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domenica 27 agosto 2017

PASSIONE, ARTE, MESTIERE DEL TRADUTTORE


 Riceviamo e pubblichiamo questo lavoro di Adeodato Piazza Nicolai e una poesia .
                                                        I.      
         In Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione Umberto Eco scrive: “È vero che, nell’interpretare il mondo che ci circonda (e quelli reali o possibili di cui parlano i libri che traduciamo), ci muoviamo già all’interno di un sistema semiotico che la società, la storia, l’educazione hanno organizzato per noi. Tuttavia se fosse soltanto così, allora la tra-duzione di un testo che provenga da un’altra cultura dovrebbe essere in teoria impossibile. Ma se le diverse organizzazioni linguistiche possono apparire mutualmente incommensurabili, esse rimangono peraltro comparabili.” [1]
         Un esempio di comparabilità che viene in mente è quello di un vinaiolo francese esperto nel coltivare un ottimo cabernet sauvignon mentre l’esperto italiano produce un magnifico sangiovese. Un poeta d’oltralpe, attraverso la sua educazione ecc., ha imparato a infondere un boquet particolare ai suoi versi che differisce alquanto da quello di un poeta italiano. Un esperto di vini sarà capace di “comparare” la fragranza particolare dei due vini. Lo stesso vale per il traduttore. L’aroma parti-colare di ciascun vino viene anche modificata dal “contenitore” del parti-colare vino: se il produttore francese imbottiglia il suo cabernet in un contenitore di ceramica mentre quello italiano lo conserva in una bottiglia di particolare vetro fumè, il prodotto verrà alquanto “condizionato” dalla “forma” e dal “materiale” del contenitore adottato. Se traduco Dante in inglese, sia contenuto che forma saranno “comparabili” cioè “quasi la stessa cosa” anche se mai potrà essere “la medesima cosa”. Perciò l’arte, il mestiere la passione del tradurre è comparabile a quello del “travasare” da un contenitore (la lingua originale del poeta) a quella di un simile contenitore (cioè la lingua ricevente —l’inglese).
         Innegabili le varianti della storia, lingua, educazione cultura ecc. di ogni poeta. Resta essenziale riconoscere la sua particolare “voce”. Oltre alle tematiche, le strutture semantiche, i stili del periodo storico, rimane la “voce” a distinguere un poeta da un altro. La “voce” di Dante è asso-lutamente distinguibile da quella del Petrarca, e così via. Pensiamo alla voce di Ungaretti messa a fianco di quella di Saba o di Montale.
         Il traduttore (che sia anche lui/lei poeta oppure no) assolutamente deve conoscere e riconoscere la voce del poeta che sta traducendo, oltre che a tutte le varianti sopraindicate. Ma questo non basta. Deve essere conscio di come la propria voce andrà ad impattare su quella del poeta che sta traducendo. Diventa una operazione difficile tanto quanto quella del travasare dall’originale a un altro contenitore linguistico. Essere poeta/ traduttore diventa così un vantaggio/tranello: dissociarsi dalla propria voce ed ascoltare quella del poeta che sta traducendo rimane la vera sfida. Forse in questo senso un traduttore che non è poeta e/o scrittore viene avantaggiato.
         Tuttavia la sfida suprema per il traduttore è immane: essere fedele alla voce dell’originale, travasare le opere in un diverso “contenitore” (lingua) cercando di tradire il minimo possibile. Not a small challenge!

