Poeti molisani tra rinnovamento, trasgressione e tradizione di Mario M. Gabriele
SECONDA PARTE
GIOSE RIMANELLI
(15) Quando si parla di poeti e scrittori esclusi o
dimenticati dai circuiti editoriali più importanti, si vuole solo evidenziare
uno status di emarginazione culturale che colpisce sia i poeti autoctoni sia
quelli residenti all’estero. Ci riferiamo, in particolare a uno dei casi letterari
più emblematici e controversi, quello di Giose Rimanelli, uno scrittore che,
sradicato dalla realtà molisana e di fronte ai guasti provocati da una società
fortemente industrializzata, come quella americana, nella quale egli vive e
opera ormai da molti anni, non esita a denunciarne i dati negativi, con un
impegno che ci ricorda quello del gruppo degli angry young men e, più di
recente, dei poeti della Beat Generation di cui hanno fatto parte Allen
Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs, e Gregory Corso, ma è anche
un intellettuale di talento a cui la critica di casa nostra ha riservato un
imperdonabile silenzio, come ha fatto rilevare Giacinto Spagnoletti nella sua
“Storia della letteratura italiana”-Newton Comptom 1994, pag.856-857,- riferendosi,
in particolare, al romanzo “Tiro al piccione” della prima edizione mondadoriana
del 53 e della riedizione einaudiana del 92. Ma qui ci interessa, la poesia di
Rimanelli scritta in forma di Cantica tra il 1964 e il 1993, attraverso la
quale egli tenta di decifrare i segni e i segnali di culture diverse in un
mondo visto con gli occhi di ”Alien”.E’ un documento etico-ideologico e
linguistico-formale tra i più significativi, che globalizza l’esistente in un
canto epico di rara tenuta ed efficacia, unitario nel suo - continuum- poetico
dove non mancano gli agganci memoriali con il “crudo Molise”, che riemerge come
un fossile nei vari momenti di recupero del passato. La verità è che Rimanelli
è rimasto legato alle sue radici molisane e al concetto di una “Meridionalità”
che, per sua ammissione,va estesa anche ai poeti non residenti in Italia, ”che
hanno però cantato un’unica e comunale pena, un’unica e regionale gioia,
unisona e corale nell’antropologica ansia di ritrovare il germe, le radici”,
così come dichiarato nella “Rivista di Studi Italiani”, dic. 86 giugno 87,
pp.141-142, e riportato da Luigi Fontanella su “Misure Critiche” nn. 68-69
pag.132, anno 1988, e che sta pure a dimostrare come il dato geospirituale e il
trapianto dell’io si slarghino su piani territoriali assai diversi tra loro,
per un nuovo conflitto dicotomico città-STATES e Regione-MONDO, verificabili
nel volume dal titolo: Alien Cantica An American Journey -1964-1993-. edito e
tradotto da Luigi Bonaffini - New York -Peter Lang , 1995, con un saggio
critico di Alberto Granese e una Postfazione di Anthony Burgess, oltre ad una
nota dell’Autore, che è una ministoria intorno ad un sofferto recupero di un
magro libro di versi scritti in slangy American, dove emerge la sua condizione
di “Alien” in un paese-pianeta nel quale agisce un immaginario personaggio di
nome Bambolino o Sonny Boy, ovvero l’altro di sé del poeta che finisce con
l’essere il soggetto principale di questa poesia chiamato a misurarsi con
l’oggettività delle cose, in uno sdoppiamento di ruolo, di sentimenti e di
situazioni varie, anche se a condurre il gioco (e che splendido gioco!) è il
poeta stesso con la sua voce, paterna e premurosa, nel monologo-dialogo e
scissione dell’io parlante:
XLIV (2^ parte)
Barbugli eretto allo specchio oh Bambolino mio diletto
me stesso sei là che m’aspetti? Questa vita è la mia vita
così sana così piena di carezze di sorprese mi raffina
mi trascina senza fine nella vita questa vita la mia vita
un po’ fragile un po’ facile ora tenera ora tremula ora
petalo ora palpebra ora palpito ora porpora ora turbine
ora cardine ora pettine ora platino ora viscere ora
redine
ora polvere ora lampada questa vita la mia vita così
strana così piena può stordirmi può fermarsi può
chiamarmi
dove crede nei crepacci nella neve sopra il sole le
bufere
questa vita la mia vita è l’amante d’ogni sera
m’idoleggia
mi raggira e mi abbraccia lei mi crede questa vita
la mia vita è la sola che possiede: tu non l’ami? Eppure
Bambolino lei ti veglia: è un’ardente lampada di fede.
Se è vero che “ogni emigrazione è una lacerazione”, come
ha scritto Rimanelli nell’Elogio per mio padre”, capitolo 2 del suo recente:
“Dirige me Domine, Deus Meus”, riportato da Giovanni Tesio nella Postfazione al
volume di poesie in dialetto di Rimanelli dal titolo: I RASCENIJE, Edizioni
MobyDick-Cooperativa Tratti-Faenza-Giugno 1966, allora è anche vero che i
materiali etnici ritrovati in questo viaggio americano, in particolare: qualche
zolla del Molise, alcune gocce d’olio di frantoio e l’immancabile rosolio di
casa, sono da considerare veri e propri legamenti territoriali dai quali
ripartire per capire le utopie, i sogni, gli allarmi psicosomatici e
psiconirici come quelli dichiarati a pag.138 , Cantica LII di “Alien “
per Joseph Tusiani
L’aroma giunge a sbuffi dalle scale
angolo di letto, focolare.
Children growing guns in band,
scrisse Ralph sul giornale.
E corrono i vicoli, le strade,
uccidono se stessi, i loro pari.
In fiamme sono i villaggi
in questa Merica di sogno dei miei avi,
tutto è possibile niente è strano.
Io soltanto. E’ spesso, solo solo al buio,
mi scruto se ho il cancro, mi siedo
accanto al letto o sul divano, di profilo:
penso lontano, oltre il mare oltre i fuochi
i giochi del bimbo che ero, il suo esilio
designato. Niente è più nuovo,
eccetto domani, appeso a un filo.
Da qui il desiderio di ricerca di un paese innocente che
rivive nella indimenticabile “Kalena”, dove approdare e ri(nascere) fuori
dall’inferno metropolitano, prima che ”l’asma” ritorni pag. 12-, e metta in
circolo il meccanismo del disagio esistenziale trasferito su Sonny Boy il quale
svolge il ruolo di “passenger”, ora abbagliato dalle insegne al neon delle
notti tiepide di Chicago, ora fermo vicino ai fiumi che di reale hanno solo i
simboli della civiltà dei consumi, con l’Hudson macchiato d’olio e il Minnesota
River, diventato un canale di fango. E’ un viaggio che mette in luce violenza e
degrado, paesaggi primordiali come quello del vertiginoso Grand Canyon e visioni
di azzurri nerastri come i cieli di Santa Barbara e Berkeley, tra fumo e caos,
in una fitta topografia di luoghi come il “ lercio King Midas Saloon”(pag.12),
o l’O.K. Corral del Montana (pag.58),tra città e quartieri che bruciano, come
Los Angeles e il Bronx (pag.140) e “ vichi camionali “ dove / ragazzi non più
teneri crescono armi nelle mani /....” / giustiziano se stessi i loro pari “ /
( LII Ter-pag.142 ) fino al reportage di alcuni eventi di cronaca nera, come
quelli sulla “setta di cultisti del Branch Davidians, rinserrati nel loro Ranch
Apocalypse, cremati vivi nelle fiamme e nel fuoco delle loro baracche di legna
“ ”con quelle loro sofisticate armi, quei mirini pronti, innescati / e cibo,
provviste da durare fino alla fine del mondo” : il tutto come in un rapporto
informativo intorno alle cose e ai fatti quotidiani , dove il punto più alto è
costituito dalle storie narrate ed assemblate in una interazione
plurilinguistica, che mette allo scoperto civiltà letterarie diverse, fino al
recupero paleografico del “verbum” latino, all’interno di qualche tema
squisitamente metafisico (Cantica XVIII pag.48).
Poesia questa di “Alien Cantica An American Journey”, che
attraversa il mondo con ampie graffiature chiaroscurali i cui segni si saldano
e si fondono all’interno di uno sperimentalismo, che mette in evidenza un
lavoro molto controllato, raramente di laboratorio o di pratica oltranzista,
già iniziato con “Carmina Blabla”, Rebellato, Padova, 1967 e Jazzymood (1999),
fino a “ Alien Cantica An American Journey “, che si differenzia per i diversi
tracciati e segnali semiologici e psicoespressivi attraverso i quali, Giose
Rimanelli, recuperando gran parte della Neoavanguardia italiana e passando per
la Beat Generation, realizza una personalissima poetica nell’ampio panorama
della cultura contemporanea euroamericana .
