Poeti
molisani tra rinnovamento, trasgressione e tradizione di Mario M. Gabriele
PRIMA
PARTE
PREMESSA
Non sono
poche le antologie che nel corso del Novecento hanno documentato le ipotesi di
poetica e le teorie critiche di Gruppi e correnti letterarie, sottraendosi, il
più delle volte, ad impegni storiografici di più ampio respiro. Il fatto è che
oggi si tende a porre l’attenzione al carattere specifico di un certo periodo,
cioè alla poesia come situazione d’insieme, come genere e stile culturale,
(Parola plurale p.10, Sossella Editore, 2005), grazie anche al supporto di una
critica che si subordina alle esigenze del mercato e dei mass-media. (Romano
Luperini, Breviario di Critica). Se a tutto questo, aggiungiamo le scelte
soggettive dei compilatori, più propensi ad addentrarsi negli eventi poetici
del postmoderno, reiterando linguaggi già conosciuti, allora, le operazioni
riguardanti le cosiddette periodizzazioni, finiscono col coinvolgere anche il
capitolo delle omissioni e delle esclusioni dei poeti di altre regioni, che
hanno un proprio underground linguistico, per il quale tanto più grande è l’interesse,
quanto maggiore è la coscienza che la storia, nei confronti di tanta produzione
valida (anche se nell’area dell’epigonismo) ma ignorata, non farà mai giustizia
se non in casi sporadici.(da: I poeti della Quinta Generazione nelle Regioni
d’Italia, Forum, Forlì).
Nel
ridisegnare la "mappa" della poesia molisana, dopo le prime antologie
regionali, apparse come documenti esploratiivi, a metà strada tra il
Rinnovamento e la Tradizione, ci pare giusto ampliare alcuni
"confini" non perlustrati precedentemente, perchè "pur aspirando
ad esserlo nessun antologista è onniscente. La sua parzialità, che lo voglia o
no, è quindi inevitabile. E' essa, in fondo, a costituire l'unica patente di
nobiltà di quella presuntuosa operazione che è l'allestimento di una antologia".(Mario
Lunetta in Poesia italiana d'oggi, Paperbacks, Newton Compton Editori, Roma,
1981), vale a dire il censimento linguistico su diverse aree di ricerca, al
fine di proporre nuovi aggiornamenti poetici, che andrebbero sicuramente
smarriti se non si procedesse ad una costante catalogazione dei vari momenti
letterari, così eterogenei e complessi tra di loro, che hanno costituito, a
partire dagli anni Sessanta, quella enorme torre di Babele all'interno della
quale non sono mancati indirizzi operativi, per l'affermazione di un sistema
linguistico alternativo alla Tradizione.
In questo
ambito nasce e si sviluppa nel Molise "una generazione di intellettuali
che, presa coscienza della propria marginalità non sente più questa condizione
come subalterna all'egemonia letteraria nazionale.
La loro
ricerca pur arricchendosi naturalmente della Stimmung popolare non si dispiega
più in chiave mitica e terragna, ma spesso in posizione dialettica, attiva e
contestativa del colonialismo letterario cui per tanti anni sbrigativamente (e
cinicamente) i detentori del monopolio culturale volevano ridurla" (Luigi
Fontanella su "Poeti molisani d'oggi: appunti per una campionatura"
su Misure Critiche, nn.68-69, anno 1988).
Si tratta
in specifico di un collettivo linguistico che attraverso tematiche sociali,
metafisiche, cosmiche, ed esistenziali, tenta di decifrare i segni di culture
diverse fino a connettersi nei meandri verbali della Neoavanguardia, con le sue
forme scissioniste e iperattive. In questa complessa operazione in progress del
significante, la critica ha operato per "appunti" e per
"campionature", appena sfiorando i molteplici e significativi segnali
di trasformazione semiologica che, attraverso testimonianze esemplari, venutesi
ad accumulare nel corso degli anni, hanno determinato una linea di
"resistenza" verso i metodi linguistici dominanti nel territorio, con
un'operazione anche "rivoluzionaria" se si vuole considerarla tale,
ma sicuramente operativa sul piano dei contenuti e delle proposte verbali, che
sono l'unica eccezione di autentica progettualità anche in assenza di un
preciso statuto d'identità, difficile a reallizzarsi dopo lo spostamento in
avanti della ricerca verbale.
Più in
generale si dovrebbe ampliare il discorso intorno alla nuova poesia e ad una
eventuale - linea regionale -, verificando la "Meridionalità" anche
in quei poeti che hanno espresso una diversa realtà socio-culturale
o che
hanno approfondito nuove tematiche attraverso il recupero del "paesaggio
molisano" visto come luogo di sollecitazioni psicoespressive all'interno
di un contesto linguistico, che ha trovato i suoi agganci con le altre aree
nazionali e internazionali, dopo la fine del mito e dei valori della
"civiltà contadina", validamente espressi dai poeti dell'area rondista,
neocrepuscolare ed ermetica.
Di fronte
ad un contenitore linguistico poetico, fortemente operativo e ai - precari
equilibri- di cui parlava Luciano Anceschi, per la sistemazione storica di una
esperienza letteraria, anche la poesia molisana, non poteva che rimanere ai
margini della cosiddetta -sospensione di giudizio- che ha interessato sia la
produzione letteraria del -centro- che della- periferia-..
Da qui la
necessità di cogliere alcuni aspetti della poesia molisana rimasta per lungo
tempo a luci spente -, in una —riserva letteraria,- che sopravvive soltanto di
autopubblicazione,senza possibilità alcuna di collegarsi con il mondo
editoriale nazionale, fossilizzandosi nella emarginazione e nelle omissioni
repertoriali, sebbene un'indagine in tal senso, sia stata da noi, già
pubblicata con La parola negata (rapporto sulla poesia a Napoli) dove"ci
s'interroga e si cerca di dare una risposta ai motivi socio-culturali
dell'esclusione dei poeti campani, e dei napoletani, in particolare, dai
regesti nazionali della poesia coinvolgendo in questa operazione i poet di
tutto il Sud".come rileva G.B.Nazzaro nella sua antologia: Poeti in
Campania -1944-2000- Marcus Edizioni 2006, pag.178.