                                                        II.
         La seconda parte propone di tracciare un breve sommario storico delle traduzioni statunitensi della Divina Commedia dantesca, concen-trandosi specificamente nel rintracciare come “la voce” del traduttore produca un notevole impatto sulll’opera tradotta. Il poeta, critico e romanziere Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) è stato il primo americano che ha tentato di “travasare” la Divina Commedia in anglo-americano (1867). Il suo linguaggio facilmente comprensibile, le storie pure e gentili dalle quali sono bandite le forti passioni, il tono dolce e rassicurante delle sue poesie vengono trasmesse nella sua versione della Commedia. Qualità queste identificate con il periodo storico del trascen-dentalismo che non si addicono al crudo realismo del linguaggio dantes-co, specialmente nell’lnferno.  Forse il miglior traduttore di Dante del ventesimo secolo, John Ciardi (1916-1986) dirà che la versione di Long-fellow “era incapace di offrire sia la voce della poesia moderna americana sia il vero senso del mondo dantesco.”[2]
         Seguendo Longfellow, vari autori inglesi hanno tradotto la Com-media, come Lawrence Binyon nel 1933 e Dorothy Sayers nel 1949 ma con evidenti forzature nei loro tentativi di trasporre la terza rima dan-tesca nella lingua inglese, assai più povera dell’italiano nel costruire versi in rima. Tuttavia anche in questi autori/traduttori la propria “voce” si inserisce e a volte domina il mestiere di tradurre l’originale.
         Negli anni ’40 John Ciardi, lo sconosciuto ma talentuoso poeta/tra-duttore, si impegna nella “trasposizione” dell’Inferno in anglo-americano. Infatti è convinto che una traduzione è attualmente una “trasposizione.” [Vedi le sue “Note del Traduttore”]. Intraprende questa difficile sfida poiché, come professore a Harward nel dopoguerra, è sempre più insoddisfatto delle versioni da usare come testi base per l’insegnamento della Divina Commedia. Fin dall’inizio ha capito l’impossibilità di fare una traduzione “word-by-word”, cioè ricostruendo parola per parola in ingle-se i versi danteschi.  Questa procedura falsificherebbe la vera natura della poesia, perciò la “trasposizione” è l’unica cosa che si avvicina alla “tradu-zione”. Per illustrare la sua teoria usa una splendida metafora musicale: “Quando il violino ripete le note appena suonate dal piano, non può ricreare gli stessi suoni, può soltanto avvicinarsi alle stesse corde.” [3]. E in questo caso pure la vasta conoscenza poetica di Ciardi, in combina-zione alle sue opere di poesia, inserisce sfumature della sua “voce” nei versi danteschi tradotti.
         Il noto dantista Archibald MacAllister, professore sia all’Università di Yale che alla Brown, ha confermato che “la scelta di Ciardi nell’adottare una versione originale della terza rima (cioè far rimare il primo e il terzo verso di ogni stanza) riproducevano più fedelmente il senso e suono dell’originale.  Ha anche apprezzato come Ciardi usa un linguaggio di alto e di basso tono che rispecchia l’originale dantesco.” [4] E rinomati traduttori come Dudley Fitts, Richmond Lattimore, il poeta-e-critico Randall Jarrell e il poeta John Crowe Ransom hanno tutti elogiato la bravura, il virtuosismo ciardiano di traduttore o, usando la sua stessa terminologia, di “traspositore”.
         Robert Pinksy (1940), poeta, critico e traduttore statunitense la cui versione della Commedia ha suscitato scalpore, ha optato per una sintesi dell’approccio di Ciardi con la propria “voce” e stile, prevalentemente free verse. A mio parere nessun poeta/traduttore è sempre esonerato dall’influenza della propria voce nel “ricreare” le opere di altri autori.

                                                        III. 
         Come “travasare” e/o “trasporre” metafore, simili, immagini ecc., presenti nella lingua originale ma non perfettamente corrispondenti nella lingua tradotta? Lo stesso per strutture linguistiche, morfologiche ecc.? È proprio qui che il “traghettatore” dev’essere attento a non diventare “tra-ditore”. Analizziamo l’esempio offerto dal poeta e critico Giorgio Lingua-glossa nel caso specifico di una poesia di Samuel Beckett (1906-1989).

Vorrei attirare l’attenzione dei lettori sulla problematicità del tradurre questa poesia che, apparentemente, sembra semplice, e invece nasconde grandi difficoltà per il traduttore. Ecco qui due altre traduzioni (di cui una mia) molto diverse da quelle di Frasca. Io nel mio modesto tentativo di rendere la quartina originale in italiano ho puntato sulla forza dei verbi italiani declinati al gerundio… ma, ovviamente, ci possono essere una infinità di altre soluzioni espressive… Questo per rispondere indirettamente a chi ripete meccanicamente la tesi del Beckett minore in poesia, quando invece bisognerebbe leggere la poesia di Beckett come a se stante, come una modalità espressiva diversa da quelle del teatro e del romanzo…

 A Francesca Diano (se ci legge) esperta traduttrice dall’inglese, sarei curioso di conoscere il tuo parere circa questa traduzione. Analogo invito lo rivolgo a Steven Grieco Rathgeb, se ci legge.

 «Un giorno, studiando la filosofia del ’600, [Beckett] ebbe un’illuminazione – simile al lampo remoto perso in una notte profonda. Sfogliò le opere del filosofo belga Arnold Geulincx (1624-69) e vi trovò scritto: «Ubi nihil vales, ibi nihil velis» ossia, facendo eco allo stoicismo di Epitteto: dove nulla puoi, niente devi volere. Fu una grande scoperta: il modo migliore per non suicidarsi era non volere. Il modo migliore per affrontare i conflitti della volontà (compresi quelli di emancipazione personale) era l’abolizione stessa della volontà. Si applicò a questo credo da giovanissimo e così l’ebbe vinta sulle pulsioni suicide».

Gnome

Spend the years of learning squandering
Courage for the years of wandering
Through a world politely turning
From the loutishness of learning

Traduzione mia:

Gnomo

Scorrono gli anni dell’esperienza dissipando
il coraggio per gli anni vagabondando
attraverso un mondo che gentilmente ruotando
dalla volgarità dell’apprendimento

Traduzione di Frasca:

Passano gli anni dell’apprendimento
A dissipare il coraggio per gli anni
In cui vagabondare dentro un mondo
Che con garbo si libera ruotando
Da ogni grossolano apprendimento

Altra traduzione:*

Gettar via gli anni di apprendistato nello scialacquio
del coraggio al posto di anni di vagabondaggio
attraverso un mondo che educatamente gira attorno
la volgarità d’imparare.   [5]

Gnomo

Anni spesi imparando a sprecare
il coraggio per anni girovagando
in un mondo che fugge con garbo
dal grezzo imparare.

