricamano scuri di finestre variopinti e porte
tirate a lustro sullo sfondo della giornata;
quando l’architetto le ha finite esse cambiano,
s’aggrinzano e sorridono oppure fanno dispetti
a chi ci è rimasto a chi è partito
a chi sarebbe tornato potendolo fare
o è sparito ora che il mondo intero
è diventato un grande albergo.

Non so molto di case,
ricordo la loro gioia e la loro tristezza
talvolta, quando mi fermo;
o anche
talvolta, vicino al mare, in camere spoglie
con un letto di ferro senza nulla di mio
fissando il ragno della sera mi figuro
che qualcuno sta per venire, lo vestono
di abeti neri e bianchi e di monili colorati
e intorno a lui parlano a bassa voce dame venerande,
capelli grigi e merletti scuri,
che sta per venire a darmi l’addio;
oppure una donna dalla cintola profonda che batte le ciglia
al ritorno da porti meridionali.
Smirne Rodi Siracusa Alessandria,
da città chiuse come imposte calde,
con profumi di frutti d’oro e di erbe,
mentre sale i gradini senza guardare
quanti s’addormentarono sotto la scala.

Sai, le case fanno dispetti volentieri, se tu le spogli.
Giorgio Seferis

(Traduzione di Mario Vitti da: Kichli, su Poesia, anno III, numero 25, gennaio 1990, Crocetti Editore)


martedì 2 dicembre 2008

CONSTANTINOS KAVAFIS
(1863-1933)


La città


Hai detto:”Per altre terre andrò per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento
dove il mio cuore come un morto sta sepolto
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo intorno,
della mia vita consumata, qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina”.

Non troverai altro luogo, non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
farai capo a questa città. Altrove non sperare,
non c’è nave non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
tu l’hai sciupata su tutta la terra.
Constantinos Kavafis


(traduzione di N. Risi- M. Dalmati, da”Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito, II volume, Feltrinelli, 2008)