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mercoledì 29 ottobre 2008

POESIA PORTOGHESE
FERNANDO ANTONIO NOGUEIRA PESSOA
(1888-1935)


Sonetto già antico


Senti Daisy quando morirò, ti chiedo
di dire ai miei amici lì a Londra,
anche se non lo senti, che nascondi
il grande dolore per la mia morte. Andrai

da Londra a York, dove sei nata (lo dici tu….
ma io non credo mai a ciò che dici),
e racconterai a quel povero ragazzino
che mi ha dato tante ore felici,

che sono morto, anche se non lo saprai….
Perfino a lui, che tanto ho creduto di amare,
non importerà nulla….Poi vai a dare

la notizia a quella strana Cecily
che credeva che un giorno sarei stato grande….
Accidenti alla vita e a chi la vive!
Fernando Antonio Nogueira Pessoa

(Traduzione di A Tabucchi, da “Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito, II volume, Feltrinelli 2000)
POESIA ISPANOAMERICANA
GONZALO ROJAS
(1917)




Sublime oscurità

Stanotte ti ho toccato e ti ho sentito
senza che la mia mano si perdesse più in là della mia mano,
senza che mi sfuggissero il corpo e l’udito
in modo quasi umano
ti ho sentito.

Palpitante, non so se come sangue o come nube,
errante,
quasi in punta di piedi, per la casa, oscurità crescente,
oscurità calante, corresti scintillante.

Corresti per la mia casa di legno,
apristi le finestre
e udii il tuo palpito tutta la notte,
progenie degli abissi, silenziosa
guerriera, così terribile, così sublime,
che tutto ciò che esiste, per me, ora,
senza il tuo fuoco è semplice chimera.
Gonzalo Rojas

(Traduzione di Cristina Sparagana, Poesia, anno XVI, marzo 2003, n. 170, Crocetti Editore)


PABLO NERUDA
(1904 1973)


VI

…………………………….
E ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno nella Patagonia, dove
il vento fa vibrare
le stalle e spruzza ghiaccio
l’Oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere…..
……………………………
Io qui non vengo a risolvere nulla.

Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.
Pablo Neruda

(Traduzione di S. Quasimodo, da: “Si svegli il taglialegna”, La poesia italiana contemporanea, di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, Firenze, 1972)
JORGE LUIS BORGES
(1899 1936)


VANILOQUIO

La città vive in me come un poema
che non m’è riuscito di fissare in parole.
Da un lato v’è la eccezione di alcuni versi;
dall’altro, accantonandoli,
la vita precorre il tempo,
come terrore
che usurpa tutta l’anima.
Ci sono sempre altri crepuscoli, altra gloria;
io provo il logorarsi dello specchio
che non si placa in una sola immagine.
A che questa ostinazione
di configgere con pena un chiaro verso
eretto come lancia sopra il tempo,
se la mia strada, la mia dimora,
spezzatrici di simboli verbali,
mi grideranno domani la loro novità?
Nuove
come bocca non baciata.
Jorge Luis Borges

(Traduzione di Umberto Cianciòlo da: Carme presunto e altre poesie di Jorge Luis Borges, Mondadori, 1958)
POESIA SPAGNOLA
MARIA do ROSARIO PEDREIRA
(1959)


Lasciai cadere il tempo sul tuo nome,

come si adagia il marmo sulla terra e

l’acqua si sparge sulle braci. Mi vestii

di lutto come le donne che disfano

le culle vuote da tanto le guardano; e vidi

il sangue scendere finalmente sulla ferita,

come la cera che si rapprende sul palmo della mano

prima di perdersi nelle dita in polvere. Se

ti dimenticai, fu perché volli qualcuno che mi

chiamasse, un corpo che fosse un altro sul mio

corpo, una voce offerta per la mattina. Ma

niente, ma nessuno. Se il tempo non si

fosse abbattuto sul tuo nome, avrei potuto

almeno ora ricordarti – poiché non c’è

lapide senza corpo né cenere che non abbia

arso. E la casa è oggi più fredda che

mai: lasciai passare il tempo sul tuo

nome, e non c’è focolare, non c’è nido, non ci sono

figli che si possano perdere da me, né

candele per riempire di memoria questo silenzio.

Traduzione di Mirella Abriani
Poesia n. 236 Marzo 2009 Maria do Rosário Pedreira - Tutti i nomi dell’amorea cura di Mirella Abrianie Fernando Pinto do Amaral
Crocetti Editore 2009


JAIME GIL de BIEDMA

(1929 - 1990)




De senectude

Non è il mio, questo tempo.
E pur se così mio è questo palpitare di uccelli,
di fuori nel giardino,
la sua profusione in foglie piccole, che mi rimescolano
come intimazioni
non dice più le stesse cose.

Mi sveglio
come chi sente un respirare
osceno. E’ che fa giorno.

Fa un nuovo giorno che non sarò invitato
neppure a un attimo felice. Neppure a un pentimento
che per non essere antico
-ah, Seigneur, donnez moi la force et le courage!-
m’inviti davvero a pentirmi
con qualche avanzo di sincerità.
E nulla temo più delle mie cure.

La vita la ricordo, ma dov’è
Iaime Gil de Biedma

(Traduzione di Mariapia Lamberti da:”Hora de Poesia”, n. 8 (marzo-aprile 1980) Poesia, anno VI, febbraio 1993, n. 59, Crocetti Editore)



ALAIDE FOPPA

(1914-Desaparecida)



Esilio


La mia vita
È un esilio senza ritorno.
Non ebbe casa
la mia errante infanzia perduta,
non ha terra
il mio esilio.
La mia vita navigò
su vascelli di nostalgia.
Vissi sulle rive del mare
guardando l’orizzonte
verso la mia casa sconosciuta
pensavo salpare un giorno
e il presente viaggio
mi lasciò ad altro porto di speranza.
E’ l’amore, forse,
la mia ultima baia?
Oh braccia che mi fecero prigioniera,
senza darmi riparo…
Anche dal crudele abbraccio
volli sfuggire.
Oh braccia fuggitive
che invano cercarono le mie mani….
Incessante fuga
e desiderio incessante
l’amore non è porto sicuro.
E non c’è terra promessa
per la mia speranza.
Alaide Foppa


(Traduzione di Mario Sigfrido Metalli, su “Poetica” anno 1, n. 1 1989, Edisud)

“Alaide Foppa nacque a Barcellona nel 1914 da padre argentino di origine iotaliana e da madre guatemalteca. Alaide fu sequestrata durante uno dei suoi viaggi che faceva per raggiungere il marito sotto la presidenza del generale Lucas, e da quel giorno”desaparecida” senza lasciare traccia.”


FEDERICO GARCIA LORCA

(1898 - 1936)




Compianto d'Ignazio Sànchez Mejìas


IL SANGUE SPARSO



Non voglio vederlo!
Dille alla luna che venga,
Non voglio vedere il sangue
D’Ignazio sopra l’arena

Non voglio vederlo!

La luna di piena luce.
Cavallo di calme nubi,
E stadio grigio del sogno
Con salici sui recinti.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.Avvisate i gelsomini
Di minuscolo candore!

Non voglio vederlo!

La vacca del vecchio mondo
Passava la triste lingua
Sopra un muso di sangue
Versato sopra l’arena,
Ed i tori di Guisando,
Quasi morte e quasi pietra,
Mugghiaron come due secoli
Stanchi di batter la terra.
No.