RETROSPETTIVA
CULTURALE
(1) Le
componenti di emarginazione e di isolamento, coagulate intorno alla miseria
delle aree interne, al di fuori di una cultura imprenditoriale, che sarebbe
venuta con ritardo nel Molise, negli anni Settanta, con l’insediamento del
Gruppo Arena a Bojano, della Holding IT a Pettoranello, della Fiat a Termoli,
oltre ad un fitto nugolo di piccole e medie imprese sorte a Venafro e a
Pozzilli, hanno contribuito a determinare nella regione, una poesia depositaria
di valori inattaccabili, tanto che l’elegia e l’arcadia finiscono con l’essere
i motivi fortemente egemoni di uno “specifico Parnaso rimasto a lungo più in
ombra a causa dello stretto legame che subordinava non solo la gestione
amministrativa ma anche la vita culturale di quest’area regionale con
popolazioni di frequente accomunate dalle sofferenze di secoli di oppressione,
di sottosviluppo, di sfruttamento, sì che in comune risulta l’anelito
all'affrancamento di tante piaghe sociali che si traspone nella coscienza e
nella voce dei poeti in un comune afflato religioso”. (Alberto Frattini Poesia
e Regioni in Italia, Istituto di Propaganda Libraria, pag. 120, 1944-1983)
Su codesti
dati nasce nel Molise un meridionalismo poetico d'impronta conservatrice, che
rimarrà a lungo testimonianza della letteratura della civiltà contadina, con
opere fortemente rappresentative di una realtà fatta di precarie illusioni, con
i temi dell' emarginazione e della povertà, tra pregiudizio e passivo
fatalismo, sacro e profano: tutti motivi che hanno fatto da sfondo ad ogni
poetica e romanzo storico, per coglierne le diverse realtà esistenziali, e
individuare le ragioni dello squilibrio economico tra il Nord e il Sud
d’Italia, e della ben nota — questione meridionale -.
Per questi motivi non esitiamo a definire tradizionali gli scrittori e i poeti molisani,
che nell'ambito delle correnti letterarie del Primo e della metà del Secondo
Novecento hanno denunciato il loro isolamento, traducendolo in un’avvilente
condanna sociale, senza determinare reazioni ideologiche e culturali di
sradicamento dal loro status esistenziale.
ARTURO
GIOVANNITTI
(2)
Indiscusso interprete della realtà del mondo contadino e delle esigenze di una
classe operaia emarginata dal potere centrale, è Arturo Giovannitti,
(Ripabottoni) (1884), che “nasce poeta nei paraggi della —lirica sociale- di
fine Ottocento: Carducci e Rapisardi, Guerrini e Costanzo”. Ma l’esperienza in
America (dove il suo genio fu prontamente riconosciuto, tanto che Louis
Untermeyer lo incluse nel 1919 in The New Era in American Poetry), e
soprattutto il passaggio alla lingua inglese diedero al suo stile una
strepitosa accelerazione in senso sperimentale, e sia pure entro i confini di
un linguaggio che, data anche la materia specialmente proletaria, prediligeva i
toni enfatici”. Giovannitti fu un personaggio mitico, centrale nella grande
esperienza del sindacalismo internazionalista e rivoluzionario degli Iww, gli
Industrial Workes of the World, i cosiddetti wobblies, che fino al terrore
rosso, diffuso dopo la Rivoluzione d’Ottobre guidarono negli Stati Uniti i
grandi scioperi degli anni Dieci. (Francesco Durante da Corriere del
Mezzogiorno, pag. 12, del 26 giugno 2005), Per questa sua attività di
sindacalista, Giovannitti patì il carcere, lasciandoci un testo, che qui
riportiamo, e nel quale rivive questa sua esperienza. Della sua attività di
poeta rimangono due sillogi: Parole e sangue, Cosmo Iannone Editore, Isernia,
386 pagine, 16 euro, e Quando canta il gallo, Il Grappolo, Mercato San
Severino, 258 pagine, 15 euro. Ma Giovannitti è anche poeta di sinceri affetti
familiari. Questi esiti li troviamo nella lirica: "Il boccale" del
volume "Quando canta il gallo".
Amor mio
dolce, oggi è San Martino,
le noci
sono cotte e i fichi secchi.
Già stride
il primo ceppo là sui vecchi
alari ed
ogni mosto si fa vino.
Vieni!
L'inverno già scende i sentieri
del monte;
io alla pipa mia di canna
torno e a
rilegger sulla vecchia scranna
vecchie
storie di vecchi novellieri.
Vieni
dunque, le castagne sono cotte:
andiamo
giù a spillare il vin novello-
tu tieni
alto il boccale, io col succhiello
cercherò
il cuore dell'antica botte.
Con
"Nenia sannita", dal ritmo cullante e ipnotico, Giovannitti firma il
suo primo manifesto rivoluzionario, elevandolo a simbolo della problematica
meridionale e a disegno libertario più ampio delle sue battaglie civili e
politiche:
Sei nato
di marzo come il rondone,
come la
rosa canina e l'agrigna
mora dei
rovi e delle fratte.
Chi se
l'ha letta la stella maligna,
chi te
l'ha detta la mala fortuna?
Il mago
zoppo t'ha rotta la cuna,
la fata
gobba t'ha tolto il latte,
e il prete
ubriaco che t'ha battezzato
t'ha messo
sul capo la mano manca.
Il mio
braccio s'è addormentato
ma tu non
hai sonno ed io sono stanca;
tu hai
freddo ma il fiato mi si è gelato,
tu hai
fame ma secca ho la mammella.
Ninna
nanna, animuccia mia bella,
Dormi per
mamma che ha tanto vegliato.
........................
Core di
mamma, il tuo giorno è venuto,
non mi
mancare ma sentimi e bada:
l'ostia
sacra è pasta di grano,
il Re è di
carne come il villano,
la ronca è
di ferro come la spada,
questo ti
dico e questo ti canto.
E se mi
campi di lacrime e pane,
crescimi
forte, non crescermi santo,
zanne di
lupo e cuore di cane,
non mi
morire di morte infame,
non mi
morire servo o soldato
come tuo
nonno, tuo padre e me.