Di questi esiti, Egli ne dà ampia documentazione
attraverso il mèlange linguistico, che si colloca tra mondo esterno e mondo
interno; non a caso il viaggio di Bambolino o Sonny Boy è uno smarrirsi
continuo nella società contemporanea che vive in un Inferno dantesco rivisitato
in chiave moderna attraverso Storie o Cantiche, che diventano rappresentazione
crudele e, a volte, spietata di tutto ciò che sta davanti agli occhi, per una
denuncia anche critica del quotidiano negativo.
“Alien Cantica An American Journey” resta un documento
esemplare, nella sua eccezionalità poetica: un vero e proprio “poème en prose”
come autentico messaggio lasciato dal poeta nel suo lungo girovagare per
l’America. Ma è anche un appuntamento retrospettivo, con ampi agganci mentali
agli affetti familiari, che rivivono in pagine “molisane” messe in “Appendice”
e nel pieno cuore della “Cantica”, all’interno di un’atmosfera di ricordi e di
gestualità indimenticabili, con una pluriscrittura psicanalitica che avrebbe
certamente fatto piacere a Jacques Lacan.
Oh va’ via da quel lercio King Midas Saloon
sull’autostrada
con le sue sguerce slabbrate minifucks fuggite di casa
e Reverend Spoon pastore di condoms e dildos che sparla
con strazio di AIDS e doomsday nel suo colmo bicchiere.
Ma questo a parte, tu sei stufo di birra di sbirri.
E adesso ascoltami bene, Bambolino: scivola intatto
nello spacco di scalpo che ancor hai un rock o un rap,
metti un piede avanti a quell’altro e se la porta ti
sbatte
alla schiena cacciandoti fuori non battere ciglio: hai
solo
dopo tutto lasciato mammolette, primroses di sfatti
giacigli.
Impala la notte: non vi trovi sbadigli ma maglie di
stelle,
e non sbiancare d’orrore nell’improvviso tremore (terrore?)
che ti scaglia fuor del paniere per quel sadico muso di
rossa
Corvette che di balzo sbuca dal buio e quasi t’annusa
rincorsa com’è da cops e strida e lampi di corte
mitraglie.
Questa è la tiepida notte di Chicago, anni dopo Al
Capone.
Non vedi quelle luci blugialle blurosa di pelle carnosa
che abbagliano tagliano visi risate di gente ch’esplode
su strade balconi, e quelle cosce muschiose che
sfrusciano
ansiose d’amore? Effluvio di vita di morte nel cuore.
Letti profondi, sensuali guanciali un po’ lustri di bava
palustre aggrumata come quel tempo, ad Amsterdam, in
vuote
sere di bile cercando Van Gogh il quartiere degli
Albatros
dei mariners affogando sonno libidine nell’acqua lustrale
dei canali per paura che addosso ti crollasse il mattino.
Su su, Bambolino: guarda quel mambo di gambe quelle mani
quei culi quell’oceano ondoso di anche di curve con
labili
sibili passandoti accanto, e osserva mano a mano la mista
conserva di coppie con mano nella mano e le altre,
spogliate
forse di affetti, annoiate e distratte, domandagli: come
mai?
Ma subito il ritmo s’impiglia, il rap è finito ed un
frale
vento di mare, perfido australe, ora sale dal lago si
mette
ad urlare, ferito animale, nelle valli nevose della tua
mente.
Forme d’ombre remote, di ore alterne, ora ruzzolano lente
dalle lanterne del Parco. E’ giorno di nuovo, e l’asma
ritorna.
Altre occasioni poetiche Rimanelli le ha formalizzate nel
tempo con editori italiani; ricordiamo a tal proposito, il volumetto pubblicato
da Caramanica nel 1998, con il titolo Sonetti per Joseph,, fino alla recente
plaquette Terzine estorte dal silenzio, Enne, 2004, dell’editore molisano Enzo
Nocera, a parte alcuni volumi di narrativa pubblicati presso l’editore Cosmo
Iannone di Isernia. Chi ha seguito da vicino il percorso letterario di Giose
Rimanelli non può definire questo scrittore e poeta un monolinguista, in quanto
sono tanti i referenti a livello di significante assorbiti nell’ambito di più
civiltà letterarie, a cominciare dal classicismo medioevale al neorealismo,
dalla Neoavanguardia, alla letteratura angloamericana di Charles Olson ed
Herman Melville, da Samuel Beckett, a Pound, da Walt Whitman a Ruben Dario, con
qualche curiosità metafisica verso George Poulet, come rivisitazione e riappropriazione
temporale dei suoi cinque anni trascorsi nel seminario di Ascoli Satriano in
Puglia, che gli consentirono una intensa acculturazione dentro un orizzonte
occupato totalmente dal medioevo, dalla patristica ai mistici, dalla
letteratura religiosa controriformista ai quaresimali di Padre
Semeria.(Sebastiano Martelli).
Ma l’elenco delle frequentazioni letterarie è soltanto
sbrigativo, e non rende giustizia delle ampie letture dalle quali Rimanelli ha
limato i suoi arnesi, per un mestiere, quello dello scrittore, aperto a
tutto campo. Il suo dinamismo linguistico non è mai
conclusivo: da qui l’ansia di rimescolare le carte in tavola, per rimettere
tutto in gioco e riscoprire la realtà perché il materiale dell’arte,
parafrasando Bradley, non è mai lo stesso. Il giudizio estetico di Bradley, che
rileviamo, casualmente, da una lettura sul concetto relativo al metodo di
analisi della realtà, proprio di questo esponente del neohegelismo inglese,
autore, tra l’altro dell’opera Appearence and Reality, Londra, 1893, ci porta
indirettamente a ciò che ha scritto Anthony Burgess nella Postfazione al volume
“Alien Cantica” e che si collega, per certi aspetti, al pensiero di Bradley:
Giose Rimanelli è uno di quei notevoli scrittori che come Joseph Conrad e Jerry
Peterkiewicz e, tra i suoi conterranei, Niccolò Tucci, è passato all’inglese
dalla sua prima lingua proponendosi di ringiovanirlo in maniera che pochi
scrittori, benedetti e appesantiti dall’inglese come loro lingua primaria,
hanno potuto fare.In un certo senso ogni scrittore nutre il desiderio di creare
non solo opere d’arte nuove, fresche ed originali, ma anche ricreare la
medianità del linguaggio. La tesi di Bradley e l’enunciato di Burgess tornano a
conforto del nostro giudizio per cui il linguaggio di Rimanelli è una
riconduzione agli stadi di una lingua-forma, inconsciamente e volutamente
archetipa e inedita, che lo fa apparire, di volta in volta, il maudit di
sempre, il camminante sotto cieli diversi, barbaro e angelo insieme,
malinconico e Bambolino nei momenti di abbandono o di rivisitazione del
passato. La ricerca paleoneometamorfica della parola rimane per Rimanelli
autentico materiale dell’arte riproposto sempre come rapporto/confronto con sé
stesso e la realtà. La spinta esponenziale del linguaggio fa sì che si apra a
ventaglio la maggior parte del dizionarietto dei termini critici
(stilistico-linguistici) facendoli confluire e oggettivare come materiale
dell’anima. Ci riferiamo al dolore-esilio-rancore, che mettono allo scoperto un
insieme di informazioni collegate fra loro come unità centrale. Qui aggiungiamo
anche altri aspetti come per esempio l’ortografia psicofonetica, il reiterato
uso e abuso della parola inventata o recuperata, le affinità ideologiche con i
gruppi culturali più avanzati, che costituiscono solo una pagina
dell’esperienza letteraria di Rimanelli, il quale non dimentica né la
tradizione né la seduzione linguistica autre, ma neanche l’amore per la sua
terra, che rivive in tutte le sue opere di narrativa e di poesia. Non vi è
dubbio che a rimarcare il significante sia sempre l’aggancio ad una situazione
psicologica tesa a individuare in due patrie, lontane e vicine: l’America e il
Molise, due territori di storia e di memoria, di sogno e delusione. Non a caso
la silloge Sonetti per Josseph diventa un transito poetico fatto di pensosa
meditazione e rievocazione della vita, anche se a prevalere è la religione
della morte che entra nelle pieghe spirituali del poeta e ne fa un cantore di
calda ironia e fredda lucidità tra presente e passato, mito e realtà: una
poesia che accomuna dialetto e lingua, storia e tradizione, innovazione e
sperimentalismo, per spaziare in quella zona misteriosa dalla quale è difficile
captarne le origini, come quelle che hanno dato vita alla miniplaquette, Terzine
estorte dal silenzio, tutte sostenute dal gioco della parola e dall’ironia,
dove vanno a collocarsi inserti di saggezza della quotidianità dell’essere, tra
sound jazzistico, e un tenero amore per il creato. Ma chi meglio di Rimanelli
può descrivere la sua poetica quando afferma: Solo chi è lontano conosce la
pena di non essere vicino. E ciò si applica all’amore. L’amore può essere
carnale o mistico, amicizia o intellettuale conoscenza, partecipazione in
progetti altruistici o richiamo di aiuto. E l’amore si mostra specie quando è
mostrato. Il mio amore per il Molise ha sapore di fuga e ritorno, smemoratezza
e riconciliazione. So che affonda nella terra, nei suoi fiumi, nel sarcasmo che
mi saluta, nel sorriso che m’invade, la stretta di mano sul crocevia. Il mio
amore è il fanciullo che è partito ed è l’uomo che ha inventato il mito Molise
per potersi risciacquare nei suoi fiumi. Con questa password d’accesso diventa
facile per il lettore introdursi nelle opere di questo scrittore, che anche
dopo la lacerazione di Ground Zero, rivive la sua storia umana e letteraria tra
l’America e il Molise, con l’animo e l’avventura di un viajero en el mundo.