Non voglio vederlo!

Pei sedili sale Ignazio,
Tutta la sua morte a spalla.
Andava in cerca dell’alba,
E l’alba non esisteva.
Cerca il suo fermo profilo ,
E il sogno lo disorienta.
Il suo bel corpo cercava
E trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentire il getto
Che sempre più si spegne,
Quel getto che le tribune
Illumina e si riversa
Sul fustagno e sul cuoio
Della folla sitibonda.
Chi mi grida d’affacciarmi!
Non ditemi di vederlo!

Non si chiusero i suoi occhi
Nelle corna mirando,
Ma le terribili madri
Sollevarono la testa
Come per gli allevamenti
Vento di voci segrete,
Urlanti ai tori celesti,
Mandriani di pallida nebbia.
Non principe di Siviglia
Potrebbe essergli uguale
Né spada come la sua
Né cuore così sincero.
Come un fiume di leoni
Il suo stupendo vigore;
E come un torso di marmo
La sua precisa saggezza
Aura di Roma andalusa
Gli dorava la testa
Dove il suo riso era un nardo
Di sale e d’intelligenza.

Che gran torero in arena!
Che buon montanaro ai monti!
Quanto mite con le spighe!
Quanto duro con gli sproni!
Quanto dolce con la brina!
Che bagliore nella fiera!
Quanto tremendo con l’ultime
Banderillas della tenebra!

Ma ora dorme in eterno.
Ora i licheni e l’erba
Schiudon con dita sicure
Il fiore del suo teschio.
Ed ora il sangue suo muove cantando:
Cantando per maremme e praterie,
Sdrucciolando su corna intirizzite;
Esamine vacilla nella nebbia,
In migliaia di zoccoli inciampando
Come una lunga, oscura, triste lingua,
Per formare una pozza d’agonia
Presso il Guadalquivir del firmamento.
O bianco muro di Spagna!
O nero toro di pena!
O sangue duro d’Ignazio!
O usignuol delle sue vene!
No.

Non voglio vederlo!

Un calice non v’è che lo contenga,
Non vi sono rondinelle che lo bevano,
Non v’è brina di luce che lo geli,
Non di gigli v’è canto né diluvio,
Non cristallo che lo copra d’argento.
No.

Non voglio vederlo!
Federico Carcia Lorca
(Traduzione di O.Macrì, su” La Poesia Italiana Contemporanea” di G. Cavallini e L. MarguatiEditore Bulgarini, 1972)


Adelina a passeggio

Il mare non ha aranci,
e senz’amore è Siviglia.
Bruna, che luce di fuoco.
Prestami il tuo parasole.

Mi farà verde la faccia
-sugo di cedro e limone-
le tue parole –pesciolini-
nuoteranno intorno.

Il mare non ha aranci.
Ahi, amore.
E senz’amore è Siviglia.
Federico Garcia Lorca

(Traduzione di C. Bo, da “La poesia italiana contemporanea” di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, 1972)

JUAN RAMON JIMENEZ
(1881 1958)


Il Viaggio definitivo

….. E me ne andrò. E resteranno gli uccelli
a cantare;
e resterà il mio giardino, col suo verde albero
e col suo pozzo bianco.
Tutte le sere, il cielo sarà azzurro e placido,
e suoneranno, come suonano stasera,
le campane del campanile.
Moriranno quelli che mi amarono;
e il paese si rinnoverà di gente ogni anno;
e nell’angolo, là, del mio giardino fiorito e incalcinato,
vagherà, nostalgico, il mio spirito…..
E me ne andrò, e sarò solo, senza casa, senza albero
verde, senza pozzo bianco,
senza cielo azzurro e placido….
E resteranno gli uccelli a cantare.
Juan Ramon Jimenez

(Traduzione di M. Socrate, da “La poesia italiana contemporanea” di G. Cavallini e L. Marguati,
Editore Bulgarini, 1972)

martedì 28 ottobre 2008

POESIA RUSSA
DIMITRIJ GRIGOR’EV
(1960-1996)



La sedicesima linea


Sulla sedicesima linea c’è
un grossista, del vino mediocre
vendono birra, riparano pneumatici
sulla sedicesima linea
da tempo
è primavera
io so le linee non s’incontrano
e la sedicesima è solo una
essa
nel mio libriccino
è tracciata a mano
ecco Smolenka, la Neva
il resto
non importa
una traccia del dito o del fiume
l’inchiostro si è spalmato
le parole vicine
non si leggono più

sulla sedicesima linea
giri con una bicicletta
azzurra come il cielo estivo
accanto a uno con il cane
accanto ai gatti primaverili
impalato come un albero
chiedo aspetta un pochino
Dimitrij Grigor’ev

(Traduzione di Paolo Galvagni, “Poesia”, anno XV, Gennaio 2002 n. 157, Crocetti Editore)




PERESTROJKA POESIA
MICHAIL N. AJZENBERG
(1948)


Grida da lontano. Il deserto della stazione.
Che la vista almeno non risusciti la speranza in un mutamento
di quella noia che riecheggia. Più forte, ancora più forte
lo schiamazzo per strada. Il trepestio sulla scala.
I topi si gettano
lesti fra le gambe – foglie, brandelli –
come una tribù assatanata.
Il sale (ancora più salato)
a fiocchi sulle pareti. Calchi rigati dall’acqua
di un mare torbido. Berretti di pelo,
cappelli neri galleggiano sulle onde.
Un firmamento d’aria muffita
Densa di fumo.

Se sono la noia o la morte
ad essere disegnate così
non è certo un piacere
ma una brutta copia, uno stenogramma….
La polvere ha preso a danzare
ai crocicchi delle corde volanti,
nell’arcata vuota.
Michail N. Ajzenberg
(da: Pjattyi Sbornik (1982) – Quinta raccolta -


(Traduzione di Gario Zappi, su “Poetica”, anno 1, n. 1, 1989, Edisud)



ANDREJ SINJAVSKIJ


(1925-1997)





1

Mi restano da vivere
Solo quattordici ore.
Cammino per la cella,
Vado avanti e indietro.

Ed ecco nascere dal buio
La mia diletta.
La blusa tutta insanguinata,
E un fetore di sangue.
Dimmi, che cosa è successo?

Presto, prima che ti diano la caccia:
Son venuta a prenderti!
Fuori ci aspettano i cavalli
E un’azzurra penombra.

2

Aveva diciottanni. A tutti diceva di no.
Invano i ragazzi s’innamoravano di lei.
Non donava un sorriso, non amava nessuno,
E guardava sempre tutti con disprezzo.

(E così, a forza di guardare…)

Ma una volta, a un ballo, con passi misurati,
Le si accostò un ragazzo vestito come si deve,
Un tipo superstizioso del mondo della mala,
Le fece un inchino e la trascinò in un tango.

E la bella Nina, la figlia del procuratore,
Cadde completamente in sua balia;
Coi suoi occhi esperti il ladro la studiava
Senza abbassar lo sguardo come un asso di briscola.

Che fuoco s’era acceso, e che dolcezza!
Giacché l’amore del ladro è breve, ma intenso.
Non vuole niente, non desidera niente,
Solo il corpo della bella, solo un po’ di vodka.

Ma la sorte del bandito è rapida a mutare:
Ora in prigione, ora libero, ora in un lager….
E un bel martedì il nostro superstizioso
Si fece beccare alla stazione, e con lui la ragazza.

