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lunedì 27 ottobre 2008

ARTHUR RIMBAUD
(1854-1895)


BEING BEAUTEOUS

Davanti a un nevaio, un Essere di bellezza d’alta statura.
Sibili di morte e cerchi di musica sorda fanno salire, allargarsi
e tremare come uno spettro questo corpo adorato; ferite scarlat-
te e nere esplodono nelle carni superbe. – I colori propri della
vita s’incupiscono, danzano, e si sprigionano intorno alla visione,
sul cantiere. – E i brividi si elevano e rumoreggiano, e poiché
il sapore forsennato di quegli effetti si carica dei sibili mortali
e delle rauche musiche che il mondo, lontano, dietro di noi, lan-
cia sulla nostra madre di bellezza – ella indietreggia, si rizza.
Oh le nostre ossa son rivestite d’un nuovo corpo innamorato.

******
O la faccia cinerea, lo scudo di crine, le braccia di cristallo!
Il cannone su cui devo abbattermi attraverso la mischia degli
alberi e dell’aria leggera!
Arthur Rimbaud

(da : “Le Illuminazioni”, “I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio, Editore, Milano, 1955)

TRISTIAN CORBIERE
(1845-1875)


Rondello

E’ buio, bimbo, ladro di scintille!
Non vi sono più notti, non vi sono più giorni.
Dormi…. e aspetta che vengan tutte quelle
che dicevano: Mai! Che dicevano: Sempre!

Senti i loro passi? Non sono pesanti;
oh, piedi, lievi! - l’Amore ha le ali….
E’ buio, bimbo, ladro di scintille!

Odi le loro voci?.... Le tombe sono sorde.
Dormi: ben poco pesa il tuo carico di semprevivi:
i tuoi amici, gli orsi, non verranno
a gettare la pietra sulle tue damigelle.
è buio, bimbo, ladro di scintille!
Tristian Corbiére

(da: Amours Jaunes, “I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio, Editore, Milano, 1955)
PAUL VERLAINE
(1844-1896)


1-18

E ho rivisto il bimbo amico: m’è sembrato
che nel mio cuore s’aprisse l’ultima ferita,
quella il cui dolore più squisito m’assicura
d’una morte desiderabile in un giorno consolato.

La buona freccia acuta e la sua freschezza che dura!
In quegli istanti eletti, esse han destato
i sogni un po’ grevi dello scrupolo annoiato,
e tutto il mio sangue cristiano cantò la Canzone pura.

Odo ancora, vedo ancora! Legge del dovere
sì dolce! Alfine so che sia udire e vedere.
Odo, vedo sempre! Voce dei buoni pensieri!

Innocenza, avvenire! Savio e silenzioso,
come v’amerò, voi premute un istante,
belle piccole mani che chiuderanno i nostri occhi!

Nota di Verlaine:- Parigi, giugno 1881, dopo un incontro
con il mio piccolo Georges-

(da: “Sagesse”,” I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio, Editore, Milano, 1955)

STEPHANE MALLARME’
(1843-1898)


Ventaglio

O pensosa, per cui mi sprofondo
nella pura delizia senza sentiero,
sappi con sottile menzogna
serbare l’ala mia nella tua mano.
Una freschezza di crepuscolo
ti giunge ad ogni battito
il cui colpo prigioniero allontana
l’orizzonte delicatamente.

Vertigine! Ecco fremere
lo spazio come un grande bacio
che, pazzo di nascere per nessuno,
non può zampillare né acquetarsi.

Senti il paradiso selvaggio
come un riso sepolto
fluire dall’angolo della tua bocca
in fondo all’unanime piega!

E’ lo scettro delle rose vive
stagnanti sulle sere d’oro,
questo bianco volo chiuso che tu posi
contro il fuoco di un braccialetto.
Stéphane Mallarmé

(da: “ Poesie”,” I Poeti maledetti”, a cura di Clemente Fusero, dall’Oglio Editore, Milano, 1955)
CHARLES BAUDELAIRE
(1821-1867)


Sonetto notturno

Mi chiedono i tuoi occhi, chiari come il cristallo
“Per te, bizzarro amante, qual è, insomma, il mio merito?”
Sii incantevole e taci! Il cuore che tanto irrita,
eccetto l’innocenza dell’antico animale,

non vuole che tu legga il suo segreto infernale,
tu che mi culli con mano che ai lunghi sonni invita,
né la sua nera leggenda con la fiamma graffita.
Detesto la passione, lo spirito mi nausea!