Ma per il
padre che t'hanno scannato,
per questo
ventre che t'ha portato,
per queste
mammelle che t'hanno allattato,
muori in
galera, muori dannato
scosta via
l'ostia e roncola il re.
Ninna
nanna, cuor mio desolato,
ricordati
mamma che muore per te.
"Giovannitti
fu il bardo della libertà della rivolta: fu un uomo ammirevole per i sinceri e
forti sentimenti: dotato di un grande cuore, divorato da un desiderio di
bellezza e di beneficenza: ma a lui la Natura non concesse mai di poter
raggiungere nel regno delle parole quei ritmi che come una sonda toccano il
profondo della vita umana..... Egli fu e rimane un esemplare pittoresco dello
stadio che le masse lavoratrici dell'industria americana....attraversarono
cinquanta annifa". (Giuseppe Prezzolini, da Il Tempo, 1964).
Il volume
del Grappolo, prefato da Francesco D'Episcopo, riproduce la silloge messa
insieme nel 1957 dagli amici de La Parola del Popolo di Chicago. Il volume di
Iannone, curato da uno specialista della materia come Martino Marazzi è corredato
dalle testimonianze- in presa diretta- del poeta Joseph Tusiani. Altri
interventi su Giovannitti sono riconducibili allo stesso Francesco Durante nel
suo capitolo Italoamericana, pubblicato da Mondadori.
COLUI CHE
CAMMINA
Al di
sopra del mio capo, odo il rumore dei passi,
tutta la
notte.
Avanti e
indietro; vanno e vengono….
Ancora….ancora….ancora….
Tutta la
notte; tutte le notti…..
Un’eternità
nei quattro passi che vanno; un’eternità
nei
quattro passi che tornano e nei brevi,
sempre
uguali
intervalli, pesa il Silenzio, la Notte, l’Infinito.
Ché
infiniti sono i nove passi di una cella di prigione,
e senza
fine è la marcia di colui che cammina,
tra i muri
di mattoni gialli ed il rosso cancello di ferro
ingenerando
pensieri che non si possono ammanettare
che non si
possono segregare, perché errano lontano,
nella luce
solare del mondo, ed ognuno di essi va
peregrino
verso la meta del suo destino.
T’imploro,
fratello mio, perché sono assai stanco
di udire e
contare i tuoi passi, e non mi reggo
più dal
sonno.
Fermati,
riposa, dormi fratello mio, ché l’alba è
assai
vicina e non è soltanto la chiave che può
riaprirci
il cancello.
LAURA
VITONE
(3) Voce
estranea dal contesto generale della poesia rurale, è certamente quella di
Laura Vitone, autrice di due plaquettes di poesie: La notte della luna,
Pellegrini. Cosenza, 1973 e Lettera immaginaria, Forum, Quinta Generazione,
Forlì, 1982, con le quali l’autrice si inserisce in un circuito poetico,
domestico e antiborghese, nel quale trova ampio spazio una visione appartata
della vita con la casa eletta al centro di un mondo minore, luogo di poesia e
di estraniazione, inventario di oggetti fissati nel tempo come certe immagini
da dagherrotipo.
Il Molise
è visto come un paesaggio al plenilunio, tra meriggi e solitudini e duri
inverni, mentre le stagioni passano e si fa appena in tempo a scrivere agli
amici qualche lettera immaginaria dalla vecchia casa di provincia, con le
suppellettili consunte e il vecchio guardaroba: tutto un repertorio di piccola
oggettistica che affiora dal quotidiano, tra gestualità ripetute e piacevole
contemplazione, dove trovano posto: la stufa e la tavola sparecchiata, lo specchio
appannato e il quadro alle pareti, le stoviglie e l’orologio, le piantine sui
davanzali e i cari libri, fino alla estrema dichiarazione” mi piacciono le cose
in disuso,/ i vestiti fuori moda;/ le tazze un poco sbrecciate,” con
l’improvviso recupero delle immagini esterne:” Dalla finestra guardo le
stagioni,/ i viandanti, l’orologio del campanile./ Tra le braccia serro una
canzone;/ un verso, mentre v’è sempre/ un cesto pieno di cose da rammendare;/
le pentole e la polvere” il tutto in una atmosfera crepuscolare e
guidogozzanniana della vita, appena rischiarata da mezze luci, negata alla
gioia e ai momenti sereni.
C’è nella
poesia della Vitone un compiaciuto amore verso le cose passate e ingiallite,
una visione grigia della realtà che ci ricorda da vicino Moretti e Corazzini.
A
giustificare questa situazione psicologica è la stessa Vitone quando
afferma:”Spesso penso che sono nata nel secolo sbagliato, perché amo tutto ciò
che ha a che fare con l’Ottocento: i libri, la cultura senza stravaganze, tersa
e profonda, le vecchie case, i mobili, efficienti e senza stile, le cucine
fumose…gli ameni pettegolezzi delle nonne sulla soglia delle case, il
tranquillo godimento delle cose semplici”
Allora si
potranno meglio comprendere certi percorsi poetici, portati avanti in forma
diaristica alla Emily Dickinson e le ragioni stesse di questa poesia che cerca
il passato più che il presente.
LE CARE
VOCI E I PASSI PERDUTI
Le parole
che furono dette
e i
pensieri che noi solo sappiamo,
quello che
ricevemmo più di quanto demmo,
i desideri
appena evocati
e i sogni
mai raggiunti,
ciò che
incominciammo e mai terminammo,
la
trepidazione delle vigilie,
l’antica
gioia e l’antica noia,
la pioggia
sui viali,
l’aurora
che tinge il mondo
e la notte
che dilegua
dalla
porta grigia,
le piantine
sui davanzali,
il pane il
vino la tavola e la dolce dimora,
il cielo
ridente, il cielo fosco,
le care
voci e i passi perduti
e tutte le
cose ora senza importanza
se appena
le ricordiamo
vagano per
le contrade deserte
come
vecchi fantasmi.
FRAMMENTI
Comprare
stoviglie al mercato,
rinnovare
il guardaroba,
annotare
le spese
mentre
l’orologio sgrana le ore
e il
giorno se ne va.
Ma non amo
ricostruire:
mi
piacciono le cose in disuso,
i vestiti
fuori moda,
le tazze
un poco sbrecciate.