II
Panico volo
su curve viscide vie
nella accecata Savannah
per infine crollare sfinito su griglie
di magnolia e ortica, un mondo feroce
di coleotteri e formiche.....
Il mare
giù giù rantola e sbatte
ma qui nessuno verrà a cercarti
imboscarti
parlarti di vocazione rimorsi
fughe astiose notturne
come quei gatti
di ròtte grondaie o quei cani
quei cani còtti di sole di sale
sull’asfalto che fuma.
Per lui solo
c’erano state notti escoriate
insicure trascorse nel brivido fosco
del chiaro di luna,
appoggiato come sempre per caso
col suo capo reclino pensoso
sulla crosta di muffa
della vecchia persiana di casa
nel crudo Molise
quando i sogni (essi pure) erano
draghi.....
Ma così disteso rappreso,
non vedere non sentire:
mentre il rombo che arriva
col giorno è solo il turbine sordido
delle odiose scorie di ieri.
*
Ma poi ti dicevi,
certo stupito atterrito i chiusi pugni
sul petto sul viso
e il male all’anca alla schiena.
Oh su su , Bambolino,
ancora e sempre sepolto imbottito
nel fradicio mito del fortes fortuna, etc.?
Svegliati, per favore.......Ma non strozzare,
ti prego, quell’ansia sorda d’anni
pieni felici trascorsi
nell’enigmatico foglio della parola
e ad uno ad uno contati stipati
nell’umida cella assolata del cranio
con appena una sedia una branda,
nessun cielo alle sbarre, finchè la morte
non tornasse a prenderti di nuovo.
XIX
Mia madre le mie vie
bastarde insidiose flessuose amorose
rotonde profonde le mie vie
nel sole e all’ombra di platani olmi
le mie vie di vie chiassose sassose
turiboli e triboli sulle vie del mondo
Mia madre le mie vie
una mappa di vene di pori
tortuose mostruose di senape sale
nodi di ghiande lamine d’oro tra rovi
nel fango di vie cercando la mia via
che sale le scale porta nel mondo
Mia madre le mie vie
una testa che scoppia di pena tremori
ineffabile amore d’amore ma tu a stento
ancor vivo nello scroscio di tuono
che taglia la sera perfora il buio di vie
su cui arranchi guardandoti intorno
Mia madre le mie vie
icona all’incrocio di vie con fiori
secchi la testa reclina mentre a distanza
sopra ponti di vie mangiate da tarli guide
frustano cavalli carichi di pacchi sudore
nell’incomprensibile dolore
V
Oh va’ via da quel lercio King Midas Saloon
sull’autostrada
con le sue sguerce slabbrate minifucks fuggite di casa
e Reverend Spoon pastore di condoms e dildos che sparla
con strazio di AIDS e doomsday nel suo colmo bicchiere.
Ma questo a parte, tu sei stufo di birra di sbirri.
E adesso ascoltami bene, Bambolino: scivola intatto
nello spacco di scalpo che ancor hai un rock o un rap,
metti un piede avanti a quell’altro e se la porta ti
sbatte
alla schiena cacciandoti fuori non battere ciglio: hai
solo
dopo tutto lasciato mammolette, primroses di sfatti
giacigli.
Impala la notte: non vi trovi sbadigli ma maglie di
stelle,
e non sbiancare d’orrore nell’improvviso tremore
(terrore?)
che ti scaglia fuor del paniere per quel sadico muso di
rossa
Corvette che di balzo sbuca dal buio e quasi t’annusa
rincorsa com’è da cops e strida e lampi di corte
mitraglie.
Questa è la tiepida notte di Chicago, anni dopo Al
Capone.
Non vedi quelle luci blugialle blurosa di pelle carnosa
che abbagliano tagliano visi risate di gente ch’esplode
su strade balconi, e quelle cosce muschiose che
sfrusciano
ansiose d’amore? Effluvio di vita di morte nel cuore.
Letti profondi, sensuali guanciali un po’ lustri di bava
palustre aggrumata come quel tempo, ad Amsterdam, in
vuote
sere di bile cercando Van Gogh il quartiere degli
Albatros
dei mariners affogando sonno libidine nell’acqua lustrale
dei canali per paura che addosso ti crollasse il mattino
Su su, Bambolino: guarda quel mambo di gambe quelle mani
quei culi quell’oceano ondoso di anche di curve con
labili
sibili passandoti accanto, e osserva mano a mano la mista
conserva di coppie con mano nella mano e le altre,
spogliate
forse di affetti, annoiate e distratte, domandagli:: come
mai?
Ma subito il ritmo s’impiglia, il rap è finito ed un
frale
vento di mare, perfido australe, ora sale dal lago si
mette
ad urlare, ferito animale, nelle valli nevose della tua
mente.
Forme d’ombre remote, di ore alterne, ora ruzzolano lente
dalle lanterne del Parco. E’ giorno di nuovo, e l’asma
ritorna.
VIII
Eri una pianta tra le piante del cielo:
intruglio di scorie metalli gialli fili
di paglia con quel tuo eterno rincorrere
la strada che abbaglia, la freccia che taglia,
un flusso felice che ammassa di rosa le sere
la neve il silenzio il rapido amore le voci
l’astrale
richiamo oh fly the friendly skies
sull’eremo strano di quest’altipiano.
Ora strusciano e passano, vampe di bruno
di miele, solo curve figure: gli sciatori
del sabato; ma poi d’improvviso s’adorna
l’attesa, ritorna la sera nel flebile flusso
che addossa la neve il pensiero a conche di sonno,
a voci vicine lontane ch’echeggiano intorno.
Niente è più incerto dell’oggi sfogliando gerani
nell’eremo strano di quest’altipiano.
Eri una pianta tra le piante del cielo:
adesso più non avrai l’oscuro furioso piacere
di fendere la sera in quelle aspre abituali
trottate dentro scrosci iracondi di pioggia
risate nei morsi crudi del madido gelo appeso
nel cielo come muco indurito ingiallito
da brutali bufere, ma il cuore era sazio sereno
nell’eremo strano di quest’altipiano.
Colmavi di spazio il pensiero anche se tralci
di quest’orribile gelo ancora avvolgevano
di strazio di siero la ragnatela di vene
nel delicato intelletto: uno striato violino
di resina cera che hai cullato sul petto
e udito stridere nelle notti del crescere.
Bruma ora ed oro mesce l’oggi sui curvi ripiani
dell’eremo strano di quest’altipiano.
Eri una pianta tra le piante del cielo.
Un
Minnesota Mike? Wham, bam, thank you, ma’am!
Sei adesso mangiato dai rospi che popolano
stagni fontane e le alture su su, i declivi
su cui cade lo sguardo e dove risplende cinereo
l’occhio sidereo delle campane, quel canto
che ancora t’avvolge t’ammalia di palpito umano
nell’eremo strano di quest’altipiano
XII
Sei entrato ieri sera nel bazar della stazione
per fiuto sapendo che avresti rubato qualcosa.
Sei ancora quel vecchio stupidone malato d’azione
che ha perso pettine e specchio ed ora è Primula
Rossa, violetta stordita che ancora non osa
cancellare in sordina le peste di gatto lasciate
intatte a languire nei pacchi di carta in cantina
dentro i quali si celano scritte gotiche storie,
memorie: tutto un maniero con merli e avvoltoi,
un sentiero di rugginose bombarde, tristi mansarde
inondate di ragni bluastri di stigmate di graffi;
e infine paura d’andare restare cercar di capire
le cifrate voci oltre il muro oltre le fratte
del Tempio, le infrante promesse, emozioni d’intesa
rapprese in nuove magnetiche enigmatiche azioni
con l’apparizione improvvisa di segni come facce
come moniti lampeggianti su rotte labbra di strade
e laggiù anche, verso il fiume, dove rotola la barca
di carta, dove galleggiano frasche e notti di veglia.
Best glue in the joint, per la teglia e la griglia.
Nope. Il linguaggio scompiglia la vita in famiglia.
XX
per Mary de Rachewiltz
Sono un viandante bruciato dal sale,
passato al setaccio dei venti:
ho vertebre enormi, voce possente,
e ho visto, vi giuro, cieli infiniti.
