STEVEN GRIECO
(1949)
Commento
di Giorgio Linguaglossa
Il
linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi
rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il
nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio.
Interrogando
il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare, e che l’uso del
linguaggio, implicando l’interrogatività
dello spirito, è atto di pensiero. Non era Nietzsche che diceva che
“parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la
mia stessa anima?”. La questione del logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento
interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte alle frasi più
astruse o ai sintagmi più impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde
sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. E nella
risposta esplicativa il poeta introduce sempre una nuova istanza che solleva
nuove domande alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio o
un metalinguaggio. La differenza problematologica (la differenza
domanda/risposta) diventa una differenza stilistica. Abitualmente si intende
per domanda una frase interrogativa, ma questo è già qualcosa di esplicito, non
sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi
domande sono poste in forma assertoria e dialogica, ricercano un interlocutore.
Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di
assertorio. Ma in poesia le cose non sono mai così semplici e distinte; in
poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in
reciproca inimicizia.
Nella
poesia di Steven Grieco è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un
luogo geometrico dal quale si dipana il verso. Ma qui è una geometria
non-euclidea che è in questione. Il verso è la traccia di una ricerca, la via
verso un luogo abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto
lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo la via tangenziale
piuttosto che quella più retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo la versificazione si irradia
dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della
costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici
direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, e più sensi interrotti
costituiscono un senso compiuto, o quantomeno definito, anche se non
definitivo. La poesia si dà per formale marcamento dell’implicito, e procede
nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica
dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La
poesia di Steven Grieco risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito
alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite o con un
ragionamento protocollare. In questa ricerca concentrica ed eccentrica la
poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia,
delinea uno spazio che si apre al tempo, anzi, uno spazio fatto di tempo,
ovvero, un tempo fatto di spazio, che chiude lo spazio entro la propria
irreversibile temporalità. È la marca della temporalità quella che appare alla
lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad un destino, ad un accadere.
Per Steven Grieco, l’esplicito è certo una risposta, ma una risposta becera
perché vuole rispondere attraverso la via più breve utilizzando lo spazio
geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale
della comunicazione, invece che attraverso lo spazio quadri dimensionale della
comunicazione poetica. La sua poesia
abita uno spazio osmotico e
topologico che si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di
simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura, dove c’è
corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi “Sono apparsi in una
sfera / staccata dal pneuma” e accadono in una “sfera” come se fosse un
universo in miniatura che riproduce il macro universo.
Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità.
Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.
Le
domande che occupano il locutore restano tacite, solo ciò che vi risponde
prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il
divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla
lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L'immagine e la
metafora marcano il rotolare dell'io dal centro alla periferia, e viceversa. Se
il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il
Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si
mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in
gioco. Nella poesia intitolata alla “icona di Andrey Rublyov”, non c’è nulla
che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il
discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo simmetrico e
distopico a quello della icona, non si dà come illustrazione o come commento,
non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto allude e illustra un altro
universo analogico e contiguo a quello della icona pur se dissimile e
distopico.
Giorgio Linguaglossa
I
– Троица – Trinità del Vecchio Testamento
Sono apparsi in una sfera
staccata dal pneuma,
adesso guardano
il succedersi dei secoli.
Nevica.
La rozza pianura si sdraia,
stende le braccia all’orizzonte.
Sopra i suoi lamenti e tonfi
il muto giacere è perenne.
Nel profondo, miriadi di tremiti
si scindono, balenano, si spengono.
Ma uno si è avvicinato, crescendo,
è sgorgato inalberandosi fuori dal
tempo
in un silenzio di respiro.
È diventato tre angeli
che rispecchiano
la prima neve sulla pianura
e la sua brutalità.
Nei loro occhi meravigliosi
si muove il patriarca di vento,
stringendo in mano un fascio d’ombre.
1973
Trinità del Vecchio Testamento, icona
di Andrey Rublyov
IL
VIAGGIO
Parte prima
L’erba oscilla nello stagno
il faro preme sul mare annuvolato
un radar ruota sotto le stelle
vuoti i segni, il peso scomparso,
il pensiero sale su per gli occhi
inerti
fra i violenti rami intrecciati
volando verso il grande respiro
Le mani a tastoni il cieco senso
guida
le mani cercando. Un qualcosa di
duro.
