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giovedì 23 ottobre 2008

CESARE PAVESE
(1908-1950)






Il vino triste




E’ un bel fatto che tutte le volte che siedo in un angolo
d’una tampa a sorbire il grappino, ci sia il pederasta
o i bambini che strillano o il disoccupato
o una bella ragazza che passa di fuori,
tutti a rompermi il filo del fumo. “E’ così, giovanotto,
ce lo dico davvero, lavoro a Lucento”.
Ma la voce, la voce angosciata del vecchio
quarantenne – non so – che mi ha stretto la mano
nottetempo nel freddo e poi mi ha accompagnato
fino a casa, quel tono da vecchia cornetta,
non lo scordo, neanche se muoio.
Non diceva del vino, parlava con me
perché avevo studiato e fumavo la pipa.
“E chi fuma la pipa” esclamava tremando
“non può essere falso!” Approvai colla testa.

Ho trovato ragazze al ritorno, più aperte, più sane,
colle gambe scoperte – digiuno da mesi –
e mi sono sposato soltanto perché ero ubriaco
della loro freschezza – un amore senile.
Ho sposato la più muscolosa e la più impertinente
per sapere di nuovo la vita, per non più morire
dietro un tavolo, dentro un ufficio, dinanzi ad estranei.
Ma anche Nella fu estranea per me e un allievo aviatore
me la vide una volta e ci mise le mani.
Ora è morto quel vile – quel povero giovane –
capotato nel cielo – no sono io il vile.
La mia Nella accudisce un bambino – non so se è mio figlio –
ed è tutta di casa e io sono un estraneo
che non sa accontentarla e non oso dir nulla
e anche Nella non parla, ma solo mi guarda.

E, il più bello, piangeva quell’uomo a contarla,
come piange uno sbronzo, con tutto il suo corpo,
e mi cadeva addosso e diceva “Tra noi
sempre rispetto” ed io, a tremare nel freddo,
a cercare di andarmene, a dargli la mano.

Fa piacere sorbire il grappino, ma è un altro piacere
ascoltare gli sfoghi di un vecchio impotente
che è tornato dal fronte e vi chiede perdono.
Quali soddisfazioni ho mai io nella vita?
Ce lo dico davvero, lavoro a Lucento.
Quali soddisfazioni ho mai io nella vita?
Cesare Pavese

(da:Poesie del disamore, Einaudi, 1968)





Gente spaesata



Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.
Alla sera, che l’acqua si stende slavata
e sfumata nel nulla, l’amico la fissa
e io fisso l’amico e non parla nessuno.
Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,
isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni
(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)
dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,
di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.
Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,
a innalzare colline di verde sul piano del mare.
Le colline mi vanno; e lo lascio parlare del mare
perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.

Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne
faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta
e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi
per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.
Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.
Se domani sul presto saremo in cammino
verso quelle colline, potremo incontrar p’er le vigne
qualche scura ragazza, annerita di sole,
e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.
Cesare Pavese

( da:”Antenati”! in Lavorare stanca, Einaudi, Torino, su Antologia italiana contemporanea, di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini,Firenze, 1972)





Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
Questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese

(da: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino, su La poesia italiana contemporanea,di G. Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, Firenze, 1972)





SANDRO PENNA

(1906-1977)


La vita….. è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce a me vicino
un marinaio giovane l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
Sandro Penna

Le nere scale della mia taverna
tu discendi tutto intriso di vento.
I bei capelli caduti tu hai
sugli occhi vivi in un mio firmamento
remoto.

Nella fumosa taverna
ora è l’odore del porto e del vento.
Libero vento che modella i corpi
e muove il passo ai bianchi marinai.
Sandro Penna

Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
Sandro Penna
(da: “Tutte le poesie”, Garzanti, 1972)



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