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martedì 22 settembre 2015

POESIA SVIZZERA

STEVEN GRIECO
(1949)

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio.
Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare, e che l’uso del linguaggio, implicando l’interrogatività  dello spirito, è atto di pensiero. Non era Nietzsche che diceva che “parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?”. La questione del logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte alle frasi più astruse o ai sintagmi più impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. E nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre una nuova istanza che solleva nuove domande alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio o un metalinguaggio. La differenza problematologica (la differenza domanda/risposta) diventa una differenza stilistica. Abitualmente si intende per domanda una frase interrogativa, ma questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica, ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Ma in poesia le cose non sono mai così semplici e distinte; in poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in reciproca inimicizia.
Nella poesia di Steven Grieco è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo geometrico dal quale si dipana il verso. Ma qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il verso è la traccia di una ricerca, la via verso un luogo abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo la via tangenziale piuttosto che quella più retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, e più sensi interrotti costituiscono un senso compiuto, o quantomeno definito, anche se non definitivo. La poesia si dà per formale marcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite o con un ragionamento protocollare. In questa ricerca concentrica ed eccentrica la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea uno spazio che si apre al tempo, anzi, uno spazio fatto di tempo, ovvero, un tempo fatto di spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile temporalità. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad un destino, ad un accadere. Per Steven Grieco, l’esplicito è certo una risposta, ma una risposta becera perché vuole rispondere attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione, invece che attraverso lo spazio quadri dimensionale della comunicazione poetica. La sua poesia  abita  uno spazio osmotico e topologico che si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi “Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma” e accadono in una “sfera” come se fosse un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Le domande che occupano il locutore restano tacite, solo ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L'immagine e la metafora marcano il rotolare dell'io dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla “icona di Andrey Rublyov”, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo simmetrico e distopico a quello della icona, non si dà come illustrazione o come commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto allude e illustra un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se dissimile e distopico.

Giorgio Linguaglossa

I – Троица – Trinità del Vecchio Testamento

Sono apparsi in una sfera
staccata dal pneuma,
adesso guardano
il succedersi dei secoli.

Nevica.
La rozza pianura si sdraia,
stende le braccia all’orizzonte.
Sopra i suoi lamenti e tonfi
il muto giacere è perenne.

Nel profondo, miriadi di tremiti
si scindono, balenano, si spengono.
Ma uno si è avvicinato, crescendo,
è sgorgato inalberandosi fuori dal tempo
in un silenzio di respiro.

È diventato tre angeli
che rispecchiano
la prima neve sulla pianura
e la sua brutalità.

Nei loro occhi meravigliosi
si muove il patriarca di vento,
stringendo in mano un fascio d’ombre.

1973


            Trinità del Vecchio Testamento, icona di Andrey Rublyov

                           IL VIAGGIO

                              Parte prima

L’erba oscilla nello stagno
il faro preme sul mare annuvolato
un radar ruota sotto le stelle
vuoti i segni, il peso scomparso,
il pensiero sale su per gli occhi inerti
fra i violenti rami intrecciati
volando verso il grande respiro

Le mani a tastoni il cieco senso guida
le mani cercando. Un qualcosa di duro.
Tastano, palpano. Schiocco. Rugosa superficie, angoli, lati:
profonda volando. Non angoli: rotondità,
il profondo ritorna di scatto.
Poi afferrano, il senso cresce si forma
particelle di luce si muovono, viaggiano verso la mente
– fotogrammi, nero, grigio, più chiaro –
generano la pura immagine, memoria
di forma – un albero, frondoso nel vento

                                   Parte seconda

L’alba cola nel mare grigio dello spazio
la grande luce uccide le forme.
Seguendo gli occhi, il pensiero dilaga
nella cieca luminosità,
piatto e profondo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Fruscia un’ombra, si alza un corpo senza viso
si alza un corpo correndo

si alza correndo                              

si alza correndo                             

In questo luogo, tortura, morte.
Un grido scivola dalla gabbia
i rami della gabbia fremono,
conficcati nel cemento.

Questo luogo squamoso, morso da grida.

                                  Parte terza

Lucertola, lucertola, ascoltatrice, creatrice
di musica, fissa nei tuoi occhi

lucertola della sera, ricordo dal giardino...