Col mio dio parlo Quechua o latino
ma spesso mi stanco, torno a partire,
a volte non solo, con Pound o Celan,
Dante, Walt Whitman o Rubèn Dario.
Non sono infelice in America né cupo
o collerico, ma non posso dormire.
La notte è velluto, rigurgito d’onde,
ruggito, tremito profondo; è la marea
che a balzi sale le scale alla King Kong,
mossa com’erpice, arpa ed altare.
E’ la canzone del cuore di Delmore.
Hart Crane? Oppure riguarda (non dire)
altre catene? Nulla: tutto è normale
reale quando mi frulla: And I love you.
America, anche se non posso dormire
XXIII
Un melon mis à mùrir sur un rebord de fenètre
de mansarde? Che azzardo! Birth’s out, death’s in?
Certo più non riesci a giustificare te stesso
proprio perché il tuo credo è solo impulso di credere.
Certo più non riesci a sostenere te stesso
perché certe cose solo accadono nel dubbio di credere.
Certo più che altro anche i sogni ne hanno una colpa
se essi poi sono la chiave di queste e quelle cose
come ad esempio il perenne dolente pensare a qualcosa
per non capire non sentire perché condannata è la gente
nel sole nell’ombra dalle feroci mitraglie dell’odio
e nessuno (come olio che scorre) nessuno fa niente
risente le mosse le scosse del disordine e quanto
rinfranca l’orrore del vivere senza più cuore.
Miserere di noi dal rosso fango di Topanga Canyon
al nerastro azzurro di Santa Barbara e Berkeley
dove scivolo in bilico tra fatsos and harlots un po’ uso
allo stufo di cercare ragioni soluzioni rischiose
ai sempre presenti pressanti momenti di scuola lavoro
offrendo il mio onore il mio fiato nell’eterno peccato
di correre e disporre di tranelli parola nell’odiosa
rinuncia d’amore denaro perché quanto è mortale mi nuoce.
Aux
armes, citoyens, il n’y a plus de RAISON.
I came
from HER womb gli occhi fissi upon my tomb.
XXX for Luigi Fontanella
in tempus ludendi
Bella Carnap che incise surrealistici pali totemici
era profeticamente barbuta e parlava con soffice voce.
A volte come in sogno o bevuta camminava allo specchio
tutta nuda mostrando i suoi crudi contorni e l’atroce
presenza del vuoto tutt’intorno i cuscini di pietra
che adornavano d’ombra l’alcova dei suoi vergini incontri
in giorni di fiera e trastullo sopra i monti, ed ora
-anzi spesso-baciava solo se stessa in un buio di tomba
rimirandosi intera come ieri nell’abbraccio fortuito
del nuovo fanciullo portato a valle con suoni di tromba
perché-lei spiegava mascherando orgoglio e passione-
l’amare d’amore è l’acido calice d’ogni buona stagione.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.
E in falsetto recitando Falstaff strillava alle bambole
che adornavano i muri e ammiccavano affrante di gioia
attraverso lo specchio Sì certo non cerco più scampoli
o Bella mia bella anzi penso d’averti infine capita
con la tua spina all’orecchio la voce fioca al mattino
e quello sguardo che più non riguarda l’arazzo e la
stuoia
e scruta inquieto il calore che naviga spento su
colazione
e cene all’aperto (di tutto un’esperta) che ti capita
ora?
Quando ti svegli nell’ancora scialba mia tersa mattina
perché ti ripeti che ci faccio a starmene sola? Stralci
di mondi rimbalzano a fondo nel cranio del povero niente.
Tu hai visioni di cose di fiori in ogni ora del giorno
sebbene un perduto Nessuno ancora ti ama ti cerca ti
adora
ma tu indietro non torni non puoi senza un Qualcuno
che t’esca dai pori ti porti per mano facendoti vecchia.
Riempiva i sacchi del Tempo con sassi e foglie d’alloro,
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.
Se non fosse stato per quei suoi primitivi aggressivi
esclusivi bisogni di fisico ardore e passioni irrisolte
nelle fosche e pur vaghe compagnie di nuovi paragoni
che lei tuttavia riteneva integrali e persino morali
quanto il laccio disciolto dell’abbraccio notturno
col Pinocchio delle sue calve fantasie si sarebbe anche
forse affidata disarmata all’assistenza socio-pediatrica
di scorfane e finocchi cosicchè quei lenoni quei
banchieri
in accorata epistemologica riflessione in spigoli di muri
si facessero meno grassi degli assi di picche con sorte
insicura cosicchè anche le innocenti battone diventassero
un tantino più ricche delle lavande di cloro per prima
cosa abortendo le insane fontane di lacrime su povera
mamma e figlioletto negletto frutto d’amore sudore ora
sola speranza di soldi d’onore di là dall’infame letame.
L’assenza è richiamo di nude colombe e muggito di toro.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.
Quest’oggi l’appartamento di Bella presenta cardini rotti
porte aperte sconnesse senza chiavi o bianche inferriate
siccome aveva a ragione predicato che l’opzione maggiore
della giusta avanguardia è il ripetere il salto già fatto
competere imitando innovando la bile il sudore il candore
dei nonni dei padri su di un altare di franca mediazione
ma nessuno a quel tempo aveva molto capito delle blande
e inibite imitazioni furtive di Lord Lowell di chi arriva
o non arriva in compagnia di Barthes-Darrida cosicchè
sana
ma stanca nient’affatto umiliata anzi reclamando dal boia
d’essere decapitata Bella Carnap da sola andò via
insalutata
dietro lasciandosi appena un minisaggio di delfico tono:
“Ex nihilo tu a volte soccombi alle frane gitane e
conscio
nel magico velo di un esangue sandwich di brame di foia
nascondi quel tuo guazzo d’incastri che ricreano il cielo
ed altre volte d’un tratto ti ritrovi nel torbido pieno
della piena di marzo o nell’alogico giallo del Malevich”
Nessuno seppe mai perché Bella Carnap nemica della noia
fosse curva dalla parte della pena trascurando la gioia.
Più tardi da voci cannibali sentii storie di un suo
rapido
arrivo a Parigi con solo ninnoli misti a cartilagini
tristi ai margini del naso ed al lobo clorotico agnostico
delle sue orecchie già vecchie già del tutto risecche
di madidi odori ed uno squallido fallico bongo del Congo
preso a nolo nei pressi di Porta Portese passando per
Roma
non vista adesso da lei inzeppato di calze pomate mutande
in miste misure con schizzi sfumati fatti con labile
lapis
di scale portali arsenali ditali di fili intrigati
coniati
più altre strutture di sfondi di gore intercapedini fonde
pizzi mostruosi sontuosi di puppole e ponti per poi
finire
forse solo a scopo di morirci di fronte in un plurimista
mistica cornice d’intellettuali tra Salamanca/Barcellona
& environs trovando infine occasione di farsi
cultrice
di folaghe sparse nelle riarse fitte tenebre di Malaga
El Pais riportò una sua foto con barba assai nera
raccolta
sulla nuca a raggiera che definirono rabbinico-lirica
ed era invece di quell’onirico mais che sfocia nel croco.
Sola sola Bella Carnap non era fatta di molto e di poco.
L’ho cercata per mari e per monti senza mai ritrovarla
scansando gli incontri e gli scontri con la gente del
mondo
fermandomi affranto anzi stanco e forse stravolto ma mai
di niente esitante anche in fosche contrade più d’una
volta
chiedendo bussando sia alla porta del destino incrociato
chiamato Circle City dove Charles Olson il sublime
scrisse
un saggio sul mito figurandosi un Maya che nell’acrilica
Greenwich Village di nonno Dominik dove insonne insicuro
pur soffrendo di collettiva amnesia scambiai qualche
parola
di conforto di addio col malato Mister Sax che a quel
tempo
recitava nel suo imbuto un kyrie per Bird l’uomo perduto.
E un po’ tutti ricordavano Bella divulgatrice di frottole
nel muoversi agile su fragili trampoli o quando
indossando
parrucche di trucchi parastorici sedeva su alti sgabelli
o sul coperchio del piano del comico insano Steve Allen
cantando in russo o italiano storie di guerre e dolore
che facevano ridere. Anche in uno stato di bruto
abbandono
lei riusciva a giocare nel guano col rude vecchio pallore
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.
Aveva estasi labili ed epilettiche stasi specie quando
giungeva al suo canto la voce esultante che ogni sua cosa
nell’Est e nell’Ovest era stata irrimediabilmente perduta
alla camorra del tempo; e queste-quasi sempre contenta-
lei le temprava con uno o due sorsi del suo onesto Elijah
del Kentucky in quanto (con grazia cantava) più non aiuta
se in piedi o seduta di faccia o di culo tu sei poi
caduta.
Ma ecco di nuovo inventando una storia andava
poi via di quartieri e paesi solo rinchiusa forse
protetta
dalla nera barbaccia e quelle flaccide brache color kaki
a malapena sorrette da strisce di carta incollate col
muco.
