Commento di Lucio Mayoor Tosi
Quartetti.
Per Antonio Sagredo.
“Io, figlio mio, ho messo al sicuro la tua anima qui in questo noce. Il diavolo possiede solo il tuo corpo. Quando ti sarai liberato di lui, torna a rivendicare il tuo spirito immortale. Fiorisce in giardino” ( S. Rushdie)
“Io, figlio mio, ho messo al sicuro la tua anima qui in questo noce. Il diavolo possiede solo il tuo corpo. Quando ti sarai liberato di lui, torna a rivendicare il tuo spirito immortale. Fiorisce in giardino” ( S. Rushdie)
L’idea di
consegnare ogni memoria di sé, pensieri e poesie, il proprio sangue a una
macchina, non lo rende felice: che l’immortalità possa, debba essere contenuta
in un moderno sarcofago è quanto di più svilente riesca a immaginare, e
sopportare. Destino ineluttabile che sa di condanna, di prigionia!
“ha nelle
sue mani i ricordi e la mia mente”.
Il quinto
elemento, dove risiede ciò che è immutabile, eterno, la dimora di tutte le cose
che esistono e consistono, sarebbe dunque una macchina? E’ inaccettabile.
Disperante.
Dover
rinunciare all’ariosità della carta, alla sua riproducibilità, per consegnarsi
a Moloch:
“Morte, tu
mi rapini i versi e il mio furore,
dai voce
ai finti simulacri della scienza,
perché
soltanto mio è il fine che contesta e disonora
la
maschera che cela l’epitaffio e il suo rancore!”
Il dubbio,
quel che manca alle “macchine pazienti”, è forse l’unico sentimento concesso
alla mente umana per poter capire, scegliere, evolvere. Destarsi.
Dubbio è
quel che le macchine di memoria non possono sopportare: le manderebbe in tilt.
Sul ring:
“Quartetto”. By Antonio Sagredo. Quattro match.
“Il
capezzale è pronto: son io la preda!”
Sull’unico
tema ma cambiando registro, recitando con voci diverse (poiché in teatro
l’attore è vivo, I’m not a robot)
Antonio Sagredo si oppone indossando le sue migliori maschere. Ma l’incontro
finisce con verdetto di parità: non muore nessuno. L’etere è salvo, e così
anche il cestello dei bit. Del resto,
qualcuno potrebbe dire, non è compito del poeta quello di risolvere, se mai
oggigiorno quello di esibirsi.
(Dimenticare Eliot. Ai suoi tempi la filosofia poteva ancora far
brillare sotto e sopra la meccanica. Oggi è nervatura, collegamento, fusione in
un battito).
Antonio
Sagredo indossa maschere nel tentativo di costruirsi un’identità terrestre. Il
difficile compito di esserci si svolge cambiando e modificando le proprie
metafore: un turbine che roteando finirà col comporre l’ologramma si sé
medesimo: poeta che scrive da attore per un non-sé che recitando si disvela.
Intoccato.
(12 nov
2016)
QUARTETTI
“Parea ch’a danza e non a morte
andasse
ciascun de’ vostri o a splendido convito”
Giacomo Leopardi
Pudesse
o instante da festa romper o ten luto Sophia de Mello Breyer Andresen
Quartetto
(4
finali… in macerie!)
1
Quello che in me resterà dopo il
sangue
invidia la mestizia delle macchine
pazienti.
L’ombra che mi dette un vasto oblio
e il confine
ha nelle sue mani i ricordi e la mia
mente.
Morte, tu mi rapini i versi e il mio
furore,
dai voce ai finti simulacri della
scienza,
perché soltanto mio è il fine che
contesta e disonora
la maschera che cela l’epitaffio e
il suo rancore!
fuochi fatui… memorie in fiamme…
segni in cenere…
Ha il dubbio contrito del morente il
carnefice geloso
perché stampi la sentenza il suo
sguardo senza limiti.
Il capezzale è pronto: son io la preda!
2
Quello che in me perderò dopo il
sangue
mi dette un vasto oblio e il
confine,
la mestizia delle macchine pazienti,
i ricordi delle mani e la mia mente.
Morte, tu nascondi alla maschera il
rancore
di un fine che contesta e disonora
della scienza
la ricerca, il suo epitaffio e il
mio furore…
e alla mia voce rapini i versi e i
finti simulacri.
Gelosa delle memorie in fiamme e
delle fatue
ceneri hai il dubbio del carnefice e
del morente.
Sul capezzale non hai confini se per
una sentenza,
e il tuo sguardo io sono pronto: son
io la preda!
3
Quello che in me perderò dopo il
sangue
sarà la cenere che contesta una
sentenza
e disonora il mio furore e la mia
scienza,
l’ombra invidia dell’epitaffio il
vasto oblio.
Morte, tu mi hai dato un rancore
senza fine,
la mestizia delle macchine pazienti,
un confine e il dubbio di finti
simulacri.
Nelle tue mani non ha voce la mia
mente.
I versi miei e le mie ceneri senza
limiti
stampano i ricordi di un carnefice
geloso
che nello sguardo nasconde un vuoto
capezzale.
La memoria è approntata: son io la
preda!
4
Quello che in me resterà dopo il sangue
disonora l’ombra, il vasto oblio e
il vuoto.
La mestizia delle macchine pazienti
stampi l’epitaffio del mio furore
senza fine.
Morte, che la scienza dei finti
simulacri
contesti il dubbio e il confine del
mio rancore!
Che la mia voce sia invidia alla mia
mente,
una sentenza nelle mie mani una
memoria.
I versi e i ricordi non hanno limiti
nel dubbio.
Sono contrito e geloso di un
carnefice morente
che nel capezzale ha uno sguardo in
fiamme.
La ricerca è approntata: son io la
preda!
antonio sagredo
Vermicino, 28/05 -10/06 2003
1 commento:
Questi testi di Antonio Sagredo sono spartiti di un concerto per voce sola, che si trova ad affrontare il tema della morte, assegnando un ruolo principale ai conflitti interiori. Risalgono così in superficie, i frammenti esistenziali che si fissurano nel tessuto vivo del poeta, come nudità spirituali, senza poter opporre uno scudo salvifico, che lo possa mettere al riparo da ogni evento negativo, riportato con un grafico poetico, circolare e senza via di uscita. Queste quartine dimostrano che essere poeti significa anche esporsi ai meccanismi della psiche e della mente, nella loro singolarità espressiva e psicodinamica. Lo spazio-tempo si accorcia inesorabilmente, lasciando al poeta il percorso di lettura dell’esistenza. Tutto questo Sagredo lo traduce con viva rappresentazione senza creare lirismi. Poesia prefilosofica, in continua fibrillazione su tutti i danni a cui è soggetta la vita, da chi la guarda dal di qua. E’ questo il canto della solitudine e del nostro essere sempre più abbandonati e in esilio, dove la parola, è promemoria di una percorso esistenziale, tra inganno e tragedia.
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