Verso la luce si arrampicano le idee
la coda ancora nel buio.

La memoria apre,
è un puro lago di musica che s’increspa,
scrolla largo le sue torri d’acqua
si allarga nelle immagini di vento,
scrosciano libri, fogli
fino all’azzurra idea che sale alla vetta
all’impossibile
creazione

Nello stormire annuvolato di primavera
si muoveva il patriarca, girandosi dietro
il vetro di foglie stupite.

Era assorto in qualcosa; o forse
a qualcosa di scordato volgeva la sua attenzione.

                                     Parte quarta

Voci sommesse, bisbigli: da qualche parte lussureggia una vasta
zona di tremiti, le grandezze stellari creano oscurità,
si schiude un silenzio febbrile percorso
da piante e liane di suono

il pensiero spumeggia e sospira,
si spande e rispande

Un attimo rotto – un gesto, guardando stupito:
qualcosa scende giù,
la luce irrequieta va oscillando, mutando

Presagio. Fresco vento. Pioggia. Salute!

Nel ricordo aleggia una figura lievissima:
la casa presso il bosco, due gradini fino alla porta,
s’inginocchia piano davanti al patriarca,
scordata figura che forse avanzava, tendeva
la mano, avvicinandosi con lo sguardo
ad un tempo più remoto


Volando sotto l’alba verso il mare di nuvole,
calando, un vuoto d’aria, risalendo,
di nuovo calando, la memoria e le idee fuggivano
nel sonno incombente:

il faro scrutava cieco il mare annuvolato

il pensiero combatteva il sonno,
una profonda tristezza gravava sul petto.

6 October 1976



          
ON HIS 25TH BIRTHDAY

Andandomene così, nell’
improvviso riquadro di fari accesi
balza un’ombra al muro notturno
urta nella luce
cercando di ricordare

un cane travolto sull’autostrada di notte
come attraversare, le auto che corrono,
come riprendere il corpo
portarlo in salvo fra i fasci luminosi

(il cespuglio emetteva brani di musica
un trasognato uccello s’involò,
da tempo una tristezza pungente
era scesa sulla lastra-ricordo)

come attraversare le immense corsie
le auto che passano volando
il cane scomparso nel buio, balzando su
più morto nelle ruote di luce

Ora salgono schegge frantumi di poesia
un’immagine si apre franando
inghiottita dalla lente che stringe

raccolti in un punto, gli anni spersi,
funi sgomitolate, ruotano al cielo stellato

13 novembre, 1974

                                 MAHLER

irrompe una luce di trombe cadendo
un’onda di luce dove salgono
scalano sfere di note e trombe spaventate
stramazza per terra rabbuiata

nella musica che freme disfatta,
inutili smanie, immagini infrante
un rumore si storce salendo si schiude
si staglia un arco vibrando si apre volando

ombre barcollano nel vento notturno
si spegne il mare scosse di tramonto
impennate, tonfi, raffiche, ricordi di voci
scartano allucinate, pulsano forme d’ombra
irrequiete oscillano nel profondo
dove crescono idee multiformi
s’intrecciano infiniti rami pensanti
salgono gracili piante aprendosi
e tornano nel violento schema
nel nascere che distrugge

13 marzo 1975

       POEMS FOR MARC METRAUX IV

Sprigiona il musicista insegue
un purissimo suono
nella perfezione del vuoto

sprigiona, segue in alto la chiave
che accorda gli archi di luce

fuggono gli strali curvandosi
si spaccano, si fissano con fremiti

e le stelle pulsano nel buio
si forma una volta di musica

1975

             RONDINAIA: PRIMA DEL VIAGGIO

Esili valli, dirupi,
paesaggio venato di pioggia

mi sono svegliato
ascoltando, aprendo
gli occhi:
                si è schiusa nel corpo
una profonda chiarezza

sveglio al cielo annuvolato,
discendo piano tra rivoli e fruscii,
goccia capovolta
calo
          dentro lo stelo

universo riflesso
che racchiude tutto in sé

fino allo specchio d’acqua laggiù –
immobilità turbata
da un singolo ramo annerito.