Camminava nel fango dei viottoli con una canna di verde
sambuco dalla quale estraeva suoni d’insetti e ballate
d’estate, sul vergine corpo odori profondi di menta e
alloro.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.
Ora questa pare una storia d’altri tempi perché ovunque
io vada e comunque m’inquadri amici di amici mi squadrano
con occhi pensosi e dicono poi con un certo mistero
perplessi nei bruti ricci peli d’immodeste narici
che c’è sempre un Qualcuno nel giro (un sadico falbo
un medico astuto un atleta incompiuto una mesta
fanciulla)
che chiede o riporta notizie di Bella la quale per nulla
o qualcosa come appunto si dice ha cambiato il suo nome
in quello del signore di Rimini, Sigismondo Malatesta.
E’ stata una festa o così pare: per questa è certamente
altre ed altre gravi ragioni lei non penso che più pensi
di rivedere la soglia di casa spingere aperti i cancelli
e pulire la ruggine nei cardini delle antiche inferriate
per ricominciare tutto da capo con modestia ed amore.
Bella Carnap era fatta di pelle di capra e di zoccoli
d’oro.
Carlo Felice Colucci
(16) Quello di Carlo Felice Colucci, molisano di nascita,
Riccia (1927), è un viaggio poetico di duplice significato, esistenziale e
linguistico, che si compie nel corso del tempo a cominciare da: Una vita
fedele,(1963), La pagaia, (1977), Preghiera occidentale, (1981), Check-up,
(1983), La bella afasia, (1983), Memoria e fuga, (1987), A fuochi spenti,
(1992), Il viaggio inutile, (2003), La materia dei sogni, (2004), Io per le
strade, (2004) e Il tempo del seme, (2005);, opere nelle quali si
combinano,elementi morfologici diversi e figure metriche nella realtà
dell’endecasillabo e del novenario, tanto da creare un diverso livello
musicale, come indirizzo operativo nella scansione del verso e delle sequenze
ritmiche. tra realtà urbana e metropolitana, e sintesi negativa della vita.
Quarant’anni dedicati alla letteratura non sono pochi per chi, come Colucci ha
fatto della poesia un’autentica ragione della propria esistenza, con un codice
individuale e psicolinguistico inalterato nel tempo, che lo ha visto uscire
indenne dalle prove creative degli sperimentalisti, proponendo un universo
poetico, che si riflette sul male di vivere, accentuando l’illimitato senso del
Nulla, in tante short stories in cui la riflessione avviene per scansioni temporali
nelle quali fibrilla e si perde un Io pluriautobiografico. Non è difficile
scorgere in questa ideologia, il credo laicista, fluido ed ellittico,
tradizionalmente alleato con il pensiero negativo di certa letteratura
mitteleuropea, o del tempo della Krisis. L’effimero della vita costituisce per
Carlo Felice Colucci, un insieme di correlativi oggettivi, attestanti il dramma
e la tragedia. Da qui, tutta una serie di richiami allegorizzati da un
linguaggio che ricorre a più referenti letterari, con la citazione “fate questo
in memoria di me”, o a certe gestualità da Ultima Cena, senza che s’intraveda
da lontano, il segno della Divinità, o qualche conciliazione con il Mondo,
nonostante i molteplici messaggi cifrati, laterali ad un discorso
tecnico-scientifico, patologico?, anamnèstico?, holderliniano?, presente ogni
volta che si viene a determinare l’inquieto reportage sulla realtà, e sul
tessuto narrativo di tipo teatrale?, beckettiano? drammaturgico?, rendendolo,
il più delle volte, privato e collettivo, mitigato dall’ironia, che costituisce
un’altra delle figure retoriche, rispetto ad un nichilismo irreversibile.
Trattasi, più in specifico, di una poesia che converge su
un mondo vuoto di prospettive e illusioni, configurato attraverso l’uso di
allarmi esistenziali, nella mescidanza di scatti umorali, riportati in chiave
enunciativa, dove la parola si chiude in sé stessa, oscurandosi in un’opaca
tristezza, che avvolge ogni elemento di denuncia, nel dichiarare il collasso
finale dell’uomo, visto come ostaggio degli eventi e della Storia, genuflesso
in una preghiera occidentale, dopo la perdita della Favola o del Sogno e di un
mitico mondo rappresentato dall’Atlantide che non c’è.
Da codeste “centralità concettuali” nasce e si forma il
grande tomo della poesia di Colucci sul tema monocentrico dell’horror vacui,
che oggi il poeta preferisce darci in endecasillabi percussivi, al di fuori di
ogni considerazione metafisica. E’ la strada percorsa e amata dal poeta in cui
la coscienza si annichilisce di fronte all’immagine della Morte, che assume di
volta in volta, metafore diverse .
E’ il Trionfo del nostro inutile viaggio, quale risultato
della condizione sotterranea e psicologica del poeta che transenna la propria
vita, con immagini urticanti e di estremo pessimismo, per denunciare la
precarietà delle cose, fino a formulare ineccepibili — cantos — , dove la
condizione di provvisorietà si allinea col più alto grado di sofferenza che,
come scrive Giorgio Barberi Squarotti, diventa messaggio di — bellezza e di
verità -.di — tragicità e ironia —.
Dopo la neoavanguardia i poeti hanno estremizzato i
caratteri della Forma, con messaggi inesistenti, attraverso i quali “ si può
stare in ascolto, si può sprofondare nei suoni, si può, se si desidera,
comprendere, attraverso le note, come sono strutturati, ma non si farà molta
strada cercando di verificarne il messaggio generale e i nessi logico-causali”
(Hans M. Enzensberger).
Per fortuna, non sempre è così, e lo dimostra l’ultimo
volume di Carlo Felice Colucci Il Tempo del seme, edizioni Gazebo 2005,
assemblato da una scrittura mimetica e pluriculturale, che sottintende un
andirivieni labirintico di connessioni psicologiche di distacco dalle
illusioni, facendoci perfino intravedere una qualche labile speranza, subito
dopo infranta dall’elemento ideologico e poetico proveniente dalle molteplici
associazioni di negazione soggettiva, attestanti i flussi di coscienza, bene
evidenziati nella prefazione di Marco Forti, il quale risale alle origini
psicoemotive del poeta, e al datum esistenziale, per meglio pianificare la
poetica del Nostro, rapportandola ad una sfericità materica, che ingloba
pensiero e sentimento, storia e neofigure metateatrali.
Colucci in tutti questi anni ha sempre prefigurato
l’immagine della Morte e la sua presenza–assenza, rispecchiando la condizione
dell’uomo contemporaneo, con sulle spalle un passato che crolla e di cui si fa
fatica a puntellare, come ha scritto di sé Giorgio Caproni; condizione che
troviamo anche in questo tempo del seme, dove riappaiono le tracce di un
viaggiatore cerimonioso, che ha visto passare la vita in uno scatto di rem,
tralasciando l’orrido e l’orrifico, per una ragione più alta: quella
dell’umanizzazione del Nulla di cui Colucci sembra essere un cantore
malinconico, smarrito in un mondo sepolcrale alla Friedrich, il più delle
volte, tragico e romantico, ma di un romanticismo che si sbrina davanti agli
stilemi e ai neologismi, mantenendo inalterato il proprio linguaggio
testamentario e noir ” Lui, che dopo aver sfiorato e affrontato anche
lenticolarmente gli esperimenti e le avanguardie letterarie del secolo, i loro
parasintattismi e i loro iposintattismi, pur volando basso, ha preso proprio
ineluttabilmente a volare alto. E certo, non da ora” (Marco Forti)
E qui come non citare qualche breve testo: Dovevamo
imparare a vivere, noi, / e a morire per essere uomini / a non sentirci Dio,
Universo / Luce / quando scrutavi il mare, isole perse / e sapere che
l’Atlantide non c’è, / padre come l’ombra che a notte viene / e che non sa, o
come il mio doppio per vie / remote e sempre più anguste le porte / ove per
traverso bussava il vento, e / capire dovevo chi sono e dove / entrare nel
gioco di suoni e foglie /, imparare tutte le voglie strane / il taglio del
cordone, una festa, complimenti, ossequi di vetro, gli addii / quei rochi ebbri
ritorni di gabbiani /, l’isola di Arturo qui dovevamo / imparare il pudore
violetto, occhi /, pescare nelle sfondate borse, ime /, sigarette e Upanisad
quelle sere / invernali /il nastro più non scrive ormai) /, udire in silenzio
di nuovo il cigno / l’ultima sinfonia della partenza / (tango, vivir y morir
abrazados ) /, imparare ad essere il dottor Niente….