UN GIORNO
CHE NON SO
Un giorno
che non so
la luce
resterà dove trascorse,
vedrò sui
prati
la brezza
muovere l’erba
come
piccoli piedi
in una
corsa irriflessiva,
gli alberi
avranno tutti gli uccelli
della mia
infanzia,
ma non un
grido o un rimpianto,
la vita è
già nell’altro versante.
Un giorno
che non so
annuncerà
la nebbia che non vedo.
Voci che
non sento
racconteranno
una storia
e nella
stanza ove non sono
qualcuno
accenderà le candele
per il mio
piccolo sonno
RADICI E
HUMUS DEL PAESAGGIO MOLISANO
(4) Più
vicini ai temi della civiltà contadina, e del rapporto dicotomico tra
città-campagna, sono i poeti Giuseppe Jovine, 1922 (Castelmauro), Vincenzo
Rossi 1924, (Cerro al Volturno), e Nicola Iacobacci,1935 (Toro), i quali
tentano di ricostituire nuove radici ed humus, eleggendo il paesaggio molisano
al centro delle loro emozioni, che si immettono sul territorio delle occasioni
poetiche, tra presente e passato, con una tensione fortemente istintiva e
orfica, della vita e della realtà.
Alla luce
delle correnti letterarie succedutesi nel tempo, appare evidente che la linea
poetica, da universo immobile, adottata da Jovine, Rossi e Iacobacci, finisce
col rimanere lontana da qualsiasi innovazione linguistica o di parapoesia
sperimentale, per la loro scelta nel restare fedeli alla cultura da piccolo
borgo, mentre l’evoluzione della Forma in Italia, nel momento in cui questi
poeti operavano, subiva notevoli cambiamenti con l’Avanguardia e i gruppi
letterari scissionisti.
Il
risultato è un omogeneo quadro di ricognizione sul territorio, produttore di
occasioni poetiche, che spaziano nei meandri del ricordo, dove si ricompone il
passato, trasfigurato in una grazia descrittiva e parnassiana, dentro la quale
sfumano soffusi melodismi, e libere evocazioni del territorio e del paesaggio.
Tutta la
vicenda umana e letteraria degli scrittori meridionali va collocata in un
quadro di confronto ambientale e di legame personale con un mondo di miserie,
di oppressione, di superstizione e di immobilità per poter comprendere l’essenza
della loro intelligenza e gli esiti della loro fantasia: Alvaro e Jovine,
Silone e Sciascia, ma anche Verga e Pirandello non si sottraggono, come tutti
gli intellettuali meridionali, a una lunga vigilia di delusioni e di dubbi
prima di pervenire ad un modello di certezza ideologica e di acquisizione
culturale. (Pompeo Giannantonio, Rocco Scotellaro, Mursia, 1986, pag.65).
GIUSEPPE
JOVINE
(5)
Attraverso una corrosiva espansione ideologico-poematica legata alle vicende
esistenziali e sociali del mondo rurale e urbano, dove si colloca il sentimento
d’amore per la propria terra e per la donna amata, si realizza l’esperienza
poetica di Giuseppe Jovine che, col volume Tra il Biferno e la Moscova, Cartia
Editore, 1973, perviene ad una visione di vita meridionale nella quale gli
affetti familiari e i luoghi dell’infanzia si riaffacciano prepotentemente, con
tutta una vasta terminologia mitica, che si rifà alla memoria e all’amore del
proprio paese. Poeta dalle multiformi aggregazioni psicologiche e culturali,
coglie con amarezza ma anche con delicato pudore, tutta la realtà del vissuto
quotidiano, dove spesso entrano a corte la nostalgia della civiltà contadina e
la forza dell’impegno civile, che ritroviamo anche nei suoi racconti.
Jovine ha
svolto anche attività politica, pubblicando saggi e racconti e un prezioso
volume in dialetto molisano: Lu Pavone, Edizioni Enne, 1983, con una nota di
Tullio De Mauro; un’opera che si allinea alla tradizione poetica meridionale
che fa capo a Rocco Scotellaro e Albino Pierro, ed ha stretti legami con la
tragica realtà storica e sociale del Sud. (Walter Mauro)
DACCI OGGI
LA NOSTRA MUSICA QUOTIDIANA
Oggi mi
basta
il tonfo
dello zoccolo del mulo
nel
cortile muschioso del Palazzo,
lo
scrostare delle scarpe del bifolco
che calmo
appende al chiodo la bisaccia
nella
grande cucina del massaro,
il guizzo
del gorgozzule sonante
se ingozza
l’aspro vino del padrone,
il
bicchiere sorretto come un fiore.
Che
dolcissimo andare alla deriva
in questo
mare labile di suoni.
LUNGO IL
LITORALE ADRIATICO
A le
stagioni d’oro
si correva
lungo il litorale
a piedi
nudi sulla sabbia calda-
In altra
guisa la mia corsa dura
e il mare
mi sta accanto come allora.
Resistono
ancora
i canneti
e i trabucchi sbilenchi,
i cànapi
invischiati d’alghe e i rovi.
Non
chiederti dove porta questa riva.
I passi
dei nostri compagni
si sono
fermati in cima alla collina
ed è un
frullare d’ali verso il mare
il fiorire
di tombe bianco-allegro
tra i
cipressi che guardano alla fonda
i battelli
sul punto di salpare
e il mare
ci sta accanto come allora
VINCENZO
ROSSI
(6)
Diversa è invece l’esperienza di Vincenzo Rossi, narratore e poeta, che fin
dalle prime prove a quelle più recenti, fa emergere un conflitto ideologico tra
mondo periferico e mondo centrale, con una forte e personalissima visione
dicotomica tra tempo evolutivo e tempo statico, quest’ultimo il più adatto a
preservare nel ricordo le immagini di uomini e cose, l’incontaminato habitat
della natura col suo verde botanico e i suoi animali, con la descrizione di
vicoli e orti, di sentieri e tratturi, nell’armonia musicale di fiumi e
stagioni, in un “poema sinfonico che si eleva nel dominio dell’Alto Appennino e
che fa contemplare la misteriosa bellezza del creato, in sintonia con la
natura”, come celebrazione di un mondo proiettato contro lo spirito di questo
nostro tempo, che tracima tutto ciò che non rientra negli acquisiti
comportamenti contemporanei. Ancora una volta il meridionalismo viene
esercitato nelle sue forme iconografiche e celebrative, espletate tra arcadia e
neodecadentismo, in una vasta e ampia geografia spirituale, che si proietta
all’esterno, come messaggio morale e testimonianza di un Sud che non chiede più
nulla.