Amiamoci dolcemente. Amore nella sua garitta,
tenebroso, in agguato, tende il suo arco fatale.
Conosco tutti i congegni del suo vecchio arsenale:

delitto, orrore, follia! Pallida margherita!
Come me, non sei tu un sole autunnale,
mia così bianca, mia così fredda Margherita?
Charles Baudelaire

(da: I fiori del Male, Traduzione di C. Bonini, Letteratura e Arte, Biffi e Orrietti, Bologna, 1956)

domenica 26 ottobre 2008

POESIA CECA
JAROSLAV SEIFERT
(1901 – 1986)

Viaggio di nozze

Se non fosse per questi folli baci
non andremmo in viaggio di nozze.
Ma se non fosse per i viaggi di nozze
a che se servirebbero i Wagons lits?

Tremare eterno di campanelli di stazione,
ah Wagons lits , ah vagoni di nozze.
E’ fragile come cristallo la gioia coniugale,
tramonta la luna di miele.

Cara, tu vedi dai finestrini le Alpi,
apriamo tutto, facciamo entrare l’odore,
lo zucchero dei bucaneve, la neve dei gigli,
dai Wagons lits al Wagon restaurant.

Ah Wagons restaurants, ah vagoni di nozze,
esserne ospiti eterni e poi sognare
sulle fragili stoviglie della gioia coniugale!
Fragile, attenti! Si prega di non piegare!

E ancora un giorno e ancora una notte,
due belle notti e due belle giornate.
Dov’è il mio orario dei treni, poetico libro,
oh come sono belle le mie carrozze!

Oh Wagons restaurants e Wagons lits
Oh viaggio di nozze!
Jaroslav Seifert

(Traduzione di G. Giudici,-Poesia del Novecento in Italia e in Europa,
a cura di Edoardo Esposito, II volume Feltrinelli, 2000)
POESIA POLACCA
O.V. de L. MILOSZ
(1877-1939)

Brume

Io sono un grande giardino di novembre, un giardino
sconsolato
Dove tremano i derelitti del vecchio faubourg,
Dove il miserabile colore delle brume dice: Sempre!
E le fontane stillano: Mai più…
Intorno a un ridicolo busto che medita
(Maria, tu dormi, il tuo mulino gira troppo in fretta).
Ballano in tondo le disperazioni del vecchio faubourg.

Non le sentite piangere nel giardino immerso
Nella cieca bruma in fondo al vecchio faubourg?
Povere amicizie sepolte, burleschi amori dimenticati,
Menzogne di una sera! Illusioni di un giorno!
Intorno al ridicolo busto che medita
(Maria, tu dormi, il tuo mulino gira troppo in fretta),
Venite a ballare la nera danza del vecchio faubourg.

La bruma ha divorato tutto, nulla c’è di festoso, nulla
di irritante,
Il sogno è vuoto quanto la realtà.
Ma nel parco dove avete conosciuto l’estate
Si balla, si balla sempre in tondo,
Amici rimpiazzati, amanti abbandonate
(Maria tu dormi, il tuo mulino gira troppo in fretta….)

Io sono un grande giardino di novembre in fondo
a un vecchio faubourg.
O.V. de L. Milosz

(da: Sinfonia di novembre, a cura di Massimo Rizzante,
prefazione di Milan Kundera, Adelphi, 2008)

sabato 25 ottobre 2008

PIER PAOLO PASOLINI
(1922-1975)


Il pianto della scavatrice

II

Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città

e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante;
e ogni andata, ogni ritorno

era un calvario di sudore e di ansie.
Lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte

ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infusi, con tende per porte…

Passavano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva

frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata.