Tastano, palpano. Schiocco. Rugosa
superficie, angoli, lati:
profonda volando. Non angoli:
rotondità,
il profondo ritorna di scatto.
Poi afferrano, il senso cresce si
forma
particelle di luce si muovono,
viaggiano verso la mente
– fotogrammi, nero, grigio, più
chiaro –
generano la pura immagine, memoria
di forma – un albero, frondoso nel
vento
Parte
seconda
L’alba cola nel mare grigio dello
spazio
la grande luce uccide le forme.
Seguendo gli occhi, il pensiero
dilaga
nella cieca luminosità,
piatto e profondo.
Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità.
Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.
Fruscia un’ombra, si alza un corpo
senza viso
si alza un corpo correndo
si alza correndo
si alza correndo
In questo luogo, tortura, morte.
Un grido scivola dalla gabbia
i rami della gabbia fremono,
conficcati nel cemento.
Questo luogo squamoso, morso da
grida.
Parte
terza
Lucertola, lucertola, ascoltatrice,
creatrice
di musica, fissa nei tuoi occhi
lucertola della sera, ricordo dal
giardino...
Verso la luce si arrampicano le idee
la coda ancora nel buio.
La memoria apre,
è un puro lago di musica che
s’increspa,
scrolla largo le sue torri d’acqua
si allarga nelle immagini di vento,
scrosciano libri, fogli
fino all’azzurra idea che sale alla
vetta
all’impossibile
creazione
Nello stormire annuvolato di
primavera
si muoveva il patriarca, girandosi
dietro
il vetro di foglie stupite.
Era assorto in qualcosa; o forse
a qualcosa di scordato volgeva la sua
attenzione.
Parte
quarta
Voci sommesse, bisbigli: da qualche
parte lussureggia una vasta
zona di tremiti, le grandezze
stellari creano oscurità,
si schiude un silenzio febbrile
percorso
da piante e liane di suono
il pensiero spumeggia e sospira,
si spande e rispande
Un attimo rotto – un gesto, guardando
stupito:
qualcosa scende giù,
la luce irrequieta va oscillando,
mutando
Presagio. Fresco vento. Pioggia.
Salute!
Nel ricordo aleggia una figura
lievissima:
la casa presso il bosco, due gradini
fino alla porta,
s’inginocchia piano davanti al
patriarca,
scordata figura che forse avanzava,
tendeva
la mano, avvicinandosi con lo sguardo
ad un tempo più remoto
Volando sotto l’alba verso il mare di
nuvole,
calando, un vuoto d’aria, risalendo,
di nuovo calando, la memoria e le
idee fuggivano
nel sonno incombente:
il faro scrutava cieco il mare
annuvolato
il pensiero combatteva il sonno,
una profonda tristezza gravava sul
petto.
6 October 1976
ON HIS 25TH BIRTHDAY
Andandomene
così, nell’
improvviso riquadro di fari accesi
balza un’ombra al muro notturno
urta nella luce
cercando di ricordare
un cane travolto sull’autostrada di
notte
come attraversare,
le auto che corrono,
come riprendere il corpo
portarlo in salvo fra i fasci
luminosi
(il cespuglio emetteva brani di
musica
un trasognato uccello s’involò,
da tempo una tristezza pungente
era scesa sulla lastra-ricordo)
come attraversare le immense corsie
le auto che passano volando
il cane scomparso nel buio, balzando
su
più morto nelle ruote di luce
Ora salgono schegge frantumi di
poesia
un’immagine si apre franando
inghiottita dalla lente che stringe
raccolti in un punto, gli anni
spersi,
funi sgomitolate, ruotano al cielo
stellato
13
novembre, 1974
MAHLER
irrompe una luce di trombe cadendo
un’onda di luce dove salgono
scalano sfere di note e trombe
spaventate
stramazza per terra rabbuiata
nella musica che freme disfatta,
inutili smanie, immagini infrante
un rumore si storce salendo si
schiude
si staglia un arco vibrando si apre
volando
ombre barcollano nel vento notturno
si spegne il mare scosse di tramonto
impennate, tonfi, raffiche, ricordi
di voci
scartano allucinate, pulsano forme
d’ombra
irrequiete oscillano nel profondo
dove crescono idee multiformi
s’intrecciano infiniti rami pensanti
salgono gracili piante aprendosi
e tornano nel violento schema
nel nascere che distrugge
13
marzo 1975
POEMS
FOR MARC METRAUX IV
Sprigiona il musicista insegue
un purissimo suono
nella perfezione del vuoto
sprigiona, segue in alto la chiave
che accorda gli archi di luce
fuggono gli strali curvandosi
si spaccano, si fissano con fremiti
e le stelle pulsano nel buio
si forma una volta di musica
1975
RONDINAIA: PRIMA DEL VIAGGIO
Esili valli, dirupi,
paesaggio venato di pioggia
mi sono svegliato
ascoltando, aprendo
gli occhi:
si è schiusa nel corpo
una profonda chiarezza
sveglio al cielo annuvolato,
discendo piano tra rivoli e fruscii,
goccia capovolta
calo
dentro lo stelo
universo riflesso
che racchiude tutto in sé
fino allo specchio d’acqua laggiù –
immobilità turbata
da un singolo ramo annerito.