VERDI
COLLINE
Oggi vi
abbandono, folle urlanti,
ferme o in
corsa per le piazze:
torno al
canto del trattore,
all’odore
antico della terra,
alla
scintilla del piccone sulle pietre.
Odio le
ciminiere delle officine
dove batte
un falso cuore per il mondo
e non amo
le vostre tristi aiuole
scosse dal
passo di chi ozia,
di chi
langue e muore di sospiri.
Oh io non
amo chi molle si consuma
incrociando
le braccia sui sedili.
Verso
verdi colline porto il cuore
in cerca
di compagni dentro il grano
e compagne
tra le vigne in fiore.
Quando il
mezzogiorno splenderà
come un
dio in mezzo al cielo
intrecceremo
l’erba nei capelli,
nelle mani
rametti di mortella,
pianta
sacra, Venere, al tuo amore.
DOVE LA
CAPRA
Dove la
capra s’alza ad acciuffare
le cime
dei cespugli e il bue
spande il
suo gagliardo richiamo,
dove canta
una falce in mezzo al grano
e nudo e
selvaggio il contadino scava,
la vita
della madre antica,
dove
un’ansia cupa sveglia
tante
madri a sospirare figli
(è un
esercito che vive in sorde terre
dentro
urli e caverne di carbone)
come
quest’umile canto d’amore
e
all’ombra che cade sul petto
e
s’intreccia con fiori e dita che amo
invoca
un’ora di pace
nella
profonda luce del meriggio.
NICOLA
IACOBACCI
(7) Una
dimensione poetica soggetta ai transiti del cuore e della mente, caratterizza
la poesia di Nicola Iacobacci, fatta di atmosfere limpide e rarefatte, che sono
il risultato di un’attenta lettura del mondo verso il quale operano gli scatti
della memoria e del quotidiano. Il verso tende ad affrescare ciò che si è
smarrito cogliendo, con singolare drammaticità, la fine delle cose. Ed è poesia
che si trasfigura nei volti e nei personaggi perduti nel tempo, rintracciabili
nei volumi, Sotto il barbacane La pietra turchina, Il passo dello scorpione, Il
diavolo senza corna, Di/spero, e Il lucchetto cifrato, che raccolgono il meglio
delle perlustrazioni psicosoggettive dell’autore, il quale recupera usi e
costumi, miti e tradizioni della propria terra, con un’azione poetante che apre
ampi scenari di vita urbana e rurale. .Il rapporto memoria-terra, e
madre-amore, nella dispersione del passato e nel trauma del presente, determina
una focalizzazione del linguaggio sul vissuto, riportato a volte, anche con
tratti narrativi.
Un’altra
possibile identificazione di questa poesia è il sotterraneo vocalizzo
dell’anima che si fa grido esistenziale nel momento in cui appaiono le
percezioni dell’effimero.
Più in
generale, si può parlare di poesia unitaria per l’adesione ai codici
linguistici consolidati e di impianto letterario propulsore di occasioni
multiple, aperte a tutto campo.
Da qui il
senso di una poesia, che non può essere circoscritta alla esaltazione della
fantasia e del sogno, o alla ricerca dell’originalità a ogni costo, ma alla
riscoperta dei valori dell’uomo, intendendo per valori non solamente quelli
definiti tali dalla morale della società nella quale si opera, ma quei valori
universali che sono immutabili nel tempo, (Quinta generazione, anno 1981,
gennaio-febbraio nn.79-80, da una dichiarazione di poetica dell’ autore).
SERE
Non
scorderò
le
ginocchia rosse di fanciulle
sulle
pietre lisce del fiume
e le culle
sotto i salici
avvolte
nella rete a maglie fitte
perché la
biscia, attirata dall’odore del latte,
non
sfiorasse la bocca dei bimbi.
La donnola
seguiva il fischio del pastore
tra i
cardi gialli dei tratturi
invischiati
di lana.
Sere negli
occhi mesti delle mule
martoriate
dalle mosche cavalline
sulla ripa
del paese odoroso
di
conserve seccate negli orti.
IL SONNO
E’ LA MORTE DEI VECCHI
L’ala del
passero preso alla tagliola
è immobile
sul muro del bastione.
Odore di
sorbe sui tetti
e di
cotogne che il vento gonfia
sul dorso
della costa
quando i
tordi, a coppie,
scompaiono
tra i rovi.
L’ombra
sonnolenta si sdraia sotto il tiglio
e nelle
viuzze dormono i ragni
accanto
alla preda impigliata nella rete.
Il sonno è
la morte dei vecchi
su scanni
di pietra addossati ai muri scalcinati
delle case
rosse di gerani.
SOLE
OTTOBRINO
Sotto il
sole ottobrino
che scava
nelle vigne
sentieri
carichi d’amori
il tuo
corpo è la calamita
che
trafigge la volontà d’essere
nel
sistema esatto dei mondi.
Il filo
delle perle
sulla
camicetta di seta
è uno
svolazzare di farfalle
sulle
corolle che s’aprono
al morbido
tocco delle dita.
Vivrà
questo amore
ai margini
sfioriti dell’autunno
ubriaco di
mosto e di canzoni antiche.
ODORE
D’ERBA
L’allodola
ritorna verso il sole
con l’ali
di rugiada;
ci si
sveglia
coll’antico
dolore
che l’uomo
porta nella carne.
Eppure
quando il sole
invade i
vicoli
e le
vecchie tornano a sorridere
come se la
vita fosse appena cominciata,
si
scioglie il nodo alla gola
e si sente
nel petto
un’aria
d’erba e di ginestre.
TERRA MIA
DOLCE
Il sole ha
schiuso lungo i ruscelli
nidi di
gazze che si levano in volo
nell’aria
che fumiga e spande
odore
d’erbe.