Late winter 1976



                     

                    SAWAI MADHEPOR (I)

Da una pellicola che gira corrono antilopi nel bosco
e uccelli salgono nel cielo e riscendono. Lago.
Non vivendo, vivevano: non specchi né ombre.
Ma di questo lei s’imprimeva, e riflettendo,
era specchio d’ogni forma, ne era ombra.

Gira la pellicola, sparpagliava nel bosco gli animali,
mormorìo di pioggia sull’acqua, e grida
di grida di vita. Mai più veloce, mai più lenta,
gira sbiecando la realtà, srotolando in terra
l’immagine (che ordinata la bobina avvolge).

Scimmiotta nel riflesso quel tempo sublime,
era galoppo nel galoppo, pavoneggiarsi di voli
che tutto scordando spegnevano la tromba d’oro.
Girava l’immagine che non è, sognando.
Si avvolge la pellicola che si srotolava in terra.

gennaio 1980

                                   МЕСЯЦ  -  MESE

           Luna calante d’inverno. Uomini, animali, piante
si contraggono, accartocciandosi nel suo decrescere.

Dentro qualche velo di marzo.
                                                   Confuso stringere, confu
sa rotondità, confu

Di ieri e di domani le incontabili lune
non furono, non saranno. Sono. Suono sferico, cinereo,
spicchiando a levante o ponente. Forma-sempre.

Ma adesso declina la luna. Adesso crescita e pienezza staranno
nel suo decrescere.
                                 Nudi rami, sterpi
                                                                tonda contrazione

15 marzo, 1980

                              BOMBAY, SERA (1)

Non cielo, non luce profonda o nuvole.
Una brezza spingeva dal mare, i palazzi
schiamazzavano confusi in polvere d’ombra.
In alto, schiusa luce non era cielo, non nuvole.

Sventolando, le cose morivano le une nell’altre
perdevano ogni senso nel venire della notte.

Non pronto a morire, mai pronto, il giorno
moriva miracoloso: sbriciolava ombra di palazzi
fuggiva in alto, non era cielo, non luce, non nuvole.

Calando, scendendo, si cullava il giorno morente.
Era mattino, pomeriggio, tramonto. Era notte.

1980

COMMENTO DI MARIO M. GABRIELE

Quando  Steven Grieco scrive versi, fa uso della maggior parte  delle categorie retoriche, all’interno delle quali il transfert psicolinguistico diventa traccia di un percorso con più segnaletiche. Il reportage di determinati  eventi, è  correlato al pensiero  argomentante, che cela il doppio fondo di captazione interna ed esterna, da cui si può risalire in superficie,  facendo ricorso  a  scale  di proiezione, che costituiscono l’essenza stessa del fare o scrivere versi. Da qui il  significato di personalità poetica, determinato  da un rapporto inter-relazionale con la realtà. Si tratta, in altri termini, di gestire  la struttura linguistica portandola verso una  nuova Forma incontaminata, sorretta da una visione dinamica del pensiero  e dell’inconscio.  Del resto tutto ciò che ha portato la poesia ad essere principio del piacere, e per dirla con Barthes, del piacere del testo, è lo specchio di rifrazione che coinvolge il lettore e lo stesso poeta, senza l’allegorizzazione dell’io che non è mai ideale nella commutazione espressiva.  La non appartenenza ad una specifica classe linguistica, già omologata, consente a  Steven Grieco di inserirsi in un’area che la critica definisce “modernista ” e che  non si identifica  nella post-storia della poesia del secondo Novecento.


giovedì 17 settembre 2015

POESIA AUSTRIACA


Friederike Mairòcher
(1924)
Come mi chiami?
Qual è il nome che mi dai,
fiumicello sotto la terra.
Quand’io chiudo gli occhi
posso tracciare il tuo profilo
fiumicello sotto la terra.
Io ti ricalco:
sono la tua mente sono il tuo cuore
in venti dita io vivo.
Forse han per questo le parole
tra noi smesso di andare e venire
quando siamo soli
 forse abbraccio me stessa
quand’io ti abbraccio
forse mi sono disgiunta:
no, fiumicello sotto la terra,
questo non è più amore
solo compiuta dissoluzione.

(da:  Poesia  anno V luglio-agosto 1982 n. 53, traduzione di Luigi Reitani)