ANGELO FERRANTE
(1938-2010)
Se si eccettua
qualche isolata e significativa esperienza nel campo della narrativa col
romanzo “Marirene”, pubblicato nel 1985 nella collana il “ Gazebo ”, diretta da
Mariella Bettarini e Gabriella Maleti, si può senz’altro affermare che
l’impegno letterario di Angelo Ferrante è da molti anni rivolto sul versante
della poesia, quella cioè che dalle ceneri della Neoavanguardia è venuta via
via a definirsi e a realizzarsi come operazione espansiva sul territorio della
lingua.
Già con “Segni “ -Seledizioni Bologna - 1983 -, finalista
al Premio Viareggio, per l’Opera Prima, Ferrante dà una prova del suo personale
sperimentalismo poetico con un sotterraneo e silenzioso lavoro di
ri(fondazione) del testo, attraverso molteplici strumenti operativi e grafico-semantici,
come opposizione alla comune prassi linguistica. Questa operazione non passò inosservata tant’è che essa
trovò ospitalità nella Antologia “Il segno e la metamorfosi”- Forum - Forlì -
1987-, nella quale Ferrante dà un chiaro esempio di poesia trasgressiva fitta
di plurilinguismo e di introspezioni psicosomatiche all’interno di un lirismo
elegiaco che recupera gli affetti familiari interamente trasferiti sul piano
dei ricordi, come in: “Frammento”, che è solo uno dei tanti testi dedicati al
padre, brevi nella misura del verso e nella conversazione con la morte:
Questa pausa nella vecchia casa paterna il rubinetto
non funziona come al solito non credo che gli si
possa
attribuire tutto l’umido che impregna le mura.
E’ non odo presenze di lui se non del suo odore
di tabacco quando mi guardava correre
nella strada gli si inumidivano gli occhi.
O ancora da “ Album “, che è un monologo lungamente
discorsivo col caro estinto, sotto forma di - epigrafi -:
I riflessi del sole nel bicchiere di vino
un incendio di pampini contro l’arco romano
le statue decapitate ancora un soffio nelle
labbra di pietra
tu incantato gli occhi rossi la voce accesa dai ricordi
il racconto al vecchio contadino erede di Tiberio e Druso
la mano tagliuzzata le dita gonfie e l’unghie nere di
terra
nella pace del tardo pomeriggio d’ottobre
io ti ascolto la tua poesia le favole di un tempo
sorridendo in volo sui latrati dei cani giro sereno
il volto e gli occhi alle colonne.
Qui riportiamo altri due brevi testi non “recuperati”
dall’Autore nella seconda edizione del volume:
non abbiamo più tempo per parlarci
io ho i miei impegni di lavoro sempre più pressanti
mai un’evasione, mai un momento di abbandono
nella nostra casa e nell’orto gonfio di ortiche
tu del resto da quel 4 di agosto
non ti sei fatto più vivo
dopo la curva appena dopo quella che tu vedevi
come un palco affacciato sul paese
mi giunge il brivido del viale senza ghiaia
l’ultimo che hai percorso e ogni volta mi manca
come un ritmo o un fiato e un coccio di questa
mia vita abbandonato
e che rivelano suggestioni riconducibili alla poetica
neocrepuscolare, inevitabile quando il discorso poetico esalta al massimo
l’atmosfera emotiva di tipo larico-familiare, con tutte le varie sensazioni e
percezioni come “Segni ” del passato, ricomposti e assemblati all’interno di un
mondo di solitudine e di abbandono, come in” “Mutazioni”:
*
vieni dolore vieni
nel sangue e nel midollo vieni amore
una storia che langue di sussulti
ha bisogno come il brivido freddo
non cancella i tumulti del mio sogno
*
la strada all’infinito dritta
e lontana sfuma i pampini
nei cui contorni bui non cerco
chi sono né so se sono o fui
*
bambino mio i saraceni si sono dissolti
nella notte dei tempi e i muschi avvolti
ai seni delle statue e alle basole
della città morta quando ti conduco
per mano sul decumano sconnesso verso l’arco
della porta e nei tuoi occhi vedo
le ruote dei cocchi scalpitano
*
condurti sui sentieri nel vento
darti il sole proteggerti dall’acqua
e dalla neve come lieve scorre il tempo
mentre La tua piccola mano nel palmo
della mia cresce e l’accolma
*
è un battito l’uva che gronda
d’acqua alle viti e l’autunno
premonitore come l’ombra che inghiotte
i dirupi ove aspettano affamati
i lupi della notte.
