Riceviamo e pubblichiamo questo lavoro di Adeodato Piazza Nicolai e una poesia .
I.
In Dire
quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione Umberto Eco scrive: “È vero
che, nell’interpretare il mondo che ci circonda (e quelli reali o possibili di
cui parlano i libri che traduciamo), ci muoviamo già all’interno di un sistema
semiotico che la società, la storia, l’educazione hanno organizzato per noi.
Tuttavia se fosse soltanto così,
allora la tra-duzione di un testo che provenga da un’altra cultura dovrebbe
essere in teoria impossibile. Ma se le diverse organizzazioni linguistiche
possono apparire mutualmente incommensurabili,
esse rimangono peraltro comparabili.”
[1]
Un esempio di
comparabilità che viene in mente è quello di un vinaiolo francese esperto nel
coltivare un ottimo cabernet sauvignon mentre l’esperto italiano produce un
magnifico sangiovese. Un poeta d’oltralpe, attraverso la sua educazione ecc.,
ha imparato a infondere un boquet particolare ai suoi versi che differisce
alquanto da quello di un poeta italiano. Un esperto di vini sarà capace di
“comparare” la fragranza particolare dei due vini. Lo stesso vale per il
traduttore. L’aroma parti-colare di ciascun vino viene anche modificata dal “contenitore”
del parti-colare vino: se il produttore francese imbottiglia il suo cabernet in
un contenitore di ceramica mentre quello italiano lo conserva in una bottiglia di
particolare vetro fumè, il prodotto verrà alquanto “condizionato” dalla “forma”
e dal “materiale” del contenitore adottato. Se traduco Dante in inglese, sia
contenuto che forma saranno “comparabili” cioè “quasi la stessa cosa” anche se
mai potrà essere “la medesima cosa”. Perciò l’arte, il mestiere la passione del
tradurre è comparabile a quello del “travasare” da un contenitore (la lingua
originale del poeta) a quella di un simile contenitore (cioè la lingua
ricevente —l’inglese).
Innegabili le varianti
della storia, lingua, educazione cultura ecc. di ogni poeta. Resta essenziale
riconoscere la sua particolare “voce”. Oltre alle tematiche, le strutture
semantiche, i stili del periodo storico, rimane la “voce” a distinguere un
poeta da un altro. La “voce” di Dante è asso-lutamente distinguibile da quella
del Petrarca, e così via. Pensiamo alla voce di Ungaretti messa a fianco di
quella di Saba o di Montale.
Il traduttore (che sia
anche lui/lei poeta oppure no) assolutamente deve conoscere e riconoscere la
voce del poeta che sta traducendo, oltre che a tutte le varianti sopraindicate.
Ma questo non basta. Deve essere conscio di come la propria voce andrà ad impattare su quella del poeta che sta
traducendo. Diventa una operazione difficile tanto quanto quella del travasare
dall’originale a un altro contenitore linguistico. Essere poeta/ traduttore
diventa così un vantaggio/tranello: dissociarsi dalla propria voce ed ascoltare
quella del poeta che sta traducendo rimane la vera sfida. Forse in questo senso
un traduttore che non è poeta e/o scrittore viene avantaggiato.
Tuttavia la sfida
suprema per il traduttore è immane: essere fedele alla voce dell’originale,
travasare le opere in un diverso “contenitore” (lingua) cercando di tradire il
minimo possibile. Not a small challenge!
II.
La seconda parte propone
di tracciare un breve sommario storico delle traduzioni statunitensi della Divina Commedia dantesca,
concen-trandosi specificamente nel rintracciare come “la voce” del traduttore
produca un notevole impatto sulll’opera tradotta. Il poeta, critico e
romanziere Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) è stato il primo americano che
ha tentato di “travasare” la Divina
Commedia in anglo-americano (1867). Il suo linguaggio facilmente
comprensibile, le storie pure e gentili dalle quali sono bandite le forti
passioni, il tono dolce e rassicurante delle sue poesie vengono trasmesse nella
sua versione della Commedia. Qualità
queste identificate con il periodo storico del trascen-dentalismo che non si
addicono al crudo realismo del linguaggio dantes-co, specialmente nell’lnferno. Forse il miglior traduttore di Dante del
ventesimo secolo, John Ciardi (1916-1986) dirà che la versione di Long-fellow
“era incapace di offrire sia la voce
della poesia moderna americana sia il vero senso del mondo dantesco.”[2]
Seguendo Longfellow,
vari autori inglesi hanno tradotto la Com-media,
come Lawrence Binyon nel 1933 e Dorothy Sayers nel 1949 ma con evidenti
forzature nei loro tentativi di trasporre la terza rima dan-tesca nella lingua inglese, assai più povera
dell’italiano nel costruire versi in rima. Tuttavia anche in questi
autori/traduttori la propria “voce” si inserisce e a volte domina il mestiere
di tradurre l’originale.