Rinnovato dal mondo nuovo,
libero – una vampa, un fiato
che non so dire, alla realtà

che umile e sporca, confusa e immensa,
brulicava nella meridionale periferia,
dava un senso di serena pietà

Un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria

di chi amava, anche se non riamato.
E tutto si illuminava, a questo amore.
Forse ancora di ragazzo, eroicamente,

e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
Ero al centro del mondo, in quel mondo

Di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri, in quel mondo

che poteva soltanto dominare,
quadrato, spettro giallognolo
nella giallognola foschia,

bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.

Le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là
le povere voci senza eco

di donnette venute dai monti
Sabini, dall’Adriatico, e qua
accampate, ormai con torme

di deperiti e duri ragazzini
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,

i soli africani, le piogge agitate
che rendevano momenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea

affondati nel loro angolo
tra un’ultima striscia d’erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio….

era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa

maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,

chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita

nella sua luce più attuale;
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario,

come la vuole il rozzo giornale
della cellula, l’ultimo
sventolio del rotocalco: osso

dell’esistenza quotidiana,
pura per essere fin troppo
prossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana.
Pier Paolo Pasolini

(da: Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 1976)
LUCIANO ERBA
(1922)


Incompatibilità

Sin tanto che don Oldani
e i venticinque esploratori
si rincorrono su queste lastre di piombo
io mi immagino il popolo delle donne
della cerchia più antica della città.
Addormentate agli ultimi piani
in un letto di ferro
quante sognano la mia sciarpa di sera?
Guardo la città grigiorossa
domenicale, dal terrazzo del duomo
ma potessi volare
ai bei gerani sulle lunghe ringhiere
varcare porte, a piedi nudi
camminare sugli esagoni rossi
poi vedermi alle vostre specchiere
brune ninette, che abitate il verziere!
Partono adesso i crociati
io rimango quassù
con una spia albanese
che fotografa torri e ciminiere.
Luciano Erba

(da: Il male minore, Mondadori, 1960)

venerdì 24 ottobre 2008

ANDREA ZANZOTTO
(1921)


Martire, primavera

1
Il paese scende, paese diviene,
qui con te cede il monte
davanti alle prove immature
di un giorno che tentò grandezze
di colmi fieni

Tu sei custode e causa
dei nostri pochi pensieri d’infermi
chiusi nel denso maggio
da calve piogge e ghiacci di Golgota

E la pietà di maggio s’allontana
per selve e soli
e disperanti attese di papaveri
sulle soglie dei vivi e dei morti
tra i crudi crismi delle piogge

Nessuna svolta di tante strade
si attarda per te
per rifarti tra noi
altro dal ferreo stupore
dall’oscuro limite ove esisti

E noi ti proteggiamo
dall’essere di ciò che ora sei.

2
Si libera il monte il tuo monte
sulla statura di tutti i paesi
e della vita in cui persistiamo
ciechi di piogge e boschi,
le tempie sopraffatte dal golfo boreale
dei cieli che ti consunsero,
impuri e smorti i passi
tra il respiro della bella e l’errore del demente

Lassù non è più luce
forse né azzurro, d’angosciosi pollini
primavera pasce le creste vuote,
sera senza gloria è la neve
tra vischiose larve di bufere,
ma al tuo giaciglio fa guardia
la nera alluvione
quanto è tra noi sorprendono,
ogni nesso e figura
gl’irosi torrenti

Tanti scoscesi terrori
e pietrose distanze violando
rompi tu solo al petto, amore,
tu via più precipite
su noi su tutti i nostri
giorni spezzati e brulicanti,
su tutto il folto della primavera.
Andrea Zanzotto

(da:Elegia e altri versi, Poesie (1938-1972), Mondadori, 1973)

FRANCO FORTINI
(1917-1994)




Foglio di via

Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.

Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d’acqua i rami degli alberi.

Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.
Franco Fortini

(da: "Una volta per sempre", Poesie 1938-1973, Foglio di via, Einaudi, 1978)




PIERO BIGONGIARI
(1914-1997)

Suite Danubiana
For Helen (non goethiana)
(Adagio)

Il passero che non piange portando gran peso gran peso in alto
a Palschach
non solleva né la tua anima né la mia
e nemmeno la sua, se i passeri hanno un’anima – e come può
un passero non averla? –
cadono castagne settembrine qua e là nel verde già aureo
delle foglie morte;
ma tu non piangi né la mia né altra sorte
che quella di un destino che cammina
con le zampe di un passero e non vola
o forse vola con un gran peso, un gran peso,
l’anima che s’é accesa sul lago di questo poeta non laghista,
non carinziano, e nemmeno goethiano,
e nei tuoi occhi Elena, di lince nella caverna infuocata dalle
tenebre
lente ustoria che accende torno torno l’orizzonte
fino a un nido, al riparo, ma il più bersagliato dal fuoco
concentrato
di là dal visibile, da riempire di un’anima, ad evidenza,
commestibile
nella sua otticità che s’infuoca e s’accartoccia.

Gran peso, gran peso, ma mai – sulla bilancia – buon peso,
noi ci mangiamo l’anima tranquilli in questa Tagessuppe,
tu lince, io linciato dal tuo sguardo, nell’ora del primo freddo.
Spezialitàt des Hauses, giorni dopo, oggi, a Palais Palfffy.
Ma quest’oggi, il giorno identificato dell’Identità, non finisce
mai,
tra luoghi alterni, pesi alterni (un’altra) un’alterna identità?
Fuori, a Josefsplatz, fa freddo un –freddo cane nel sole –
e noi ci raggomitoliamo su noi stessi e intorno al rocchetto di
questa piazza attorno a cui giriamo
come se ci fosse un centro, per farlo diventare un centro,
o per nascondere un centro, qua e là, con la scusa di trovare
per esempio un negozio d’immagini introvabile
ma forse non è un filo la pista di un luogo da non perdere
o da non trovare
né tu sei un luogo, né io non sfocio in te né mi allontano da te
immaginando
mentre il cervo tenta il balzo – ricordi, ricordi, qui dintorno-
dalla foresta dureriana, segno immutato del mutevole che
non muta
neanche se il passero riesce
sui bordi abbacinanti di uno Stige
tra le oscure foreste a alzarsi in volo,
immagino che si disfa, preda inimmaginabile.
Piero Bigongiari
(da”Moses”, Almanacco dello Specchio n. 5, 1976, a cura di Marco Forti, Mondadori)


MARIO LUZI
(1914-2005)


Parca –Villaggio

A lungo si parlò di te attorno ai fuochi
dopo le devozioni della sera
in queste case grigie ove impassibile
il tempo porta e scaccia volti d’uomini.

Dopo il discorso cadde su altri ed i suoi averi,
furono matrimoni, morti, nascite,
il mesto rituale della vita.
Qualcuno, forestiero, passò di qui e scomparve.

Io vecchia donna in questa vecchia casa,
cucio il passato col presente, intesso
la tua infanzia con quella di tuo figlio
che attraversa la piazza con le rondini.
Mario Luzi

(da: Il giusto della vita, Garzanti, 1971)
VITTORIO SERENI
(1913-1983)


Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.

Sappi- disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn

Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?
Vittorio Sereni

(da: Stella variabile, Garzanti, 1981)

giovedì 23 ottobre 2008

GIORGIO CAPRONI
(1912-1990)


Preghiera

Anima mia leggera
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.
Giorgio Caproni

(da: Il seme del piangere, Giorgio Caproni – L’ultimo borgo- poesie 1932-1978,
a cura di Giovanni Raboni, Rizzoli, 1980)



ATTILIO BERTOLUCCI
(1911-2000)


GLI ANNI

Le mattine dei nostri anni perduti
i tavolini nell’ombra soleggiata dell’autunno,
i compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.
Perché questo giorno di settembre splende
così incantevole nelle vetrine in ore
simili a quelle d’allora, quelle d’allora
scorrono ormai in un pacifico tempo,

la folla è uguale sui marciapiedi dorati,
solo il grigio e il lilla
si mutano in verde e rosso per la moda,
il passo è quello lento e gaio della provincia.
Attilio Bertolucci

(da: La capanna indiana, Sansoni, Firenze, 1951)