Late winter 1976
SAWAI MADHEPOR (I)
Da una pellicola che gira corrono
antilopi nel bosco
e uccelli salgono nel cielo e
riscendono. Lago.
Non vivendo, vivevano: non specchi né
ombre.
Ma di questo lei s’imprimeva, e
riflettendo,
era specchio d’ogni forma, ne era
ombra.
Gira la pellicola, sparpagliava nel
bosco gli animali,
mormorìo di pioggia sull’acqua, e
grida
di grida di vita. Mai più veloce, mai
più lenta,
gira sbiecando la realtà, srotolando
in terra
l’immagine (che ordinata la bobina
avvolge).
Scimmiotta nel riflesso quel tempo
sublime,
era galoppo nel galoppo,
pavoneggiarsi di voli
che tutto scordando spegnevano la
tromba d’oro.
Girava l’immagine che non è,
sognando.
Si avvolge la pellicola che si
srotolava in terra.
gennaio
1980
МЕСЯЦ
- MESE
Luna calante d’inverno. Uomini, animali,
piante
si contraggono, accartocciandosi nel
suo decrescere.
Dentro qualche velo di marzo.
Confuso stringere, confu
sa rotondità, confu
Di ieri e di domani le incontabili
lune
non furono, non saranno. Sono. Suono
sferico, cinereo,
spicchiando a levante o ponente.
Forma-sempre.
Ma adesso declina la luna. Adesso
crescita e pienezza staranno
nel suo decrescere.
Nudi rami,
sterpi
tonda contrazione
15
marzo, 1980
BOMBAY, SERA (1)
Non cielo, non luce profonda o
nuvole.
Una brezza spingeva dal mare, i
palazzi
schiamazzavano confusi in polvere
d’ombra.
In alto, schiusa luce non era cielo,
non nuvole.
Sventolando, le cose morivano le une
nell’altre
perdevano ogni senso nel venire della
notte.
Non pronto a morire, mai pronto, il
giorno
moriva miracoloso: sbriciolava ombra
di palazzi
fuggiva in alto, non era cielo, non
luce, non nuvole.
Calando, scendendo, si cullava il
giorno morente.
Era mattino, pomeriggio, tramonto.
Era notte.
1980
COMMENTO DI MARIO M. GABRIELE
Quando Steven Grieco scrive versi, fa uso della
maggior parte delle categorie retoriche,
all’interno delle quali il transfert
psicolinguistico diventa traccia di un percorso con più segnaletiche. Il
reportage di determinati eventi, è correlato al pensiero argomentante, che cela il doppio fondo di
captazione interna ed esterna, da cui si può risalire in superficie, facendo ricorso a scale di proiezione, che costituiscono l’essenza
stessa del fare o scrivere versi. Da qui il significato di personalità poetica, determinato da un rapporto inter-relazionale con la
realtà. Si tratta, in altri termini, di gestire la struttura linguistica portandola verso una nuova Forma incontaminata, sorretta da una
visione dinamica del pensiero e
dell’inconscio. Del resto tutto ciò che
ha portato la poesia ad essere principio del piacere, e per dirla con Barthes,
del piacere del testo, è lo specchio
di rifrazione che coinvolge il lettore e lo stesso poeta, senza l’allegorizzazione
dell’io che non è mai ideale nella commutazione espressiva. La non appartenenza ad una specifica classe
linguistica, già omologata, consente a Steven Grieco di inserirsi in un’area che la
critica definisce “modernista ” e che
non si identifica nella
post-storia della poesia del secondo Novecento.