Ecco alla tavola rossa, nella sala fumosa,
Beve acqua il procuratore, un bicchiere dopo l’altro.
E sulla nera panca sta sua figlia Nina
E con lei un furfante mai visto prima.

Se ne andò via in silenzio, altera come sempre;
Quando il bandito chiese di salutare sua moglie,
E le loro labbra si fusero in un unico bacio,
Solo il padre-procuratore aveva una lacrima agli occhi
Andrej Sinjavskij

(Traduzione dal russo di Riccardo Gluckner, da “Una voce dal coro” , Garzanti, 1973)


ARSENIJ TARKOVSKIJ

(1907 - 1989)



Destinato ad uno solo, come camera
d’albergo – con una sola finestra, un solo
letto e un solo tavolo, vivevo
nel mondo e la mia anima
si era ambientata al corpo mio. Così avveniva:
guardava alla finestra, rimaneva a letto,
si sedeva sul tavolo . la penna faceva scricchiolare,
creando il suo semplice lavoro.

E dietro la finestra andavano i cittadini,
i camion strombazzavano la pioggia strepitava,
fischiava la polizia,
sorgeva il sole, arrivava il giorno,
sorgevano le stelle, arrivava la notte,
e il cielo ora schiariva ora imbruniva.

E la città ho amato come un forestiero,
ed ero pieno di impressioni felici,
e il nuovo amavo per la novità,
il quotidiano per la quotidianità,
e come questo mondo a quattro dimensioni,
non mi è rimast6o altro che il futuro.

Ma è terminata la mia solitudine
nella camera mia da quindici rubli
si è stabilito un altro pigionante solo,
e una nuova anima ha iniziato a riprodursi,
come cromosoma nel vetrino.
Afflitto nel mio spazio troppo stretto
pure mi facevo largo, come anche la città
sorgeva da borgate accatastate.

Io
un ponte ho gettato sul piccolo fiume.
A me
mancavano operai. Abbiamo impolverato
col cemento, rombato coi mattoni
la pelle collinosa della terra,
scorticato fino all’osso coi bulldozer.

Lode a colui che ha perso se stesso!
Lode a te, mia vita, privata di vita!
Lode a te, benedetto tensore,
lode a te, lingua d’altri tempi!
Passano cent’anni e non la comprendiamo più,
l’ho davanti nello Slovo d’Igor,
m’inchino a te, vinto dai tartari:
siamo mille sulla riva del Kajal,
la lancia è confitta sull’erba,
e sulla lancia
l’aquila della steppa monda le piume canute.

Arsenij Tarkowskij
(Traduzione di Amedeo Anelli e Stefania Sini da “La steppa” Edizioni Via del vento”1998)
IOSIF ALEKSANDROVIC BRODSKIJ
(1940 1996)



II

Una lunga alba. Il marmo freddo e nudo come le anche
della nuova Susanna, al momento di entrare nell’acqua,
si sente il ronzio delle cineprese
di nuovi vecchioni. Due o tre grassi piccioni
si staccano da un capitello e in volo
si trasformano in gabbiani è ciò
che si paga a volare sull’acqua o è calunnia che un letto
narra assonnato a un soffitto.

Iosif Aleksadrovic Brodskij
(Traduzione di G.Guerrini, su Crono Poesia, 1990)

VIII

Scrivo questi versi su una sedia bianca all’aperto
con la sola giacca addosso in inverno
dopo aver bevuto molti bicchieri
allargando gli zigomi con frasi in madrelingua.
Il caffè si raffredda nella tazza.
Sciaborda la laguna, castigando con minimi sprazzi
la torbida pupilla che fissa nel ricordo
questo paesaggio in grado di fare a meno di me.

Iosif Aleksandrovic Brodskij

(Traduzione di G.Guerrini, su Crono Poesia, 1990)

BORIS PASTERNAK
(1890 1960)


La neve cade

La neve cade, la neve cade.
Alle bianche stelline in tempesta
si protendono i fiori del geranio
dallo stipite della finestra.

La neve cade e ogni cosa è in subbuglio,
ogni cosa si lancia in un volo,
i gradini della nera scala,
la svolta del crocicchio.

La neve cade, la neve cade,
come se non cadessero i fiocchi,
ma in un mantello rattoppato
scendesse a terra la volta celeste.

Come se con l’aspetto d’un bislacco
dal pianerottolo in cima alle scale,
di soppiatto, giocando a rimpiattino,
scendesse il cielo dalla soffitta.

Perché la vita stringe. Non fai a tempo
a girarti dattorno, ed è Natale.
Solo un breve intervallo:
guardi, ed è l’Anno Nuovo.

Densa, densissima la neve cade.
E chi sa che il tempo non trascorra
per le stesse orme, nello stesso ritmo,
con la stessa rapidità o pigrizia,

temendo il passo con lei?
Chi sa che gli anni, l’uno dietro l’altro,
non si succedano, come la neve,
o come le parole di un poema?

La neve cade, la neve cade,
la neve cade e ogni cosa è in subbuglio:
il pedone imbiancato,
le piante sorprese,
la svolta del crocicchio.
Boris Pasternàk

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino, “Poesie” Boris Pasternàk, Einaudi,1960)

lunedì 27 ottobre 2008

POESIA TEDESCA
GEORG TRAKL
(1887 1914)




CANTO SERALE

La sera, se andiamo per oscure vie,
smorte ci incontrano le nostre ombre.

Ora chi ha sete
beva le bianche acque dello stagno,
dolci i lamenti della nostra infanzia.

Morti in riposo sotto il folto sambuco
guardiamo grigi gabbiani.

Nubi primaverili coprono la città buia
che tace i tempi di monaci eletti.

Quando io presi la tua mano esile
battesti piano gli occhi rotondi:
ora è perduto.

Ma se una buia armonia penetra l’anima
appari tu bianca ai paesi autunnali del cuore.
Georg Trakl
(Traduzione di Giaime Pintor in “Poesie” di Rainer Maria Rilke, Einaudi, 1963)






HERMANN HESSE
(1877-1962)


Fuga di Giovinezza

La stanca estate china il capo,
specchia nell’acqua il biondo volto.
Io vado stanco e impolverato
nel viale d’ombra folto.

Soffia tra i pioppi una leggera
brezza. Ho alle spalle il cielo rosso,
di fronte l’ansia della sera
e il tramonto e la morte.

E vado stanco e impolverato
e dietro a me resta esitante
la giovinezza, china il capo
e non vuol più seguirmi avanti.
Hermann Hesse

(Traduzione di Rainer Maria Rilke su “Poesie”, Einaudi Editore, 1963)

RAINER MARIA RILKE
(1875- 1925)



Sulla via assolata, dentro al vecchio
tronco cavo che da lungo tempo
serve a bere e piano in sé rinnova
uno specchio d’acqua, la mia sete
calmo: l’acqua limpida e il suo flusso
prendo in me nel cavo della mano.
Bere è troppo, è un atto che tradisce,
mentre questo gesto in cui m’indugio
porta un’acqua chiara alla coscienza.