Negli anni ’40 John
Ciardi, lo sconosciuto ma talentuoso poeta/tra-duttore, si impegna nella
“trasposizione” dell’Inferno in
anglo-americano. Infatti è convinto che una traduzione è attualmente una
“trasposizione.” [Vedi le sue “Note del Traduttore”]. Intraprende questa
difficile sfida poiché, come professore a Harward nel dopoguerra, è sempre più
insoddisfatto delle versioni da usare come testi base per l’insegnamento della Divina Commedia. Fin dall’inizio ha
capito l’impossibilità di fare una traduzione “word-by-word”, cioè ricostruendo
parola per parola in ingle-se i versi danteschi. Questa procedura falsificherebbe la vera
natura della poesia, perciò la “trasposizione” è l’unica cosa che si avvicina
alla “tradu-zione”. Per illustrare la sua teoria usa una splendida metafora
musicale: “Quando il violino ripete le note appena suonate dal piano, non può
ricreare gli stessi suoni, può soltanto avvicinarsi alle stesse corde.” [3]. E in
questo caso pure la vasta conoscenza poetica di Ciardi, in combina-zione alle sue
opere di poesia, inserisce sfumature della sua “voce” nei versi danteschi tradotti.
Il noto dantista
Archibald MacAllister, professore sia all’Università di Yale che alla Brown, ha
confermato che “la scelta di Ciardi nell’adottare una versione originale della terza rima (cioè far rimare il primo e
il terzo verso di ogni stanza) riproducevano più fedelmente il senso e suono
dell’originale. Ha anche apprezzato come
Ciardi usa un linguaggio di alto e di basso tono che rispecchia l’originale
dantesco.” [4] E rinomati traduttori come Dudley Fitts, Richmond Lattimore, il
poeta-e-critico Randall Jarrell e il poeta John Crowe Ransom hanno tutti
elogiato la bravura, il virtuosismo ciardiano di traduttore o, usando la sua
stessa terminologia, di “traspositore”.
Robert Pinksy (1940),
poeta, critico e traduttore statunitense la cui versione della Commedia ha suscitato scalpore, ha
optato per una sintesi dell’approccio di Ciardi con la propria “voce” e stile,
prevalentemente free verse. A mio parere nessun poeta/traduttore è sempre
esonerato dall’influenza della propria voce nel “ricreare” le opere di altri
autori.
III.
Come “travasare” e/o
“trasporre” metafore, simili, immagini ecc., presenti nella lingua originale ma
non perfettamente corrispondenti nella lingua tradotta? Lo stesso per strutture
linguistiche, morfologiche ecc.? È proprio qui che il “traghettatore”
dev’essere attento a non diventare “tra-ditore”. Analizziamo l’esempio offerto
dal poeta e critico Giorgio Lingua-glossa nel caso specifico di una poesia di Samuel
Beckett (1906-1989).
Vorrei attirare l’attenzione dei lettori sulla
problematicità del tradurre questa poesia che, apparentemente, sembra semplice,
e invece nasconde grandi difficoltà per il traduttore. Ecco qui due altre
traduzioni (di cui una mia) molto diverse da quelle di Frasca. Io nel mio
modesto tentativo di rendere la quartina originale in italiano ho puntato sulla
forza dei verbi italiani declinati al gerundio… ma, ovviamente, ci possono
essere una infinità di altre soluzioni espressive… Questo per rispondere
indirettamente a chi ripete meccanicamente la tesi del Beckett minore in
poesia, quando invece bisognerebbe leggere la poesia di Beckett come a se
stante, come una modalità espressiva diversa da quelle del teatro e del
romanzo…
Gnome
Spend the years of learning squandering
Courage for the years of wandering
Through a world politely turning
From the loutishness of learning
Traduzione mia:
Gnomo
Scorrono gli anni dell’esperienza dissipando
il coraggio per gli anni vagabondando
attraverso un mondo che gentilmente ruotando
dalla volgarità dell’apprendimento
Traduzione di Frasca:
Passano gli anni dell’apprendimento
A dissipare il coraggio per gli anni
In cui vagabondare dentro un mondo
Che con garbo si libera ruotando
Da ogni grossolano apprendimento
Altra traduzione:*
Gettar via gli anni di apprendistato nello scialacquio
del coraggio al posto di anni di vagabondaggio
attraverso un mondo che educatamente gira attorno
la volgarità d’imparare.