Sulle
colline
dove
l’azzurro trafigge
il cuore
dei vecchi,
l’aratro
affonda nei solchi
con pena
di millenni.
Terra mia
dolce!
terra
ch’io sento nel sapore del pane,
nel verde
degli ulivi,
nel
fermento delle vespe
sui tini
traboccanti d’uve!
Terra del
mio Molise,
d’amori e
di leggende,
di fragole
nei boschi e d’abetaie
dove il
cinghiale annusa tra le giunchiglie
profumi di
salvia.
LE
PROPOSTE SOSTITUTIVE DELLA LINGUA
(8) Nel
clima culturale degli anni Settanta si sviluppa nel Molise una poesia che non
si identifica con i consueti temi della povertà del Sud e dell’ambiente rurale,
anche se ne esalta ampiamente il dissidio città-campagna e il binomio
terra-madre.
La
problematica meridionale viene recepita diversamente e impegna il poeta e
l’intellettuale su piani ideologici rivolti ai temi della Resistenza e dei mali
sociali del paese attraverso le immagini-racconto, che accentuano il senso di
solitudine e la ricerca di nuovi spazi oltre l’angusto limite della vita di
provincia, nel diretto contrasto dei rapporti umani fra i vecchi e i giovani, fra
ciò che è utopia e ciò che è realtà. La pagina letteraria fornisce le ragioni e
i motivi di un' incomunicabilità di tipo esistenziale, perché diverso è
l’occhio poetico che spazia su un mondo nel quale trovano collocazione la
fatica dell’uomo nelle fabbriche, il ricordo della guerra e le prime lotte
operaie, con una concretezza poetica che mette in primo piano le differenze
sociali, i conflitti generazionali fra genitori e figli, Siamo, ovviamente, nel
campo dello sperimentalismo realistico con tutte le implicazioni ideologico
strutturali dei testi, che vanno a riflettersi nelle opere di alcuni autori
molisani che, fuori dal clima del postermetismo, formalizzano una poetica
colloquiale e discorsiva, non molto dissimile da quella che si venne a realizzare
con Pavese e il gruppo degli scrittori dell’area piemontese, impegnati in un
rinnovamento tematico e spirituale, tra lirismo autobiografico e descrizione
dell’ambiente medioborghese.
FILIPPO
POLEGGI
(9) Sulla
spinta rinnovatrice delle nuove tendenze letterarie si muovono alcuni poeti
molisani, che si distaccano dal predominio linguistico nella regione,
rinnovando temi e la stessa coscienza operativa di fare e scrivere versi, in un
ambiente culturale poco incline ai mutamenti e alle soluzioni sostitutive della
lingua e dei suoi contenuti. Il rinnovamento linguistico avviene nel 1971,
sette anni dopo la nascita del Gruppo 63, con l’adozione di un primo linguaggio
di derivazione pavesiana sintetizzato nella plaquette 11 naif
poesie/racconto-Poesie per il Molise, Arti Grafiche La Regione, di Filippo
Poleggi, il quale realizza un travaso linguistico dal centro alla periferia,
distaccandosi da tutto il filone ermetico-crepuscolare, che aveva
caratterizzato la poesia molisana degli anni Cinquanta, agendo non tanto sulla
struttura linguistica, come antisistema, ma sulle soluzioni contenutistiche
rivolte al diario esistenziale e ai fatti della cronaca privata e sociale, in
una circoscritta e dettagliata analisi del quotidiano, senza eccedere nel
prosaicismo, perché le storie sono ridotte in rapidissimi flash back, nel
tentativo di dare alla sintesi poetica il massimo della rappresentazione e
dell’oggettività. Poleggi si serve della parola e del racconto per stabilire
un’intesa realistica tra sé e gli altri, per collocarla negli altri e
introdurre quella coscienza collettiva che sganci — una volta per tutte — la
rarefazione sociale, il catenaccio ossidato del perdere il passo col tempo.
Dalla lettura dei testi non è difficile trovare echi poetici d’impatto lucano,
o meglio chiazze più o meno marcate, una sottocutanea presenza ombrata di Rocco
Scotellaro, tanto per intendersi, di” E’ fatto giorno”.Tutto sommato Poleggi
adotta la “speranza” come mezzo, lascia sul suo piano di lavoro argomenti e
proposte per un’ipotesi (sia essa storica, esistenziale, sociale, ecc.)
un’ipotesi che racimola, nel suo portato, una quantità di esperienza e che va
sperimentata, non fosse altro che per testardaggine.(Francesco Scarabicchi).
NELL’OMBRA
DELLA SERA
Nell’ombra
della sera
il fuoco
che brucia le stoppie
di fine
agosto
avanza
tranquillo
e cova
l’incendio del bosco.
Altrove è
dolente stupore
di pazzia
che ti prende.
Il
problema non puoi
chiamarlo
diverso
perché è
tale
e vi rompi
la tua
poca forza.
Qui il
fuoco
ha
intaccato il bosco
e mani di
uomini forti
lo hanno
respinto.
UN POETA
ANCORA
Ancora
poeti vanno
per
colline di pandorato
a cantare
la pace
dell’uomo
e la mano
dolce del
verde.
Ma bisogna
tornare
ai giorni
di sempre
alle
giacche
tirate
sulla nuca
nelle
notti fredde
senza
luna.
IL VECCHIO
E IL VINO
Il vecchio
canta
con quanto
fiato ha in gola.
E’ l’unica
cosa
che ormai
possa fare.
Si guarda
la pelle secca
sulle
braccia magre.
Guarda gli
uomini
Abbracciati
alle donne
che vanno
nei prati
e i
solitari che bevono
e cantano
senza costrutto.
Il vecchio
decide
che vale
la pena
e va a
prendere un fiasco.
Più tardi
lo trovano morto
con il
fiasco pieno a metà.
UNO CHE HA
VOLUTO ESSERE SOLO
Cosa si
dirà dell’uomo
che ha
scelto la solitudine
solo per
non essere
uomo di
neve.
La madre
lo piangerà
fino alla
morte.
Gli altri
diranno
che è
stato ben strano
ad andare
così
senza
parole.
Aspetteremo
che
ritorni ancora
per
scrutare
i segni
sul viso.