E così potrebbe riposarmi
se tu fossi qui, posare piano
la mia mano sulla fresca curva
della spalla o al limite del seno.
Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Giaime Pintor da: “Poesie” di Rainer Maria Rilke, Einaudi Editore, 1963)

Sempre di nuovo, benché sappiamo il paesaggio d’amore
e il breve cimitero con i suoi tristi nomi
e il pauroso abisso silente, dove per gli altri
è la fine: torniamo a coppie tuttavia
di nuovo tra gli antiche alberi, ci posiamo
sempre, di nuovo, tra i fiori contro il cielo.
Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Giaime Pintor “Poesie”, Einaudi, 1963)

GOTTFRIED BENN
(1886 1956)


Onda della notte

Onda della notte – arieti di mare e delfini
col peso volubile di Giacinto,
le rose di alloro e i travertini
alitano attorno al vuoto palazzo istriano.
Onda della notte – due conchiglie elette assieme,
i flutti le sospingono, via dalle rocce,
poi perduti assieme diadema e porpora,
la bianca perla rotola di nuovo in mare.
Gottfried Benn

(Traduzione di M.T. Mandalari, su La poesia italiana contemporanea, di G. Cavallini, L. Marguati,
Editore Bulgarini, Firenze, 1972)
POESIA FRANCESE
RENE’ CHAR
(1907-1988)



Fogli d’Ipnos

A***

Da tanti anni sei l’amore mio,
il mio capogiro in così lunga attesa,
che nulla può invecchiare, raffreddare;
nemmeno ciò che aspettava la nostra morte,
o lentamente seppe combatterci,
nemmeno ciò che ci è estraneo,
e le mie eclissi e i miei ritorni.

Chiusa come un’imposta di bosso
un’estrema fortuna compatta
è la nostra catena di monti,
lo splendore che ci comprime.

Dico fortuna, o mia martellata;
ciascun di noi può ricevere
la parte di mistero dell’altro
senza spanderne il segreto;
e il dolore che viene d’altrove
trova alfine separazione
nella carne della nostra unità,
trova alfine il suo corso solare
nel cuore della nostra nuvolaglia
che squarcia e ricompone.

Dico fortuna così come sento.
Tu hai alzato la vetta
che la mia attesa dovrà superare
quando domani sparirà.
René Char

223 Vita che non può né vuole piegare la sua vela, vita che
I venti riportano stremata al vischio delle rive, eppure sem-
pre pronta allo slancio oltre l’ebetudine, vita sempre meno
arredata, sempre meno paziente, assegna a me la mia par-
te se tanto è ch’essa esiste, la mia parte giustificata nel de-
stino comune al cui centro la mia singolarità fa spicco ma
serba l’amalgama
René Char

(Traduzione di G. Caproni, “Poesia del Novecento in Italia e in Europa”, a cura di Edoardo Esposito II Volume, Feltrinelli Editore, 2000)


PIERRE REVERDY

(1889-1960)

Si era mossa una bestia
Si udì uno zoccolo raspare il selciato sotto la paglia

Poi un grido

Aspettatevi quello che succederà

Qualcuno accostò l’occhio all’abbaino
e guardò

Era ancora notte ma il pendolo faceva oscillare
Il battente senza suonare le ore e dovemmo aspettare
L’alba per sapere di che si trattava

Gli anni passano veloci nella
mente oscura di un fanciullo

Dopo è solo un ricordo uniforme che si
trasforma

Tuttavia se si guarda
attentamente lo stesso punto
ci accorgiamo che non si è mosso

E’ un gioco di luci
Non vediamo più gli stessi colori
E perfino le orecchie saranno mutate

Che fitta cortina di fumo
Cerca di scostare le tenebre con le dita
e si è lacerato il volto e il cuore

Se avesse incontrato se stesso a certi incroci di strade
La ruota di una vettura di passaggio lo sfiorò e
la giacca rimase sporca di fango fino alla fine

Quanto tempo era passato da quando
Era uscito

Tra gli oggetti c’era un vuoto che avrebbe
voluto colmare e la testa fluttuava dall’uno all’altro

Se avesse voluto il vento
poteva trasportarlo al di sopra degli alberi

E invece tu rimani lì chino sul parapetto
come se aspettassi

La campana suona ma non ci chiama

Le sirene fanno gemere gli ardori
di un altro clima

Un’immagine
Bisogna spezzare tutti i ceppi e partire
con le mani avanti

Al fondo di sé c’é sempre un fanciullo infelice che
piange
Pierre Reverdy
(Traduzione di Antonio Porta da: “Il ladro di talento”, Einaudi Editore, 1972)


GUILLAUME APOLLINAIRE

(1880- 1918)



Il ponte di Mirabeau

Sotto il ponte di Mirabeau scorre la Senna
E i nostri amori
Me Io devo ricordare
La gioia veniva sempre dopo il dolore

Venga la notte suoni l’ora
I giorni se ne vanno io rimango

Le mani nelle mani faccia a faccia restiamo
Mentre sotto
Il ponte delle nostre braccia passa
L’onda stanca degli eterni sguardi

Venga la notte suoni l’ora
I giorni se ne vanno io rimango

Passano i giorni e passano le settimane
Né il tempo passato
Né gli amori ritornano

Sotto il ponte di Mirabeau scorre la Senna
Venga la notte suoni l’ora
I giorni se ne vanno io rimango
Guillaume Apollinaire
(Traduzione di R.Paris)

Da: “La poesia italiana contemporanea”, a cura di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, Firenze,1972)
ARTHUR RIMBAUD
(1854-1895)


BEING BEAUTEOUS

Davanti a un nevaio, un Essere di bellezza d’alta statura.
Sibili di morte e cerchi di musica sorda fanno salire, allargarsi
e tremare come uno spettro questo corpo adorato; ferite scarlat-
te e nere esplodono nelle carni superbe. – I colori propri della
vita s’incupiscono, danzano, e si sprigionano intorno alla visione,
sul cantiere. – E i brividi si elevano e rumoreggiano, e poiché
il sapore forsennato di quegli effetti si carica dei sibili mortali
e delle rauche musiche che il mondo, lontano, dietro di noi, lan-
cia sulla nostra madre di bellezza – ella indietreggia, si rizza.
Oh le nostre ossa son rivestite d’un nuovo corpo innamorato.

******
O la faccia cinerea, lo scudo di crine, le braccia di cristallo!
Il cannone su cui devo abbattermi attraverso la mischia degli
alberi e dell’aria leggera!
Arthur Rimbaud

(da : “Le Illuminazioni”, “I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio, Editore, Milano, 1955)

TRISTIAN CORBIERE
(1845-1875)


Rondello

E’ buio, bimbo, ladro di scintille!
Non vi sono più notti, non vi sono più giorni.
Dormi…. e aspetta che vengan tutte quelle
che dicevano: Mai! Che dicevano: Sempre!

Senti i loro passi? Non sono pesanti;
oh, piedi, lievi! - l’Amore ha le ali….
E’ buio, bimbo, ladro di scintille!

Odi le loro voci?.... Le tombe sono sorde.
Dormi: ben poco pesa il tuo carico di semprevivi:
i tuoi amici, gli orsi, non verranno
a gettare la pietra sulle tue damigelle.
è buio, bimbo, ladro di scintille!
Tristian Corbiére

(da: Amours Jaunes, “I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio, Editore, Milano, 1955)
PAUL VERLAINE
(1844-1896)


1-18

E ho rivisto il bimbo amico: m’è sembrato
che nel mio cuore s’aprisse l’ultima ferita,
quella il cui dolore più squisito m’assicura
d’una morte desiderabile in un giorno consolato.