Da “questo luogo tutto interno e invisibile della sua
scrittura in cui dopo aver a sua volta superato un lungo percorso sobbalzando,
caracollando, irridendo, inseguendo contorcendosi e citando, sacrificando al
giuoco sempre mutante della modernità un tenace sentimento poetico: al momento
di cantare, di coglierne i simboli in verticale, lo sfida, lo suscita, lo risuscita
e lo fa agire sì con forza e furore”(Marco Forti), ma anche gridando con un
urlo smorzato in gola tutta la rabbia del vivere, prima di andarsene via
nottetempo, in silenzio, non più per le strade del Mondo, solo come Malone, col
poster d’una vita in due, in tanti / i fiori secchi della ricorrenza / e poco
altro, poco.
Dopo il 1992, Carlo Felice Colucci non pubblica più libri
di poesia, per quasi un decennio, perché afflitto da malanni di vario genere,
avendo a che fare con luoghi di cura non più da medico ma pure da paziente. Il
ritorno all’esercizio poetico avverrà gradualmente, a margine di una
convalescenza che non mancherà di portare primizie poetiche con il volume “Il
viaggio inutile”, (2003), dove la Storia si lega alla vita e questa alla poesia,
in un fitto schedario di memories: ”Madre, / così iniziò la nostra guerra / un
andare e venire, noi, / dalle caverne della preistoria ai / ricoveri di roccia,
alle foreste” (pag.11). Ma sono tanti gli episodi narrati nei quali mancano i
giorni per seminare, e la partita è tutta da giocare, dove solo riscatto è il
distacco paziente e sofferto, solo rifugio la pietas, la memoria dei cari, sola
difesa l’ironia; solo scudo il riso beffardo e scanzonato da clown; e senza
rimedio che il placebo (Nota dell’autore, pag.5). E il cammino poetico, ancora
una volta, è già tracciato: chiamiamolo, prologo, teatro dei fantasmi, o dei
pagliacci, dissoluzione del futuro e trappola dell’esistenza “la conta delle
irradiazioni tengo / ma ancora la vertebra che duole, / duole, metastasi
anch’io, Mater / e niente prole /” (pag.13):" un viaggio che trova la sua
ragione d’essere in quella categoria dello spirito la cui matrice introspettiva
conserva le tracce mnestiche e il silenzio dell’interiorizzazione". (Carlo
Di Lieto).
Per questa via si collega più La materia dei sogni
(2004), dove il pensiero si restringe in immagini chiaroscurali, d’illuminante
percezione simbolica.”Il cuore della terra perde colpi / come quello dei versi
che non leggi / mentre lontano chiama l’arrotino, / metti un lume a petrolio
una buia notte, / Pierrot lunare: quell’ombra che passa / lieve lieve e non
t’accorgi, è la vita” (pag.22). Né mancano elementi linguistici portati ad un
livello di massima tensione concettuale, fino a riscoprire il connubio interattivo
tra parola e immagine.
In" Io per le strade" (2004), permane intatto
il codice esistenziale, come canone bioumorale dove i giri della vita
rallentano di fronte a certe memorie irte / dell’età matura, dentro confini
vuoti e senza sole: Se ho dolori, uso artiglio del diavolo / e su un letto di
Procuste mi stiro / da tempo i mandarini preferisco / e non divoro più il
prozac o il viagra / l’amore senza età sognammo in tanti / e anche Felice ( il
mio secondo nome) /, neppure oggi verrà l’alto postino / a informarmi che
nessuno mi ha scritto / che ormai non sapremo più niente, niente / (pag.44).
Qui possiamo anche andare oltre, spingerci nei dintorni
di una misantropia indotta da una società che non ama i poeti, e che disperde,
giorno dopo giorno, il suo patrimonio di storia e di identità, (Cesare Segre),
pensiero espresso anche dal Colucci sebbene con sfumature diverse (si veda, ad
esempio la sezione -Colloquio con l’autore-) in questo saggio.
L’utilizzazione della poesia, come veicolo di
rappresentazione e di conoscenza del mondo, apre scenari imprevedibili, quando
si raggiungono contenuti di mistero e di enigmaticità, per questo non crediamo
che essa sia inutile, specie quando la sua presenza, finisce con l’essere una
malattia assolutamente endemica e incurabile (Montale). Alcune poesie contenute
ne “Il tempo del seme” (2005), (Pesci rossi al policlinico, Finale di
radioterapia, Prostatiche allegorie, ecc) sono legate alle vicende della
malattia- e come tali vanno lette, se è vero, come è vero, che se l’arte e il
linguaggio fondano la vita, né l’una, né l’altro potrebbero mai esistere fuor
dall’esperienza esistenziale a cui ogni artista sempre si abbevera, anche a
propria insaputa. (Nota dell’Autore, pag.101). Questo volume, inviato alle case
editrici maggiori, rimase a lungo in ombra, né vide la strada della
pubblicazione, non potendo l’autore vantare alcun rapporto di cuginanza con gli
editori, sebbene di — padrini — Colucci non ne abbia mai avuti o conosciuti in
letteratura e in politica, dove si annidano i nomi dei poeti più ricorrenti
nelle antologie e nei corsivi: luoghi di autentica mistificazione culturale.
Una cosa va detta: se il volume “Preghiera occidentale” fosse stato pubblicato,
a suo tempo, da Mondadori o da Einaudi, non ci saremmo occupati ora, dell’invisibilità
poetica dell’autore, e di un delitto letterario in più. Quello che colpisce
nella (sua poesia) è la tenacia, la persistenza della sua parola poetica…
dell’unicità, della solitudine, dello scavo esistenziale secondo la propria
natura” (Marco Forti, pref. a “Il tempo del seme” pag.109), condensata in un
mix di collettive pulsioni nelle quali si percepisce un diario poetico, capace
di trovare correlativi oggettivi, tra figure bibliche, e nuove rovine, nell’ora
che passa e che segna la fine,” me ne andrò via da solo, nottetempo,/ coi
ragazzi di via Panisperna” (pag. 26), fuori da ogni approdo metafisico,"
il mio Gesù non abita la storia" (pag.28).
A volte, ci s'imbatte in fissurazioni lessicali, come ad
annunciare un’altra bufera di sentimenti, e di vita combusta, rilevabili nel
testo L’urlo, col sottotitolo (a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare),
(pag. 30), dove si acuiscono le implosioni psicologiche, attraverso un grido
soffocato, simile a quello riportato nel dipinto di Munch, forse l’opera più
famosa del maestro norvegese, attestante l’angoscia dell’esistenza, che si
riverbera come un angelo nero nella poesia di Colucci, legata alla poetica
delle cifre del vissuto, in cui anche l’Urlo di Allen Ginsberg, pare prestarsi
molto bene all’opera del Nostro, per via del linguaggio fatto di realtà fisica,
fisiologica, biologica, di furore creativo e di allargamento dell’area della
coscienza: un volume, secondo alcuni, che cambiò l’America e anche il mondo.
Per questa via si possono leggere e interpretare le quattro opere- Il viaggio
inutile-, La materia dei sogni-, Io per le strade - Il tempo del seme-,, così
allineate nell’arco di appena un triennio, secondo un racconto con più
capitoli, tra similitudini e paratassi: quattro opere, quattro pedine da
giocare sotto la luce di una temporalità spettrale, bordeggiante il campo della
sconfitta, prima del gorgo.
Nell’inevitabile corsa verso l’ultima sfida, adottando
sempre più frequentemente “distesi” — solo in apparenza — endecasillabi (si
vedano, qui, gli Inediti), Colucci riporta i silenzi e i rumori della vita,
attualizzando il tema degli assenti, che non hanno più voce, né storia o
avvenire, collocati al centro di una realtà metateatrale e nel poco spazio che
resta, consapevole che nella partita che si accinge a portare a termine, non
sono ammessi trucchi, ma solo la parola nuda e cruda, in cui ancora credere. Ed
è in questa metafora scacchistica, che si espone allo scoperto il destino di un
uomo e il suo universo poetico, riflettendo, ancora per certi aspetti, il
“paradigma apodittico della Weltanschaung beckettiana”, in cui la transizione
linguistica è “consapevolezza abbagliante della natura della poesia, e più in
specifico, grammatica dell’ineffabile”.
da: Una vita fedele (1963)
Il pianto d’un uomo
Un giorno, su certe sedie di paglia
s’udiva ancora il pianto d’un uomo,
il canto, un paese, una vita fedele.
E se ne andarono tutti sui carri,
coi lumi spenti, come una fuga.
Qui non sanno le voci,
l’erba e fumo intatti sul muro,
le ghirlande dei giorni
intrecciate con i fiori d’uomo.
Un posto di gente senza infanzia
e cuore uno screzio, gridano forte
i motori, non s’ode
la ruota lenta dei morti.
I pierrot si giocano
pezzi di luna
dietro le case fredde di mattoni
dove rompono silenzio i gufi
e occhi di buio.
Due novembre al tuo paese
Quella sera nessuno ti chiamò
e l’ombre furono sui muri a calce
e noi con loro. Pigiavamo
chicchi d’uva, buccia e semi,
tu dicevi dei nonni
alti negli anni, di ragazzi,
io d’una pianta che non cresceva
al tuo ritorno.