Vorranno
penetrargli l’animo
per
scoprire ragioni
che sono
le stesse
di quelle
che non hanno.
Per esse
non c’è
stato coraggio.
Sarà per
loro un mercante
che ha
odore di spezie.
Un nipote
penserà a lui
il giorno
che sognerà
di fuggire
di casa.
L’EMIGRATO
Tornò una
mattina al paese
più povero
di come era partito
ma nessuno
badò a lui.
Ne tornano
ogni anno
stanchi,
poveri, delusi
per aver
sciupato la giovinezza
nella dura
fatica
nella
lunga solitudine.
Ma Paolo
non si
rassegnò all’indifferenza
e in
osteria una sera
parlò di
un certo amico
che presto
sarebbe venuto
a dividere
una ricchezza con lui.
L’amico
arrivò in corriera
e si seppe
che aveva mentito.
Quelli
dell’osteria
erano
pronti
ai morsi
profondi.
Ma i due
erano sereni
nella loro
amicizia
GIUSEPPE
PITTA’
(10) Allo
sperimentalismo tout court, a metà strada tra il gioco visivo e l’alchimia
tipografica, si rifà Giuseppe Pittà, il quale gestisce un proprio linguaggio
iperattivo che si ricombina con gli umori e con le proposte totalizzanti della
poesia nata intorno agli anni Settanta, fino a resistere, e a opporsi con ogni
mezzo e strumento letterario, alla tradizione e al laccio storico che ha
limitato e limita qualsiasi tecnica di trasgressione e di rinnovamento.
Queste
poesie si caratterizzano soprattutto per una spiccata tendenza argomentante
intorno agli aspetti più controversi della realtà, proiettati, audacemente, in
un gradevole surrealismo dove le vicende si incastonano con graffiante denuncia
e ironia.
Ed è
proprio sulle tracce della postavanguardia che Pittà ripercorre i sentieri già
da altri attraversati, con una visione della poesia che vuole essere, come in
effetti dimostra di essere, proposta innovativa, prima ancora che presenza e
testimonianza tra la provincia e la nazione.
Il
dibattito culturale intorno alla poesia viene assunto da Pittà attraverso
esperienze letterarie tramite l’adesione ad un linguaggio, che traduce in forma
ampia le proposte dei primi sperimentalisti, promotori di un alfabeto in linea
con i programmi poetico-ideologici, visti come materiale di lotta e di
contestazione.
Da qui
l’intervento in prima persona di Pittà, come collaboratore di riviste
letterarie e politiche, impegnato anche in teatrini off della Capitale nella
lettura di autori latino-americani, per una riformulazione della poesia e della
pratica del linguaggio negli anni di maggiore furore e rabbia
Con
Giocare di vento, Edizioni AxA, Roma 1993, l’autore ripropone le scelte
stilistiche maturate nell’ambito della ricerca verbo-visiva.
Questo
volume è un momento ludico tra pittura e poesia, per meglio ironizzare sugli
accadimenti quotidiani, anche se tutto questo comporta uno sbilanciamento sul
fronte del racconto, che vuol essere un lungo intrattenimento engagé sui
problemi dell’esistenza e dei mali del mondo.
DALL’OCCHIO
GIGANTE DEL BIDONE
Me lo
presentarono una mattina di sole e di sciopero
mentre
violento e solo scorrevo nell’antico destino
portavo al
collo a quel tempo una campana di disperazione
inventata
o forse solo scoperta da un cane goloso
leggevo un
manifesto amabile acquistato ogni mattina
sbattuto con
garbo nella borsa invecchiata ad artificio
per
tirarlo poi fuori la sera attento a non sgualcirlo
conoscevo
il vuoto del giorno e sorridevo alla rivolta
perciò
camminavo sereno nel buio d’ogni momento
cercando
tra le panchine una gonna larga e facile
o un rosa
pallido per scambiarci figurine
disponibile
al toro pescavo dalla tasca ogni fantasia
creando
ghirigori meravigliosi e giochetti irresistibili
qualcuno
mi teneva la mano soffiandomi profumo
progettavo
con simpatia ogni legale tradimento
divertendoci
tutti un mondo a parlare di libertà
me lo
presentarono una mattina di sole e d’agonia
in una
cantina stretta tra bottiglie colme di lacrime
era
vestito di nuvole di pioggia e pianto vero
m’avvolse
nel mantello e mi mostrò una luce
da allora
è qui con me nella reggia sulla strada
mi bacia
ed è felice ed è unico è il mio corvo
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
:::::::::::
dove amano gli eroi uccisi nel sogno:::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
:::::
abita il mago la casa sull’altopiano::::::::::::::::::::::
:::::
george col falso amore della gioventù::::::::::::::::::
:::::
spalanca labbra colorate al nudo uragano:::::::::::::
:::::
promette alla valle d’essere generoso:::::::::::::::::::
::::: e
dipinge nel cielo una fiaba di luce:::::::::::::::::::::
::::: il
gabbiano intanto canta la sua storia:::::::::::::::::::
:::::
ritrovando nel passato il dolore e la tristezza:::::::::
::::: il
fiume gli riporta il raggio disperso::::::::::::::::::::
::::: e la
pietra invoca a suo nome la pace::::::::::::::::::::
::::: il
fuoco sorride all’ombra del pensiero::::::::::::::::::
::::: il
gioco stimola una moribonda fantasia::::::::::::::::
:::::
george abbraccia il sogno del vero dio::::::::::::::::::
:::::
sedendo sul trono accanto al ragno:::::::::::::::::::::::
:::::
stringe nella mano una quercia felice::::::::::::::::::::
::::: ed
entra nel magico segno del perdono::::::::::::::::::
::::: un
volto tutto nuovo regna ora nel battito::::::::::::::
:::::
l’aquila sorride al giorno che cammina:::::::::::::::::
::::: la
stolta strada si sposta e fugge via::::::::::::::::::::::
:::::
george ammira placido le stanze del sudore::::::::::
:::::
calpesta l’orrido profumo del vincitore:::::::::::::::::
::::: con
un solo sguardo uccide l’aspide del canto:::::::
:::::
divorando bocche fameliche col cervello::::::::::::::
::::: il
bacio arriva improvviso e tenero:::::::::::::::::::::::
:::::
mentre già pensavo d’essere senza vita:::::::::::::::::
:::::
muove allora una mano incerta verso l’estate::::::::
:::::
sfiora il viso illuminato dal sentire:::::::::::::::::::::::
::::: e
senza chiedere per sé nient’altro che amore::::::::
:::::
stringe al petto triste il ritrovato sole::::::::::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
se il sole
fosse fuoco
si
potrebbe tentare di costruire la vita
riempirla
di splendore
darle
meraviglia
se solo
fosse uno strepito di luce
si
potrebbe congegnare una forza una esistenza
e
perché no
dotarla di
mari e fiumi e montagne
rinfrescarla
con la pioggia con il vento
metterci
un po’ di tutto
animali
nuvole piante
e
infilarci
fantasia e verità
vestirla
d’ardore di passione d’entusiasmo
imboccarla
teneramente portarla a maturazione
voglia di
crescere e realizzare
si
potrebbe
avvampare di futuro
partorire
principi
eccitare
le fortune
già
si
potrebbe pensare ad un serio progetto
inserirci
qualcuno qualcosa
che
si piazzi
al centro di tutto
e
dia
movimento
qualcuno
qualcosa
che scopra
che inventi che edifichi
che dia
struttura ai sogni alle idee alle aspirazioni
un piccolo
avvio alla storia
che mostri
imprese gloriose e deliri creativi
un fecondo
periodo di furia
che sia
spinta e impulso e costruzione
si
si
potrebbe inventare la vita
peccato
però non si possa giocare più di tanto
è tutto
così freddo così spento.