La buona freccia acuta e la sua freschezza che dura!
In quegli istanti eletti, esse han destato
i sogni un po’ grevi dello scrupolo annoiato,
e tutto il mio sangue cristiano cantò la Canzone pura.

Odo ancora, vedo ancora! Legge del dovere
sì dolce! Alfine so che sia udire e vedere.
Odo, vedo sempre! Voce dei buoni pensieri!

Innocenza, avvenire! Savio e silenzioso,
come v’amerò, voi premute un istante,
belle piccole mani che chiuderanno i nostri occhi!

Nota di Verlaine:- Parigi, giugno 1881, dopo un incontro
con il mio piccolo Georges-

(da: “Sagesse”,” I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio, Editore, Milano, 1955)

STEPHANE MALLARME’
(1843-1898)


Ventaglio

O pensosa, per cui mi sprofondo
nella pura delizia senza sentiero,
sappi con sottile menzogna
serbare l’ala mia nella tua mano.
Una freschezza di crepuscolo
ti giunge ad ogni battito
il cui colpo prigioniero allontana
l’orizzonte delicatamente.

Vertigine! Ecco fremere
lo spazio come un grande bacio
che, pazzo di nascere per nessuno,
non può zampillare né acquetarsi.

Senti il paradiso selvaggio
come un riso sepolto
fluire dall’angolo della tua bocca
in fondo all’unanime piega!

E’ lo scettro delle rose vive
stagnanti sulle sere d’oro,
questo bianco volo chiuso che tu posi
contro il fuoco di un braccialetto.
Stéphane Mallarmé

(da: “ Poesie”,” I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio Editore, Milano, 1955)
CHARLES BAUDELAIRE
(1821-1867)


Sonetto notturno

Mi chiedono i tuoi occhi, chiari come il cristallo
“Per te, bizzarro amante, qual è, insomma, il mio merito?”
Sii incantevole e taci! Il cuore che tanto irrita,
eccetto l’innocenza dell’antico animale,

non vuole che tu legga il suo segreto infernale,
tu che mi culli con mano che ai lunghi sonni invita,
né la sua nera leggenda con la fiamma graffita.
Detesto la passione, lo spirito mi nausea!

Amiamoci dolcemente. Amore nella sua garitta,
tenebroso, in agguato, tende il suo arco fatale.
Conosco tutti i congegni del suo vecchio arsenale:

delitto, orrore, follia! Pallida margherita!
Come me, non sei tu un sole autunnale,
mia così bianca, mia così fredda Margherita?
Charles Baudelaire

(da: I fiori del Male, Traduzione di C. Bonini, Letteratura e Arte, Biffi e Orrietti, Bologna, 1956)

domenica 26 ottobre 2008

POESIA CECA
JAROSLAV SEIFERT
(1901 – 1986)

Viaggio di nozze

Se non fosse per questi folli baci
non andremmo in viaggio di nozze.
Ma se non fosse per i viaggi di nozze
a che se servirebbero i Wagons lits?

Tremare eterno di campanelli di stazione,
ah Wagons lits , ah vagoni di nozze.
E’ fragile come cristallo la gioia coniugale,
tramonta la luna di miele.

Cara, tu vedi dai finestrini le Alpi,
apriamo tutto, facciamo entrare l’odore,
lo zucchero dei bucaneve, la neve dei gigli,
dai Wagons lits al Wagon restaurant.

Ah Wagons restaurants, ah vagoni di nozze,
esserne ospiti eterni e poi sognare
sulle fragili stoviglie della gioia coniugale!
Fragile, attenti! Si prega di non piegare!

E ancora un giorno e ancora una notte,
due belle notti e due belle giornate.
Dov’è il mio orario dei treni, poetico libro,
oh come sono belle le mie carrozze!

Oh Wagons restaurants e Wagons lits
Oh viaggio di nozze!
Jaroslav Seifert

(Traduzione di G. Giudici,-Poesia del Novecento in Italia e in Europa,
a cura di Edoardo Esposito, II volume Feltrinelli, 2000)
POESIA POLACCA
O.V. de L. MILOSZ
(1877-1939)

Brume

Io sono un grande giardino di novembre, un giardino
sconsolato
Dove tremano i derelitti del vecchio faubourg,
Dove il miserabile colore delle brume dice: Sempre!
E le fontane stillano: Mai più…
Intorno a un ridicolo busto che medita
(Maria, tu dormi, il tuo mulino gira troppo in fretta).
Ballano in tondo le disperazioni del vecchio faubourg.

Non le sentite piangere nel giardino immerso
Nella cieca bruma in fondo al vecchio faubourg?
Povere amicizie sepolte, burleschi amori dimenticati,
Menzogne di una sera! Illusioni di un giorno!
Intorno al ridicolo busto che medita
(Maria, tu dormi, il tuo mulino gira troppo in fretta),
Venite a ballare la nera danza del vecchio faubourg.

La bruma ha divorato tutto, nulla c’è di festoso, nulla
di irritante,
Il sogno è vuoto quanto la realtà.
Ma nel parco dove avete conosciuto l’estate
Si balla, si balla sempre in tondo,
Amici rimpiazzati, amanti abbandonate
(Maria tu dormi, il tuo mulino gira troppo in fretta….)

Io sono un grande giardino di novembre in fondo
a un vecchio faubourg.
O.V. de L. Milosz

(da: Sinfonia di novembre, a cura di Massimo Rizzante,
prefazione di Milan Kundera, Adelphi, 2008)

sabato 25 ottobre 2008

PIER PAOLO PASOLINI
(1922-1975)


Il pianto della scavatrice

II

Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città

e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante;
e ogni andata, ogni ritorno

era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte

ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infusi, con tende per porte…

Passavano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva

frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.

Rinnovato dal mondo nuovo,
libero – una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà

che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà

Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria

di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,

e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo

Di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri, in quel mondo

che poteva soltanto dominare,
quadrato, spettro giallognolo
nella giallognola foschia,

bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.

Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là
le povere voci senza eco

di donnette venute dai monti
Sabini, dall’Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme

di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,

i soli africani, le piogge agitate
che rendevano momenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea

affondati nel loro angolo
tra un’ultima striscia d’erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio….

era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa

maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,

chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita

nella sua luce più attuale;
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,

come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l’ultimo
sventolio del rotocalco: osso

dell’esistenza quotidiana,
pura per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana.
Pier Paolo Pasolini

(da: Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 1976)
LUCIANO ERBA
(1922)


Incompatibilità

Sin tanto che don Oldani
e i venticinque esploratori
si rincorrono su queste lastre di piombo
io mi immagino il popolo delle donne
della cerchia più antica della città.
Addormentate agli ultimi piani
in un letto di ferro
quante sognano la mia sciarpa di sera?
Guardo la città grigiorossa
domenicale, dal terrazzo del duomo
ma potessi volare
ai bei gerani sulle lunghe ringhiere
varcare porte, a piedi nudi
camminare sugli esagoni rossi
poi vedermi alle vostre specchiere
brune ninette, che abitate il verziere!
Partono adesso i crociati
io rimango quassù
con una spia albanese
che fotografa torri e ciminiere.
Luciano Erba

(da: Il male minore, Mondadori, 1960)

venerdì 24 ottobre 2008

ANDREA ZANZOTTO
(1921)


Martire, primavera

1
Il paese scende, paese diviene,
qui con te cede il monte
davanti alle prove immature
di un giorno che tentò grandezze
di colmi fieni

Tu sei custode e causa
dei nostri pochi pensieri d’infermi
chiusi nel denso maggio
da calve piogge e ghiacci di Golgota

E la pietà di maggio s’allontana
per selve e soli
e disperanti attese di papaveri
sulle soglie dei vivi e dei morti
tra i crudi crismi delle piogge

Nessuna svolta di tante strade
si attarda per te
per rifarti tra noi
altro dal ferreo stupore
dall’oscuro limite ove esisti

E noi ti proteggiamo
dall’essere di ciò che ora sei.