“Segni ”, pur offrendo una spaccatura stilistica, tra il
documento lirico e la proposta sperimentale, rimane, comunque, il primo esempio
di poesia alternativa apparso nel 1982 nel Molise, e che veramente compie una
svolta nel panorama poetico nella regione, che registra nuovi poeti, in linea
con le istanze sostitutive della lingua provenienti dalla nazione. La
potenzialità del linguaggio e il rifiuto di ogni forma archetipa della lingua,
fanno di “Segni” un’opera aperta a vastissime architetture verbali, con forti
sequenze onomatopeiche e fonoetimologiche, in una fitta geografia di simboli e
di metafore, di legamenti ironici e tragici, tutti elementi precursori di una
storia o evento, come specchio atto a riflettere le cifre del quotidiano e le
trame del vissuto.
Protagonista assoluto è sempre la parola, agglomerato di
invenzione e di svuotamento del senso logico della archeologia semantica come
in “Legge matematica”:
*
attonca papino la mogga la giocca
i megalenti lègami legumienti
lègami milèga miagola è un forza
orriprimente del fuggioloso
momento
*
ecco, nel suono, ti avrei telefonofonato
io se tu mi avessi asteppato se tu
non fossi stato inzapiente come al tòsilo
l’è stata una forma di nuerosi con
crisi predessive un perpuerpetuo
sibogno di pianger pingere mingere
( purchè tu non cannaliassi)
*
consopizione sperchirolata spericolocolata
nata una tana da impremissioni introibenti
introibernate in un pomeriggio di pioggiucolucola
quando bibitando una zattina di cocciolato
fumigolante sentii sulle papillole una
stoccatura che mi pelipelò la lingua
ti dissi perché non hai stutoliato il
gas quand’era l’aro l’ora il memonto
prozipio ora non serve sifoliare la
stoccatura me la sono beccolombata digià
così pure nel testo “Segni” che dà il titolo al volume
stesso
*
non è per sfiducia fuga eclissi parzialmente visibile che
un ambiguo egoismo fa passare in second’ordine agonie di
3
mesi: pare che il carcinoma colpisca con crescente
frequenza
le parti basse colon e retto nei pressi del giardino
delle
delizie e NESSUNO ci va a riflettere preferisce coltivare
narcisi nel giardino ubriacarsi di profumi esotici andare
(anda anda) fino in fondo verso la parabola
ellittica/corsa
afrore di cellulose giallocra CLIMAX domani vedremo di
che si tratta/SEMIOTICA SEMIOLOGIA SEMANTICA
in fondo radica unica univoca unisona radicula quel-eme
ch’altro non è se non spruzzo sprizzo dall’erectio
del/ene.
DO NOT DISTURB la notte punge segnali mescola germoglia
anche in periferia PERIFRASTICAMENTE parlando
sto per andare a letto forse non suderò tanto sul
labbro superior forse queste fitte intercostali dolori
precordiali
dimenticami stanotte non russare
COUP DE SOLEIL
non riesco in assoluto a contare tutti i bruchetti
che ruminano travi di memorie sono verdi rossi blu
alcuni antibes (insule antille sicut faville scintille
papille
a mille a mille)
al mattino cadono peli
canuti
sulle scucchie prominenti pelle vizza muscoli flosci
non puoi mica spalmarti di cerone (vade retro
ottusangolo-
il y a du FARD) rosa marrone
(tintarella fittizia) rosantico ambra carne color carne
(da non confondere con il filetto o i tre quarti di
dietro)
dico che chi spezza in più pezzi un pezzo solo
non tollera confronti anche perché il colpo netto
dell’affilato triangolo acutangolo nel punto più
vulnerabile
è (INEQUIVOCABILMENTE) un colpo da maestro
Per questa via e per strutture unitarie più compatte e
armoniose, Ferrante ci conduce, dopo un lungo silenzio, in una ampia sala per “
Concerto per flauto dolce “ - Edizioni del Leone - 1992 - fuori da ogni nevrosi
di linguaggio o di bipolarità stilistiche, attraverso “Ouverture” e “Suite”.
Qui il discorso poetico è veramente unitario, anche per
una maggiore disponibilità ideologica a istituzionalizzare lo sperimentalismo
nelle forme più dinamiche, contro gli archetipi strutturali della tradizione.
E’ già un punto di arrivo, una scelta inequivocabile
dell’adozione di una nuova civiltà letteraria, come spinta in avanti nel
variegato panorama della poesia molisana.