[ “trasposizione”  di A. P. Nicolai ]

                La “voce” del traduttore/traduttrice senza dubbio impatta ogni versione citata. Come dice sopra l’autore: “ci possono essere una infinità di altre soluzioni...” Per esempio, ho scelto di tradurre “politely turning” con “fugge con garbo”: “turning from” può essere interpretato come fuggire; la frase “the loutishness of learning” con “dal grezzo imparare”. [6] Tuttavia è facile individuare la voce, il timbro di ogni “travasatore” di questa quartina beckettiana .
Questo non diminuisce le tante difficoltà, le insidiose sfide affrontate da ogni traduttore/traspositore. Anche questa è la bellezza dell’arte, del mestiere e della passione del tradurre.

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, Domenica 6 agosto 2017


_____________________
NOTE

1.            Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, p. 350-1. Studi Bompiani. Il campo semiotico, a cura di Umberto Eco. © 2003 RCS Libri S.p.A., Milano.
2.            John Ciardi, commenti, The Inferno, p. 293 (Signet Classics, published by New American Library, a Division of Penguin Books, New York). © 1982 John Ciardi.
3.            Ibid., p. 294.
4.            Ibid., p. 295.
5.            Ringrazio Giorgio Linguaglossa editore/traduttore,” La Scialuppa di Pegaso”, come pure gli altri traduttori citati (Frasca, Diano e Rathgeb), per la loro gentile concessione di usufruire delle loro versioni.


6.            Applicando gli insegnamenti di John Ciardi, nella mia variante ho seguito “my gut feelings” (i miei istinti) oltre che l’esperienza di traghettaore/travasatore per più di quaranta anni
         


COHELET e VERMEER

               Oh, la nera bellezza del tuo cantare, Qohelet!
                   Piove  piove ininterrottamente da giorni
                   e questa è una notte ancora più cupa,
                   tutto inghiottito da compatta tenebra:
                   annuncio e figura dell’altra Notte che viene? [1]

                   Mostro della luce, Vermeer, sempre nella stessa stanza
                   dove invita le sue modelle, le posiziona, mette a fuoco
                   la luce che filtra dalle tre finestre, poi dipinge, dipinge.
                   Il pennello fotografa soggetti, i suoi occhi accarezzano
                   gli altri occhi, la pelle ruvida, rosata, incarnadina. Oggetti
                   e soggetti con sfondi creati dalla sua mente. Non mente
                   il pennello. Guarda, apprezza, riscopre se stesso nei suoi
                   pesonaggi riconosciuti da altre vite, da vecchie e cancellate
                   forse sublimate situazioni. Vermeer, jazzista di luci e colori
                   sfiorati nel ghetto e depositati con tenera-ruvida bellezza
                   sulle ragnatele del tempo/non tempo ora sbiadito. Ecco
                   la sua folle magia. Qualche critico moderno ha dichiarato
                   che i suoi dipinti peccano di staticità. Forse intendeva
                   di elettricità: ogni scatto fissato su tela, su carta su cera
                   pecca di staticità, mio caro signore! Nei suoi ritratti
                   le donne fanno le cose quotidiane e lui le dipinge, dipinge.
                   Passano gli anni, lui se ne va nell’oltranza forse mai prima
                   svelata o dipinta. Negli atelier, musei, pinacoteche, nelle
                   stanze private dei collezionisti vivono ancora le sue colorate
                   visioni.
                  
                    Qual’è il segreto,
                   il suo mistero? Indescrivibile, irriproducibile la qualità di
                   quella luce. Fotografi e pittori moderni hanno tentato, cercato
                   sognato di riprodurla ma senza fortuna. La luna resta sempre
                   la luna: lo scatto matto non la ricrea, la copia solamente.
                   “La ragazza con gli orecchini di perla” e quella con il cappellino
                   rosso forse con lui hanno affossato una relazione amorosa?
                   Nessuno lo saprà. Amore sbocciato con la prima penellata...
                   Lei guarda un po’ persa fuori dalla finestra, lui entra dentro
                   quegli occhi grigio-verdi e lì ci resta assopito per tanto tempo,
                   possibilmente per sempre.
                   Luce è vita raccolta su tela anche se fuori sfarfalla la neve ...

                   © 2017 Adeodato Piazza Nicolai
                   Vigo di Cadore, 24-5 agosto.
                   Tutti i Diritti Riservati


mercoledì 2 agosto 2017

POESIA ITALIANA - INEDITO DI MARIO M. GABRIELE




Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz,  e  I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
 Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David  Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
 un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze  all’Harmattan.


Entra nel mio cuore e restaci  come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare,  né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano  le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno  l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno  con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati  sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares  con il cane,
e  Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via  delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac  ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett  ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò  lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.