2
Si libera il monte il tuo monte
sulla statura di tutti i paesi
e della vita in cui persistiamo
ciechi di piogge e boschi,
le tempie sopraffatte dal golfo boreale
dei cieli che ti consunsero,
impuri e smorti i passi
tra il respiro della bella e l’errore del demente

Lassù non è più luce
forse né azzurro, d’angosciosi pollini
primavera pasce le creste vuote,
sera senza gloria è la neve
tra vischiose larve di bufere,
ma al tuo giaciglio fa guardia
la nera alluvione
quanto è tra noi sorprendono,
ogni nesso e figura
gl’irosi torrenti

Tanti scoscesi terrori
e pietrose distanze violando
rompi tu solo al petto, amore,
tu via più precipite
su noi su tutti i nostri
giorni spezzati e brulicanti,
su tutto il folto della primavera.
Andrea Zanzotto

(da:Elegia e altri versi, Poesie (1938-1972), Mondadori, 1973)

FRANCO FORTINI
(1917-1994)




Foglio di via

Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.

Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d’acqua i rami degli alberi.

Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.
Franco Fortini

(da: "Una volta per sempre", Poesie 1938-1973, Foglio di via, Einaudi, 1978)




PIERO BIGONGIARI
(1914-1997)

Suite Danubiana
For Helen (non goethiana)
(Adagio)

Il passero che non piange portando gran peso gran peso in alto
a Palschach
non solleva né la tua anima né la mia
e nemmeno la sua, se i passeri hanno un’anima – e come può
un passero non averla? –
cadono castagne settembrine qua e là nel verde già aureo
delle foglie morte;
ma tu non piangi né la mia né altra sorte
che quella di un destino che cammina
con le zampe di un passero e non vola
o forse vola con un gran peso, un gran peso,
l’anima che s’é accesa sul lago di questo poeta non laghista,
non carinziano, e nemmeno goethiano,
e nei tuoi occhi Elena, di lince nella caverna infuocata dalle
tenebre
lente ustoria che accende torno torno l’orizzonte
fino a un nido, al riparo, ma il più bersagliato dal fuoco
concentrato
di là dal visibile, da riempire di un’anima, ad evidenza,
commestibile
nella sua otticità che s’infuoca e s’accartoccia.

Gran peso, gran peso, ma mai – sulla bilancia – buon peso,
noi ci mangiamo l’anima tranquilli in questa Tagessuppe,
tu lince, io linciato dal tuo sguardo, nell’ora del primo freddo.
Spezialitàt des Hauses, giorni dopo, oggi, a Palais Palfffy.
Ma quest’oggi, il giorno identificato dell’Identità, non finisce
mai,
tra luoghi alterni, pesi alterni (un’altra) un’alterna identità?
Fuori, a Josefsplatz, fa freddo un –freddo cane nel sole –
e noi ci raggomitoliamo su noi stessi e intorno al rocchetto di
questa piazza attorno a cui giriamo
come se ci fosse un centro, per farlo diventare un centro,
o per nascondere un centro, qua e là, con la scusa di trovare
per esempio un negozio d’immagini introvabile
ma forse non è un filo la pista di un luogo da non perdere
o da non trovare
né tu sei un luogo, né io non sfocio in te né mi allontano da te
immaginando
mentre il cervo tenta il balzo – ricordi, ricordi, qui dintorno-
dalla foresta dureriana, segno immutato del mutevole che
non muta
neanche se il passero riesce
sui bordi abbacinanti di uno Stige
tra le oscure foreste a alzarsi in volo,
immagino che si disfa, preda inimmaginabile.
Piero Bigongiari
(da”Moses”, Almanacco dello Specchio n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori)


MARIO LUZI
(1914-2005)


Parca –Villaggio

A lungo si parlò di te attorno ai fuochi
dopo le devozioni della sera
in queste case grigie ove impassibile
il tempo porta e scaccia volti d’uomini.

Dopo il discorso cadde su altri ed i suoi averi,
furono matrimoni, morti, nascite,
il mesto rituale della vita.
Qualcuno, forestiero, passò di qui e scomparve.

Io vecchia donna in questa vecchia casa,
cucio il passato col presente, intesso
la tua infanzia con quella di tuo figlio
che attraversa la piazza con le rondini.
Mario Luzi

(da: Il giusto della vita, Garzanti, 1971)
VITTORIO SERENI
(1913-1983)


Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.

Sappi- disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn

Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?
Vittorio Sereni

(da: Stella variabile, Garzanti, 1981)

giovedì 23 ottobre 2008

GIORGIO CAPRONI
(1912-1990)


Preghiera

Anima mia leggera
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.
Giorgio Caproni

(da: Il seme del piangere, Giorgio Caproni – L’ultimo borgo- poesie 1932-1978,
a cura di Giovanni Raboni, Rizzoli, 1980)



ATTILIO BERTOLUCCI
(1911-2000)


GLI ANNI

Le mattine dei nostri anni perduti
i tavolini nell’ombra soleggiata dell’autunno,
i compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.
Perché questo giorno di settembre splende
così incantevole nelle vetrine in ore
simili a quelle d’allora, quelle d’allora
scorrono ormai in un pacifico tempo,

la folla è uguale sui marciapiedi dorati,
solo il grigio e il lilla
si mutano in verde e rosso per la moda,
il passo è quello lento e gaio della provincia.
Attilio Bertolucci

(da: La capanna indiana, Sansoni, Firenze, 1951)
ALFONSO GATTO
(1909-1976)


Parole

“Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festa: - io lo dicevo all’ombra
ch’eri nel vano della stanza – attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo”.

Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna.
Alfonso Gatto

(da: Arie e ricordi: Poesie, Mondadori, 1967



A mio padre

Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni di libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi azzurri di sorriso, neri
neri come rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno” Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
Alfonso Gatto

(da:Poesie, Poesia Italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi Editore, 1970)


Sera di Versilia

Come il mare deserto stacca il molo
nel cielo puro del tramonto, solo
resta sul tetto di lamiera un fioco
riverbero del giorno. A poco a poco
appassisce nell’aria anche il clamore
monotono d’un grido e nell’odore
largo del vento e della sera stagna
la pineta già d’ombra, la campagna
deserta nei suoi pascoli, nel raro
lume dell’acque. Ora il silenzio è chiaro.
E la notte verrà con l’incantate
terrazze ai balli forti dell’estate,
al novilunio tenero dell’Alpe.
Alfonso Gatto

(da: “Poesie”, II Edizione 1967, Mondadori)
CESARE PAVESE
(1908-1950)






Il vino triste




E’ un bel fatto che tutte le volte che siedo in un angolo
d’una tampa a sorbire il grappino, ci sia il pederasta
o i bambini che strillano o il disoccupato
o una bella ragazza che passa di fuori,
tutti a rompermi il filo del fumo. “E’ così, giovanotto,
ce lo dico davvero, lavoro a Lucento”.
Ma la voce, la voce angosciata del vecchio
quarantenne – non so – che mi ha stretto la mano
nottetempo nel freddo e poi mi ha accompagnato
fino a casa, quel tono da vecchia cornetta,
non lo scordo, neanche se muoio.
Non diceva del vino, parlava con me
perché avevo studiato e fumavo la pipa.
“E chi fuma la pipa” esclamava tremando
“non può essere falso!” Approvai colla testa.