Un esempio di questa nuova evoluzione linguistica è dato
dalla sezione “Ouverture”:
*
dolceonda la mia caraonda bara l’onda
o casino scendono le vecchie al fiume
mentre non rompere ma la speranza è
l’ultima se avanza su carro della luna
infilava mia madre la cruna del suo ago
il sugo il pesce le morte pinne le
flaccide zinne (non un’oscura fine ma
una scomparsa tenera come un’alba sul
mare) o i campanacci delle mucche al
pascolo su lo matese messo lì per caso
quando gemeva un vento sderrupava e
il confuso risveglio di camomilla o
l’attache di una tachicardia improvvisa
come il petto scuoteva l’assenza del
respiro che almeno finisse presto
(oh le conchiglie le concave chiglie
delle barche d’aria carche sul mare)
turba la pace d’erba la macchina che
cuce le foglie della ruta il vento
stuta la fiammella oblunga era non so
di maggio il congresso delle rondini
nell’orto vieni è finita disse il
tocco d’onda di suono lungamente si
appendeva al cielo che anneriva le
labbra ed io le primole sbattuto
l’erba il sambuco il suco m’avea
bucato il palmo e germina ora il già
colmo dolore né potrà lasciarmi
*
nemmeno sancta sanctorum omnium
decembrina novena ardea l’incienso
alba nei vicoli buissimi dal sonno
scardinato e la maglia di lana
corrono in fila i pidocchi e il prurito
nel sogno sfrigola la punta del fioretto
sotto un archetto emerso dalla fucina
con mani nere da lame di coltelli
scorrea il lapis al folio prendevano corpo
il volto di rossano e le labbra di alida
addio kira su opachi lustri il paese
calvo d’alberi al vento non avea
divorato il silenzio delle chiese
*
vacue scintille a vuoto vagolammo
librata l’aria di un uccello mostro
era di vento l’alba luce del chiostro
su di noi che nel fuoco liquido ardemmo
niuna pace a quella assimilabile
serena contemplazione dei gesti
lo stacco impartecipe che i mesti
rondoni strinse con un cappio labile
era una memoria una lieve cadenza
della mente non ancora al cospetto
delle tenebre bianche sciolte in un’ardenza
di fuochi fatui di lapilli nel petto
e si spingeva oltre le azzurre cornici
dei monti ottobrini sfogliati nei fumi
di nebbie precarie attente ai malefici
delle streghe e dei pallidi gnomi
*
perché questo silenzio di lenzuola e di vento?
La poesia non esiste è cavo il cuore
crocevia di letizia e patimento
mai che finisca questo grido
chissà che non compaia all’improvviso
un uccello dalle ali di neve
ma da spirali di luce il nostro passaggio
il contadino aveva le mani di terra
lo guardai come un corvo e dal taglio
tra le foglie il vento aveva mosso un raggio
si schiantava nel cielo dei suoi occhi
e moriva
*
Le superficie sono state lucidate. Ho un piede nell’alba
e
l’altro nella notte. Fammi male ma fallo di nascosto
dolce-
mente. Odori fumano nel triangolo di terra
sull’uscio.
Il nero immacolato si allontana come una palla: Se,
comunque,
l’erba non si dissecca nelle tue estati, puoi adombrarmi
accarezzarmi più piano che sai.
Una traccia: la campana al break
nell’hotel frullato dai piccioni. Dalle vetrate si mostra
un oceano di cielo. Un autunno molisano nero di
commorienza
ha lamentazioni acute spingole nel ventre. Dio se
potesse
urlare! Sebbene agonizzi al freddo lumicino del
martedì-
alla prima silloge sei un angelo incompreso.
Mai- intanto - si chiude il vecchio oggetto. E al
riparo,
ricurvo, nel perfido richiamo delle cose, mi distraggo
nel
toccare i risvolti, nel lucidare il cielo, nel mandarlo
via,
e forse nell’obliarmi appena - destinato a non essere
colore,
fiato, disuguaglianza netta, ma dissolto per sempre.
*
Ecco la beltà trasgressiva di Ferrante, misurata nel
racconto, sobria nella coesistenza pacifica della parola, per farsi, alla fine,
trasfigurazione di un mondo - fisico e spirituale - legato al tempo e sigillato
nella memoria.
A riconfermare in pieno l’esperienza poetica coagulatasi
attorno a “ Segni “ e a “ Concerto per flauto dolce “ è l’ultima raccolta di
poesie : “ Làcero quotidiano “- Campanotto Editore - 1995 -, nella quale
Ferrante esplora e sa esplorarsi all’interno delle cose che concorrono a
formare delle - storie - prive di arricchimenti virtuali, e nelle quali il
disfacimento dell’esistente, ovvero il “ làcero “ è il vero filo conduttore
dell’indagine nei dintorni dell’io, sempre più legato ai temi del ricordo-amore
e della vita-morte, soggetti ugualmente dominanti ed egemoni della nostra
letteratura, che escludono qualsiasi ipotesi metafisica di salvezza e che
tendono a rafforzare la visione laica del mondo e della crisi morale dell’uomo
di fronte al negativo.