Le città gridavano lontano.
E un sonno stanco ti cadde sul petto
e la neve di tua madre, furtiva.
Novembre sulla porta
inutile tentava di chiamarci.
I morti piangevano da soli
un’altra volta e il vento rotolava
latte vuote nelle selci.
Per una donna
Così veniva l’inverno da noi,
un frutto nel fuoco,
e mia madre sola
a tingere di lutto la neve
e un passo d’uomo.
Così finiva
la carezza del vento,
a un canto nero di primavera.
E alzavano il capo
gli uccelli da le rupi,
spezzavano corde alle chitarre.
Notturno
Anche le città diventano di sonno,
la folla, lasciano pochi neon,
e uno crede che non dovrebbero
se viene da un paese e cammina,
un paese di piccole cantine.
Anche i manichini sono stanchi.
E gli uomini, le cose che tocchi,
il silenzio diventano
tristezza in vetrina.
E due fanali in corsa
dentro la gola alta de le case
non sono i carri senza lume
che improvvisi ti si parano avanti,
lungo i fossi stellati,
a cigolare di gioia.
Tu neppure, Martino,
il tuo peccato è sulla vigna,
fra i mattoni rossi,
il mondo in un’arancia.
da: La Pagaia (1967)
Ritratto d’uomo
Ora nessuno ricorda
agli angoli di strada
sui tetti rossi di stupore
dove abbiamo sepolto
le mie lune d’agosto i lager.
Dov’è quel silenzio di notte
per coprirci,
il vento matto negli ulivi?
Portava un segno nero sulla giacca
il ragazzo che ero
il mare in mezzo ai libri,
e chi può ricordare,
compagno d’alba,
chi rubava orme al tuo roseto
la nostra donna sopr’al molo.
Sapessi almeno dove gioca
mia madre bianca sulle grucce,
dove raccoglie arance per la cena.
Sembrano bare d’infanzia
le case mute qui d’intorno,
bisognerà avere presto
un ritratto d’uomo,
prima che l’incrocio torni rosso,
portare qualcuno sulle braccia.
Nel tuo giardino ho visto ancora
quel cane imbalsamato.
da: Placebo (1975)
Da tempo
Da tempo non ridiamo
non viene primavera
non abbiamo capelli ormai
e nemmeno pensieri parole per
L’isola misteriosa e l’uomo nero
di fronte leggono destini
bruciano vivo il prossimo per gioco
ti ho serbato i giornali
ma niente di noi del viaggio
sordo e cieco all’ora d’Emmaus
e ci danno la buona Pasqua
la buona tavola addosso
ignorando se restar desti oppure
fanno l’anestesia non temere
e che freddo nel cuore degli altri,
da tempo non sogno a colori
non passa il dubbio
non chiedo grazia e nemmeno
mi toccano con un dito un filo
di speranza e sarebbe tumore
il Nicchio gridava la Tartuca
e così di contrada in contrada
l’infanzia collettiva
prova d’artista viola d’amore
nessuno ci lecca le ferite
nessuno ci suona la fanfara
nelle città dell’avvenire e tu
le ombre nella madia il sangue a pezzi,
da tempo non vediamo
non s’avverte dolore placebo
la tosse dei miei fra le navate
e non usciamo dal ghetto
non lasciamo graffiti storie
quei pochi cromosomi a farci
adesso potrei dirti che Melissa
è nome di pianta paese
ninfa tramutata in ape,
da tempo non cerchiamo
non vola il tuo demente e poi
non abbiamo più sonno denti
non abbiamo resto mongoloide
contiamo le rughe agli amici,
che strano silenzio da tempo
sul mio giorno a mondare
lupini e sogni nel metrò,
perché da tempo non crediamo
pecore a destra montoni a sinistra
non vengono i nostri,
non viene il mistral
non abbiamo sedie pazienza
e nemmeno colpe da offrire
inchieste da aprire
domani affiggo i manifesti
del mio sciopero a oltranza,
da lungo tempo attendiamo
che passi qualcuno
sui larghi balconi floreali
e non abbiamo più requiem
partigiano Johnny, in pace
da: Preghiera occidentale (1981)
Paesaggio
E certi hanno profonde cunette,
ho finito i gettoni,
altri i mocassini a punta
gambe di legno cuori d’anginosi
e svolto agli angoli del tempo,
di sogni siamo fatti
miei compagni cancerosi
dentro abitacoli perfetti
la risata è collettiva sì
l’uniforme da Lotta continua
ed uno vorrebbe alle spalle
pugnalarmi in società
uno col naso roso dal lupus ma io
il ragazzo che arrossiva per nulla
sempre la metà d’una cosa
mezzo panino mezza birra mezza,
manifesti d’un’età impossibile
e sempre in piazza giochi di posteri
a beneficio degli spastici
non abbiamo più terra più alibi,
quel nostro ferragosto a sorpresa
nella rossa anguria del mondo,
”è sterile” disse il dottore,
come quei piccoli malanni che
in attesa del grande
e dove ubicati i gabinetti e
quando l’anticiclone delle Azzorre
ma io incerto se notte
se ancora la vile corazza
o un viale aperto e meridiano
il mio vuoto principe assorto
in turbolenze d’aria e di giada,
se in pubblico o in privato se
a chi in collare e tuta blu mi bussa
e nemmeno rispondo, inquieto
al fruscio terribile di carte
nel chiuso della Storia
qui i diversi ancora diversi
i rari salici di paese in paese
la tenda nera nel deserto,
beduino, e fuori il cartello
morto per ferie
Intervista
Non era prevista l’eterna luna
sulle nuche strette e lunghe delle ombre
ai tavoli spogli di amici
un poco d’ansia e passa la voglia,
nato maturato caduto qui e ora
passa la vita a un filo di parole
impossibile inguaribile
in conflitto col potere istituito
terra a tutti e il mio simile
non sono io né alcuno che mi somigli,
dire abbiamo la stessa donna
stessa energia divisa in quanti?
O un’agonia frugale in manicomio
dove in fondo optare per fede,
i signori giurati son pregati
allacciare cinture e non fumare
sette volte settanta è sempre poco,
e quando bambino innaffiavo beato
passanti e un geranio risecchito
quando il vicino di letto muore e tu,
amava tutto l’inesistente
il vuoto boccale dell’amico
la cerca dei miti porcini,
tanto odorava di niente il bosco
di belle addormentate qui e là tuia,
ma nessuno a stringerlo in tempo
in cerchio coi compagni di lager,
nessuno, ecco
adoro ipotesi assurde soia
latte rappreso i turni di notte
e dopo ci buttano sulla strada
piena d’occasioni perse e vagabondi
sulle rotaie sconnesse ci buttano
solo oroscopi ed offerte speciali,
questo è certo: mi voglio molto bene
scelgo attenuanti con cura
chiamo ancora l’appello in terza C
e sempre stento a levarmi di buon’ora,
zeppa memoria di ragazze e marinai
di cose e paesi provvisori, fame
stirpe dell’uomo da un lato e gli altri,
tossicomani dementi cancerosi,
nelle piazze del mondo a festeggiarmi
per poche aspirine e qualche mito
longevo ereditario sto tranquillo
sotto il segno dell’acquario naso in su,
ma in pigiama nessuno mi ricorda
nessuno crede che sia dottore
che abbia una paura più grande,
pro e contro dentro e fuori fa buio
e so di non rispondere a tutto,
solo rifarei il cammino a ritroso
lentamente, con estremi passi
dicendo a ognuno: per sempre
Amate grondaie
“Le masse”, dicevano, le orbe folle
delle piazze, ogni pietra una festa,
all’ombra del Caso o della Storia
sciogliere enigmi proletari
e mai un senso, nemmeno d’adozione,
mai una vita fuori posto
manca un secolo esatto al grande corteo
avviso ai naviganti ai santi e poi
a quel tale sconosciuto calvo e tondo
morto d’infarto per la strada,
riflusso nel privato finalmente,
noi siamo la patria siamo Dio, noi
con quei radi falò sparsi nel vento
e sempre un confine da rispettare
la porta e il gas da chiudere bene
sempre bastimenti in partenza,
c’erano lampioni in ferro battuto
sul molo dove ci fingemmo
donne sole di pescatori
la scarna mano d’addio ai Santi
col lessico fatto a pezzi
la sfasciata sintassi dei padri,
come avremmo potuto saputo
mimare l’antica pena del mondo
sfogliare la nuda margherita ormai?