Ho trovato ragazze al ritorno, più aperte, più sane,
colle gambe scoperte – digiuno da mesi –
e mi sono sposato soltanto perché ero ubriaco
della loro freschezza – un amore senile.
Ho sposato la più muscolosa e la più impertinente
per sapere di nuovo la vita, per non più morire
dietro un tavolo, dentro un ufficio, dinanzi ad estranei.
Ma anche Nella fu estranea per me e un allievo aviatore
me la vide una volta e ci mise le mani.
Ora è morto quel vile – quel povero giovane –
capotato nel cielo – no sono io il vile.
La mia Nella accudisce un bambino – non so se è mio figlio –
ed è tutta di casa e io sono un estraneo
che non sa accontentarla e non oso dir nulla
e anche Nella non parla, ma solo mi guarda.

E, il più bello, piangeva quell’uomo a contarla,
come piange uno sbronzo, con tutto il suo corpo,
e mi cadeva addosso e diceva “Tra noi
sempre rispetto” ed io, a tremare nel freddo,
a cercare di andarmene, a dargli la mano.

Fa piacere sorbire il grappino, ma è un altro piacere
ascoltare gli sfoghi di un vecchio impotente
che è tornato dal fronte e vi chiede perdono.
Quali soddisfazioni ho mai io nella vita?
Ce lo dico davvero, lavoro a Lucento.
Quali soddisfazioni ho mai io nella vita?
Cesare Pavese

(da:Poesie del disamore, Einaudi, 1968)





Gente spaesata



Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.
Alla sera, che l’acqua si stende slavata
e sfumata nel nulla, l’amico la fissa
e io fisso l’amico e non parla nessuno.
Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,
isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni
(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)
dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,
di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.
Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,
a innalzare colline di verde sul piano del mare.
Le colline mi vanno; e lo lascio parlare del mare
perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.

Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne
faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta
e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi
per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.
Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.
Se domani sul presto saremo in cammino
verso quelle colline, potremo incontrar p’er le vigne
qualche scura ragazza, annerita di sole,
e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.
Cesare Pavese

( da:”Antenati”! in Lavorare stanca, Einaudi, Torino, su Antologia italiana contemporanea, di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini,Firenze, 1972)





Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
Questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese

(da: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino, su La poesia italiana contemporanea,di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, Firenze, 1972)





SANDRO PENNA

(1906-1977)


La vita….. è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce a me vicino
un marinaio giovane l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
Sandro Penna

Le nere scale della mia taverna
tu discendi tutto intriso di vento.
I bei capelli caduti tu hai
sugli occhi vivi in un mio firmamento
remoto.

Nella fumosa taverna
ora è l’odore del porto e del vento.
Libero vento che modella i corpi
e muove il passo ai bianchi marinai.
Sandro Penna

Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
Sandro Penna
(da: “Tutte le poesie”, Garzanti, 1972)



SALVATORE QUASIMODO


(1901-1968)


QUASI UN MADRIGALE

Il girasole piega a occidente
e già precipita il giorno nel suo
occhio in rovina e l’aria dell’estate
s’addensa e già curva le foglie e il fumo
dei cantieri. S’allontana con scorrere
secco di nubi e stridere di fulmini
quest’ultimo gioco del cielo. Ancora,
e da anni,cara, ci ferma il mutarsi
degli alberi stretti dentro la cerchia
dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
e sempre quel sole che se ne va
con il filo del suo raggio affettuoso.

Non ho più ricordi, non voglio ricordare,
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
Qui sull’argine del canale, i piedi
in altalena, come di fanciulli,
guardiamo l’acqua i primi rami dentro
il suo colore verde che s’oscura.
E l’uomo che in silenzio s’avvicina
non nasconde un coltello fra le mani
ma un fiore di geranio.
Salvatore Quasimodo


(da: La vita non è sogno, Quasimodo Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, 1971)

Rifugio d’uccelli notturni

In alto c’è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l’abisso
col fusto piegato a balestra.

Rifugio d’uccelli notturni,
nell’ora più alta risuona
d’un battere d’ali veloce.

Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce,
sta pure in ascolto la notte.
Salvatore Quasimodo

(da: “Ed è subito sera”, -Quasimodo poesie e discorsi sulla poesia- Mondadori 1971


Specchio

Ed ecco sul tronco
si rompono gemme
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.
Salvatore Quasimodo

(da: “Ed è subito sera”, Quasimodo poesie e discorsi sulla poesia, Mondadori, 1971)

mercoledì 22 ottobre 2008

EUGENIO MONTALE

(1896-1981)






La casa di Olgiate


In quel tempo era ancora vivo
il piccolo Tonino nella casa
alta sul cavalcavia.
Io la vedevo, la casa, dall’autostrada,
ignorando te e lui: non mi balzava
il cuore come adesso. L’ignoranza
mia occultava l’avvenire, il fil-
di-ferro del domani, là giunti, si troncava.

V’entrai molti anni dopo
(il bimbo era morto da tanto,
sussurrando”mi duole per te, mamma”),
conobbi l’orto, il giardiniere, il tuo
boudoir di diciottenne, disammobiliato,
l’impronta appena visibile di un cerchio sul muro –lo specchio-,
e non potevo parlare. Tra quelle stanze
una parte alitante di te mi bastava.

Il trillo del tuo cardellino più tardi si spense
all’ombra del giglio rosso da me lasciato.
Famelico delle tue tracce mi affaccio su rettangoli
di verze, su cespugli di dalie impolverate,
e il vecchio custode mi segue, più inebetito di me
nei corridoi, nel solaio mentre dal basso giunge
un crepitare isocrono di macchine,
ma non bava d’aria nell’afa.

Così i destini s’annodano, mia tigre, e intanto tu
dietro le lenti affumicate spii
nugoli pigri e sull’Olona putrido
l’efflorescenza dei disinfestanti.
Si snodano i destini. Mai da me intraveduta,
la tua casa friulana ora s’allarga
nel desiderio, l’aia dove incontro al futuro
irruppe la tua infanzia, e già volava.
Eugenio Montale

(da: La casa di Olgiate e altre poesie, Mondadori, 2006)


Portami il girasole ch’io lo trapianti

Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
Eugenio Montale
(da “Ossi di seppia” Mondadori, 1972)



La Casa dei Doganieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende….)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Eugenio Montale
(da: “Le occasioni” Mondadori, 1976)






CAMILLO SBARBARO

(1888-1967)



Versi a Dina


La trama delle lucciole ricordi
sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(trasognato paese dove fui
Ieri e che già non riconosce il cuore).

Forse. Ma il gesto che ti incise dentro,
io non ricordo; e stillano in me dolce
parole che non sai d’aver dette.

Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s’anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che non giungono a toccarsi.