[5]
Gnomo
Anni spesi imparando a sprecare
il coraggio per anni girovagando
in un mondo che fugge con garbo
dal grezzo imparare.
[ “trasposizione”
di A. P. Nicolai ]
La
“voce” del traduttore/traduttrice senza dubbio impatta ogni versione citata.
Come dice sopra l’autore: “ci possono essere una infinità di altre
soluzioni...” Per esempio, ho scelto di tradurre “politely turning” con “fugge
con garbo”: “turning from” può essere interpretato come fuggire; la frase “the
loutishness of learning” con “dal grezzo imparare”. [6] Tuttavia è facile
individuare la voce, il timbro di ogni “travasatore” di questa quartina
beckettiana .
Questo non diminuisce le tante difficoltà, le insidiose
sfide affrontate da ogni traduttore/traspositore. Anche questa è la bellezza
dell’arte, del mestiere e della passione del tradurre.
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, Domenica 6 agosto 2017
_____________________
NOTE
1. Umberto
Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, p. 350-1. Studi
Bompiani. Il campo semiotico, a cura di Umberto Eco. © 2003 RCS Libri S.p.A.,
Milano.
2. John
Ciardi, commenti, The Inferno, p. 293 (Signet Classics, published by New
American Library, a Division of Penguin Books, New York). © 1982 John Ciardi.
3. Ibid.,
p. 294.
4. Ibid.,
p. 295.
5. Ringrazio
Giorgio Linguaglossa editore/traduttore,” La Scialuppa di Pegaso”, come pure
gli altri traduttori citati (Frasca, Diano e Rathgeb), per la loro gentile
concessione di usufruire delle loro versioni.
6. Applicando
gli insegnamenti di John Ciardi, nella mia variante ho seguito “my gut
feelings” (i miei istinti) oltre che l’esperienza di traghettaore/travasatore
per più di quaranta anni
COHELET e
VERMEER
Oh, la nera
bellezza del tuo cantare, Qohelet!
Piove piove ininterrottamente da giorni
e questa è una notte ancora
più cupa,
tutto inghiottito da compatta
tenebra:
annuncio e figura dell’altra
Notte che viene? [1]
Mostro della luce, Vermeer, sempre nella stessa stanza
dove
invita le sue modelle, le posiziona, mette a fuoco
la
luce che filtra dalle tre finestre, poi dipinge, dipinge.
Il
pennello fotografa soggetti, i suoi occhi accarezzano
gli
altri occhi, la pelle ruvida, rosata, incarnadina. Oggetti
e
soggetti con sfondi creati dalla sua mente. Non mente
il
pennello. Guarda, apprezza, riscopre se stesso nei suoi
pesonaggi
riconosciuti da altre vite, da vecchie e cancellate
forse
sublimate situazioni. Vermeer, jazzista di luci e colori
sfiorati
nel ghetto e depositati con tenera-ruvida bellezza
sulle
ragnatele del tempo/non tempo ora sbiadito. Ecco
la
sua folle magia. Qualche critico moderno ha dichiarato
che
i suoi dipinti peccano di staticità. Forse intendeva
di
elettricità: ogni scatto fissato su tela, su carta su cera
pecca
di staticità, mio caro signore! Nei suoi ritratti
le
donne fanno le cose quotidiane e lui le dipinge, dipinge.
Passano
gli anni, lui se ne va nell’oltranza forse mai prima
svelata
o dipinta. Negli atelier, musei, pinacoteche, nelle
stanze
private dei collezionisti vivono ancora le sue colorate
visioni.
Qual’è il segreto,
il
suo mistero? Indescrivibile, irriproducibile la qualità di
quella
luce. Fotografi e pittori moderni hanno tentato, cercato
sognato
di riprodurla ma senza fortuna. La luna resta sempre
la
luna: lo scatto matto non la ricrea, la copia solamente.
“La
ragazza con gli orecchini di perla” e quella con il cappellino
rosso
forse con lui hanno affossato una relazione amorosa?
Nessuno
lo saprà. Amore sbocciato con la prima penellata...
Lei
guarda un po’ persa fuori dalla finestra, lui entra dentro
quegli
occhi grigio-verdi e lì ci resta assopito per tanto tempo,
possibilmente
per sempre.
Luce
è vita raccolta su tela anche se fuori sfarfalla la neve ...
© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo
di Cadore, 24-5 agosto.
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