Dire non dire e niente personaggi
tanto senso di colpa ci attanaglia
il gelo dell’inutile armatura
nessuna trama da spacciare
né droga né sorte né altro né né
il gufo appollaiato sull’infanzia,
“spiacente, l’Atlantide non c’è”,
qui solo pochi ora possono udire
in silenzio il tamburo della pioggia
sulle amate grondaie,
preghiamo,
per il ritorno degli ostaggi
In viaggio
Uno con due valigie grandissime
e mai sapremo chi, e cosa portasse
e il soldato che arriva trafelato
assieme a cifrati ordini matti
io sto solo, invece, e non ho donne
o le serene monachine estive
dal gelato innocente sotto i voti,
chissà come sarà dopo tanto,
né somiglio all’uomo dai lustrini
ma dentro, un vecchio lessico infedele
un bastardo buono da odiare
con cura e nostalgia ragazzi
mai vissuti nel terrore,
chissà uno come farà dopo tanto
un diario di sistoli e diastoli
se manca perfino la memoria
non è dove si nasce, la terra
partenze departs qui e là
quasi “rosa la rosa” fra i banchi
tutti fuori corso e scende l’ernia
scende la notte sempre con ansiolin
i lumini avanti ai cari estinti,
secoli che non abbiamo più verbi
da coniugarci la vita
la vita eterna amen,
farsi le provviste e sparire
con morale d’occasione
o la Storia nuda e cruda ecco
nel segno dell’acquario è il tuo,
impietriti inorganici passengers
are kindly requested io sono tu sei
e lui uno che annunzia ritardi,
all’imbarco numero due eccetera
se con la fine o col principio
se in fila indiana per sempre
non più d’una razza per volta
se con le parole o col silenzio
mite stagione di amnesie
oppure per zigote s’intende ed io
e un secco timbro sul passaporto
cambiando alla prima casamatta,
chi da grande, fortunato e tutto,
impari a contare le belle
statuine del ritorno
le remote bolle di sapone
e basta
da: La bella afasia (1983)
Per un ammalato inguaribile, a L.O.
E’ come salire buie scale
d’una torre medioevale
stremata smania di guarire e di,
anche tu l’hai issata
come lacera bandiera
come noi nato a, sotto il segno di,
o Chi beato salì al cielo il terzo giorno,
secca rosa dei venti brucia
apre l’attesa nuovi sodalizi
ma nell’alcova del dolore
in punta di piedi e sensi di colpa
sulle arsure adesso già t’abbandoniamo
e quei lunghi invalicabili
silenzi di Tartaria
il breve ponte in bilico achtung
fra l’essere e il non essere,
sui binari del tempo ferroviere
la fioca lanterna
che a terra ci fondeva l’ombre,
scoppiano metastasi
avverte zelante l’infermiere
spaccano i vetri tersi della sera
e un minimo progetto di futuro
citostatici più radiazioni più,
una goccia di sonno finalmente
nel tuo deserto letto
ti promettono stanotte
madame la morfina
puttana di riguardo,
oppure e così sia
la bella cachessia
ammen
da: Memoria e fuga (1987)
Circostanza
Bisogna accompagnarli
questi votati a sparire
fino al momento estremo
aiutarli a passare in borghese
di là dal ponte fra due Nulla
e senza parere
senza mai, complici, ammiccare,
come dire gli astri e la sorte
cader di cose quaggiù
di amare gocce per il cuore
nel bicchiere
dita a intrecciarsi per niente
affusolate, un tremulo segnarsi
in tanta buia luce al crocevia
tanto passar d’orbe comete
un andare e venire folle
e tutto all’infinito
eri tu il mio sosia tu
quel tornare imberbe
dove fischiava il merlo
qualche sorriso incerto e
semmai finale di partita a due,
pater, ma a che misteri
nel morir tuo lieve
mi iniziavi,
un pensiero alto aquilone brado
sui prati del Re,
sfiammano le secche parole
sempre più marginali scritture
ed io non so dove fermarmi
viaggiatore ignaro
a mutar lingua
e circostanza
da: A fuochi spenti (1992)
In memoria di Mary e Francis
(Da un ritratto del 1845)
Ricordatevi di me
di me e di noi tutte
le altre come noi in ombra,
siamo le sorelle Mary
e Francis Wilcox di Stafford
eravamo del Maryland
sulle albe correvamo
fra le alte gambe dei boschi
e siamo volate via, anemiche,
molto presto troppo presto,
abbiate cura dei nostri giochi
delle care nostre bambole,
abbiate cura di voi
e delle vostre persone in luce
che tanto poco conoscete,
noi siamo ancora sole qui
ci dicono di aspettare
dove non faranno nidi
uccelli di passo
e non canteremo come una volta
né del male l’agonia,
non rifaremo il verso del lattaio
d’un mondo immacolato,
remember me, in segreto
da: Il viaggio inutile (2003)
Il viaggio inutile
(A qualche viaggiatore)
Come uno sciame di treni, a notte
nave che salpi (è bianca)
su nuvole vincente forse l’ala,
e la paura, così,
meglio la mongolfiera, dici,
l’astronave del futuro,
ma parlami del vicino che ride, ora,
dell’esilio dei compagni,
degli inutili vecchi,
o il bianco vaporetto ed un castello
di sabbia, Madre,
così iniziò la nostra guerra
un andare e venire, noi,
dalle caverne di preistoria ai
ricoveri di roccia, alle foreste,
e l’uomo alla finestra tace,
la nevrosi dei giorni tace,
se fosse una chimera, penso,
ma non fu questo, il viaggio,
non fu di quando solo due mani
e la pagaia (breve),
una pala nell’aria
una pala nel mare,
la stessa fine a sera
un occhio alla fede, così,
lo stesso Papa, e non so
le parole, i segni, le nebulose
non so più i facili anni di latta,
ragazzo che arrossivi per niente
occhi tondi e naso a pagliaccio,
di quando solo due sogni
e un incubo
a murarci vivo il cuore,
ferrovia di cartone,
ma non fu questo il viaggio,
quel popolo scomparso
l’averti per sempre perduta
compagna morta e una cometa, no
allegri naufragi,
il vento inutile, e
chi tradì Anna Frank?
da: La materia dei sogni (2004)
Vestimi di sogni
Ma quando sarà l’ora vestimi tu
di sogni, piano per non lacerarli, e in
bianco e nero sarà meglio sognare,
non ridere troppo di quei fantasmi né
delle bambole in vetrina, i lustrini e
quanti pupi, quanti in sogno doppiati
d’amore, vestimi d’aria e d’inganni
la piccola vita spenta nel sonno,
vestimi tu d’ombre e di sogni d’oro
oggi che spesso devo mendicare
un po’ d’affetto, i giorni della merla
vana risposta di parole e realtà,
vestimi solo di attimi e di sogni
quando sarà l’ora, fa piano tu, qui
col sogno e l’aria cantami una nenia
e dì che avevamo le ossa di vetro
un rosario di silenzi, la vita
da: Io per le strade (2004)
Come sarà
Come sarà questa morte, mi dico
nei momenti bui, di grige paturnie,
ma tarda la risposta, è latitante,
non è cosa da figurarsi, questa,
se poi la ragazza accanto che ride
o qualcuno ti aspetta per la cena
domani mi cambieranno il pace, e tu,
ma non chiedere anzitempo altre nuove
fra mortiammazzati e madricoraggio
le nuove cellule staminali,
ricordiamoci i lumini per papà
l’oscuro passato da trafugare e,
se bevi, pensa alla sete dei negri, oh
loro sanno, come sarà la fine,
la bimba è straniera, non so di dove
e ancora nelle coltri mi rigiro e
penso a una che indossi fumetti e sogni
stanotte, vestimi d’argento, all’alba
da: Il tempo del seme (2005)
L’urlo
(a Me medesimo, un uomo che non sapeva urlare)
Urla, mi dicevo,
bleso, lento, roco
ma che urlo è mai questo
se non esce non tocca non fora
i vetri non rompe del giorno
Viaggio al termine della notte,
e che dura spina è questa
mia fiera impotenza, Mater,
urla, mormoravo
la tua incerta storia
un fatuo blasone
malsani quartieri di periferia
la fame degli Avi, urla,
il viaggio inutile,
dove, uccello, di guano pietoso
ci coprivi ai socchiusi abitacoli
smog a tutti un po’ di smog,
futili miti alla battigia
come insepolti ossi di seppia
o vanesie parole, urla
il misero tempo che resta
il grido canuto, ormai
le stragi annunziate
e fanfare di Nada sovrasta
sovrasta quasi potente
l’eroe in panchina e bretelle,
né ignorare sul magro ballatoio
del condominio il sacco dei rifiuti
le staminali cellule domani,
ma urla, mi dicevo, per Dio!
la carne incombusta
l’antica rosa nel bicchiere
l’Olio di Lorenzo per guarire,
quante viltà soprusi osceni
a me ululate, solivaghi lupi
alle poche Foreste,
in memoria,
le ossa dei vinti urlate quando
cenere dai forni soffiammo con cura
e ancora ci ricopre,
noi malfermi viandanti
sul breve ponte
fra due Nulla eterni
transito interrotto
il mondo in una notte
la parola negata
e non servono i profeti,
urla come la ragazza di Munch,
bambola orante
che dal coma ci risveglia
ove non seppi urlare,
si dispensa dai fiori
e dall’Ultima cena
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