Ognuno resta con la sua perduta
felicità, un po’ stupito e solo,
per mondo vuoto di significato.
Miele segreto di che s’alimenta;
fin che sino il ricordo ne consuma
e tutto è come se non fosse stato.

Oh come poca cosa quel che fu
a quello che non fu divide!
Meno
che la scia della nave acqua da acqua.

Saranno state
le lucciole di Nervi, le cicale
e la casa sul mare di Loano,
e tutta la mia poca gioia – e tu –
fin che mi strazi questo ricordare.
Camillo Sbarbaro

(da:”Rimanenze” Scheiwiller, Milano 1955, su –La poesia italiana contemporanea- di G.Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, 1972)


VINCENZO CARDARELLI
(1887-1959)

ESTIVA
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
delle albe senza rumore-
ci si risveglia come in un acquario-
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’ oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
Vincenzo Cardarelli da:”Poesie, Mondadori, 1971)
AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento di agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
Vincenzo Cardarelli, da Poesie, Mondadori, 1971)


GUIDO GOZZANO
(1883-1916)




Signorina Felicita

Signorina Felicita, a quest’ora

scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora.
E Ivrea rivedo e la cerula Dora
E quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai?,Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno!
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.
Pensa i bei giorni d’un autunno addietro:
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
Coi suoi ciliegi e la sua Marchesa
Dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….
Vill’Amarena! Dolce la tua casa
In quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
Di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.
Bell’edificio triste, inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fruga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!
Ercole furibondo e il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
D’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, tramutata in lauro
Tra le braccia del Nume ghermitore….
Penso l’arredo – che malinconia! –
Penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!
Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
Che tu rammendi paziente…Avita
Semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II


Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….
E rivedo la tua bocca vermiglia
Così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
Rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo volermi piacermi!
Ogni giorno salivo alla tua volta
Per soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.
Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….
Per la partita verso ventun’ore
giungeva tutto ì’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma- poiché trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….
M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vivi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico, d’aglio, di cedrina…
Maddalena con sordo brontolio
Disponeva gli arredi ben decenti,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo uguale dell’acciottolio.
Sotto l’immensa cappa del camino
( in me rivive l’anima d’un cuoco
Forse…) godevo il sibilo del fuoco,
la canzone d’un grillo canterino
mi dicevi parole, a poco a poco,,
e vedevo Pinocchio e il mio destino….
Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi, tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori da quell’altra stanza.

IV


Bellezza riposata dei solai

dove il rifiuto secolare dorme”!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò che è stato e non sarà più mai,
bianca e bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:
“E quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno….E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…L’han veduta alcuni
lasciare il quadro, in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….”
Il nostro passo diffondeva l’eco
Tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano
si riposa all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.
Intorno a quella che rideva illusa
Nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili.. ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!
Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle fronde regie
v’era Torquato nei giardini d’Este
“Avvocato perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?”
Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimé la Gloria! un corridoio basso,
tra ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!
Allora quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.
Non vero(bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese,
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso e alto.
Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù oltre i colli dilettosi
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei “ cosi
con due gambe” che fanno tanta pena…
“ Avvocato, non parla che cos’ha?”
“ Oh, Signorina! Penso ai casi mie,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei….” –
“Qui nel solaio?...” Per l’eternità!” –
“Per sempre” Accetterebbe?....- “Accetterei!”
Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
Si librtò con un ronzo lamentoso.
“Che ronzo triste!” – “ E’ la Marchesa in pianto….
La Dannata sarà, che porta pena…”
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino, tu mi piaci tanto
siccome piace al mar una sirena….
Un richiamo s’alzò querulo e tòco:”
“E’ Maddalena inquieta che si tardi;
scendiamo; è l’ora della cena”- “ Guardi,
guardi il tramonto là… Com’é di fuoco!...
Restiamo ancora un poco!” – “Andiamo, è tardi!”
“Signorina, restiamo ancora un poco…!”
Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a fronte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il ssle fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana…
“Una stella!....”- “Tre stelle!...” – “Quattro stelle…”
“Cinque stelle!...” – “Non sembra di sognare?....”
Ma ti levasti su quasi ribelle
Alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo!” E’ tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle…”

VI


Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi

luceva una blandizie femminina,
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Unite la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….
Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sfrenati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…
Mi piaci, Mi faresti più felice
d’un intellettuale gemebonda…
Tu ignori questo male che s’apprende
In noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
…Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma tendere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….
Ed io non voglio più essere io!

VIII


Nel mestissimo giorno degli addii

mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
In quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.
Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.
“Viaggio con le rondini stamane….”-
“ Dove andrà?” – “Dove andrò! Non so. Viaggio.
Viaggio per fuggire altro viaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….
Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarò d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.
Le rondini garrivano assordanti
,garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…..
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…
“Un altro stormo s’alza!....” “Ecco s’avvia!” –
“Sono partite…..” – “ E non le saluti!....”
“Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….”
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando….
diligenze che andavano al confine….
M’apparisti così come in un cantico
Del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovane romantico
quello che fingo d’essere e non sono!

Guido Gozzano
(da:”Poesie “, La Signorina Felicita ovvero la Felicità”, Editore Garzanti. 1948)


GABRIELE D’ANNUNZIO
(1863-1938)

La sera fiesolana

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,

o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera

ti sien come la pioggia che bruiva
tiepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su’l grano che non è biondo ancora
e non è verde,
e su’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fa di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,

o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami

d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incurvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,

o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle.

Gabriele D’Annunzio

(Da:”Alcyone”, Poesia Italiana del Novecento a cura di Edoardo Sanguineti, Volume Primo, Einaudi, 1969)



GIOVANNI PASCOLI
(1855-1912)




Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala

l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala

l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’é spento….

E’ l’alba: si chiudono i petali,

un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Giovanni Pascoli

(da:”Canti di Castelvecchio” 1903, Mondadori, luglio, 1958)





La mia sera

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!


Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

E’ quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io…e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
Là, voci di tenebra azzurra…
che fanno ch’io torni com’era….
Sentivo mia madre….poi nulla….
sul far della sera.

Giovanni Pascoli

(Da: “ I canti di Castelvecchio”, 1903, Mondadori, 1958)






Mia madre

Zitti, coi cuori colmi,

ci allontanammo un poco.
Tra il mereggiar degli olmi
brillava il cielo in fuoco.

…Come fa presto sera,

o dolce madre, qui!

Vidi una massa buia

di là del biancospino,
vi ravvisai la thuia,
l’ippocastano, il pino….

… Or or la mattiniera

voce mandò di lui;

Tra i pigolii dei nidi,

io vi sentii la voce
mia di fanciullo: e vidi
nel crocevia, la croce.

…..Sonava a messa, ed era

l’alba del nostro dì:

E vidi la Madonna

dell’Acqua, erma e tranquilla,
con un fruscio di gonna,
dentro, e l’odor di lillà.

….pregavo… E la preghiera

di mente già m’uscì!

Sospirò ella, piena

di non so che sgomento.
Io me le volsi: appena
vidi il tremor del mento.

…..Come non è che sera,

madre, d’un solo dì?

Me la miravo accanto

esile sì, ma bella:
pallida sì, ma tanto
giovane! una sorella!

Bionda cos’ì com’era

quando da noi partì.

Giovanni Pascoli

(da: Canti di Castelvecchio, 1903, Mondadori luglio 1958)