Il sapiente controllo dell’automatismo verbale mette in
comunicazione un processo di identificazione tra - l’io - (soggetto esterno
della fabulazione) e il - tu - (personaggio ombra o presenza amorosa), quale
rapporto di natura affettivo-sentimentale, tanto che i personaggi stessi
rappresentati dall’io e dal tu, risultano, alla fine, impotenti di fronte al “
làcero quotidiano”, nella scansione del verso ipermetro e alessandrino reso più
prezioso da un linguaggio di derivazione trecentesca, con vari inserimenti
dialettali, che amplificano il ritmo del discorso, con il trionfo dei
neologismi (multifilter, tempation, matador, ecc.), del linguaggio siculo e
molisano ( u tunnu a la tunnara o règna) e del latino antico (crudelitas mundi,
ecc.), condensati anche in altri testi come - Collage -, Gli stupori del vento
e della neve -,Variazioni sul tema -, Ipotensione-, e - Free love -, ma ve ne
sono diversi, ugualmente degni di citazione, come - Tautologia - o come la
seconda parte di - Segmenti - che attraverso la riscrittura temporale su alcuni
episodi di guerra, carica su di sé sequenze cinematografiche, vivissime e
indimenticabili nel dato fenomenico. Il ritorno cadenzato della memoria alla
propria terra, anche dopo lo sradicamento dalle sue radici, attraverso una poesia
chiaramente - urbana - mette in evidenza il problema della - molisanità - ed -
extra-regionalità - delle opere di Ferrante, che da qualsiasi prospettiva le si
mettano, pongono diatribe al lettore e alla stessa critica.
In questo contesto è d’obbligo ricondurre la problematica
al saggio critico:” La memoria, il ritorno e la fuga” apparso su - Misure
Critiche - Conte Editore -nn.37/39 - X - XI - ottobre - dicembre 1980 - gennaio
- giugno 1981, a firma di Pasquale A. De Lisio che precisa il termine stesso
della -molisanità - che va ricercato non solo nel dato anagrafico del poeta o
dello scrittore ma anche “nella stratificazione di una cultura locale che
ingloba la storia della propria terra e della propria gente”, mentre le
connotazioni poetiche extraregionali vanno individuate soprattutto nelle “ reti
di collegamento e di possibile dialogo con le altre aree nazionali” -
caratteristiche queste che sembrano proprie di Ferrante, per cui dire che l’una
esclude l’altra, significherebbe annullarle con la loro enunciazione testuale,
essendo quest’ultima una connotazione peculiare di questo poeta che non
dimentica mai il - paesaggio molisano - , né le istanze riformistiche della
lingua provenienti dalla nazione In questo senso anche il viaggio misterioso e
labirintico del linguaggio finisce con l’essere tutt’uno con la memoria e la
presenza del proprio paese in un processo interiore di ricerca e di
identificazione.
Quanto al - paesaggio molisano - esso non emerge mai come
sentimento periferico nella struttura del testo, ma è quasi sempre connaturale
alle esigenze biomemoriali del poeta legato alle radici della propria terra che
è spesso rivisitata in ogni suo spazio planimetrico. Tutta l’opera poetica di Ferrante offre squarci sinceri
al - paesaggio molisano -, reso vivo dai luoghi, dalla natura, dal perenne
incedere delle stagioni che si identificano nella dimensione effimera dell’uomo
e del suo “habita”. La riscoperta del - borgo antico - e la riappropriazione
dei miti e degli usi della civiltà contadina trovano spazio e vitalità in un
onirismo delicato che sfocia in un indissolubile legame tra il poeta-figlio e
la terra-madre, dando luogo a tutta una fitta sequenza di rapporti vari, come
ad esempio:” le stoppie e la macina”, “ il silenzio delle chiese e il decumano”,
“ il pioppeto e l’autunno molisano”, “ il contadino erede di Tiberio e Druso”
con la “ superstizione e i “ malefici delle streghe e dei pallidi gnomi”, il
tutto senza sfociare nell’enfasi e nella rivisitazione neonaturalistica
dell’ambiente, mentre il linguaggio opera su se stesso una fuga in avanti, con
materiali iperattivi di vero e proprio - engagement - con le altre proposte del
- centro-, che si sono venute a realizzare durante e dopo la Neoavanguardia. Dopo Lacero quotidiano (1995) e Reperti Fonici (2000) si
assiste ad un ripensamento delle espressioni e delle comunicazioni soprattutto
con Racconto d’inverno, (2002), Senso del tempo, (2003), e Lessico privato,
(2004), che introducono una varietà di temi, non ultimi quelli civili, presenti
nel volume Dentro la vita (2007), nel quale predominano gli endecasillabi e le
terzine, che fanno da ponte al negativo, con la vita illuminata dai ricordi e
dalle immagini, anche se, a conti fatti, sembrano poi più forti i debiti con le
meditate estrensicazioni linguistiche di Zanzotto, (Plinio Perilli) nonchè di
tutta l' area del Secondo Novecento.
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