*
ma ha
capito la luna d’essere complice del sogno
l’ombra
del falco si ferma al sole
sorride al
giorno antico in frac
soffia sul
sentiero del vediamoci domani
sorvegliando
un triste passato moribondo
un cono di
polvere intanto si fa nuvola
ma soffre
il fiume di nostalgia nel deserto della follia
il cuore
del falco si siede sul vento
parla alle
stelle del suo amore lontano
fa volare
nel tempo la cenere del fumo
aprendosi
al gioco difficile della festa
un volto
di cipria adesso recita le nenie
ma la neve
è innamorata anch’essa della luce
la mano
del falco si piega alla pioggia
bacia il
mago delle passioni povere
lancia il
futuro nella strada omicida
luccicando
di musica venduta al mercato
una
lucertola di sangue ora uccide il bello
ma la
serpe s’accorge dell’odio del mondo giusto
la
fantasia del falco si specchia nel cielo
chiama le
dolcezze al suo fianco vivo
entra nel
sospiro d’un deserto colmo di colore
porgendo
dal palmo aperto un cuore che sogna
il fuoco
nel carro del sole apre le ali
ma quando
e perché l’amore ha deciso di chiamarsi amore
- a bordo
d’una ragnatela davvero sensibile-------------------
-----------------------------------------------------------------------
- come se
non bastasse - si presenta all’alba anche il sonaglio di
- un
serpente - con la voce di velluto chiede un pasto adeguato al
- suo
rango - accomodandosi tranquillo su un trono di nuvole -
-
abbastanza improvvisato - la sorpresa è tale che il piccolo barista
- arabo -
lascia cadere al suolo un’infinità di pensieri di --------
-
cartapesta e cristallo - con ordine allineati su un vasto vassoio -
- di
tenerezza - un cappotto liso e sicuramente vicino alla morte-
-
zoppicando vistosamente infila la porta sul - deserto -senza -
- prima
aver dimenticato uno stanco sorriso alle catene del passato
- ai
tavoli intanto quei fragili passerotti coperti di speranza------
-
accordano e tentano d’accordare il canto del - ringraziamento -
- e il
buon dio da vero maestro dilettante urla i consigli -----------
- una
bandiera piena di --- buchi si pavoneggia al piano-----------
-
strimpellando con discutibile gusto l’inno della storia- mentre
- alla sua
destra un cane tenore pulsa indignazione - in alto o ---
- forse in
basso - una manciata di stelle scoppia dal ridere--------
- sulle
pareti una famiglia intera di rose s’arma di nuove spine-
- il
nostro eroe comincia ad ingozzarsi di sentenze al sangue - la
- sua
corte di minuscoli insetti abbozza un ballo digestivo--------
-
permettendo all’occhio del padrone di concentrarsi sull’ idea---
- un otre
colmo di facili emozioni - spalanca la bocca enorme - e -
- antichi
calici accolgono con passione i — sospiri dell’amore -----
- in
pratica - l’atmosfera è senza alcun dubbio silenziosa - ma ---
- c’è —
come una microscopica screpolatura nel cubetto di---------
-
esistenza --- che s’aspetta da un momento all’altro lo scoppio
- del
contrasto — il sovrano è giunto ormai all’ultima portata----
- già
s’intravvedono i segni della sazietà attraverso le lenti a ---
- contatto
— una deliziosa forbice vestita a cameriera-------------
- conduce
la coppa del dolce — e il dito atteso con terrore inizia
- ad
alzarsi a comando --- il ventre in silenzio viene adagiato sul
- tavolo
tondo del tempo --- una sottile lama di luce già è pronta
- ad
interpretare la parte del boia — il sovrano recita ---------le
-
motivazioni complete del sacrificio - il colpevole ----riconosce
- la sua
colpevolezza d’esser nato — ed inizia a -morire con la
- serenità
di chi bacia l’errore — come se non bastasse-------------
- la terra
racconta il suo tremore ---- dalle fenditure del cielo
- viene
fuori un liquido che non è vino — e --------------------------
- l’alce
vero signore del tempo e dello spazio — visibilmente------
-
annoiato-----------------------------------------------------------------
- decide
di strappare questo suo lavoro venuto così male---------
----------------------------------------------------------------------------
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
GIOCONDO
COLANGELO
(11)
Apparso per la prima volta con delle partiture poetiche inedite nell’antologia
Poeti del Molise, Giocondo Colangelo (1954) ha fatto seguire, dopo la
pubblicazione di queste sue scritture autobiografiche, una plaquette di versi e
calembours dal titolo Senza recita, Casa Molisana del Libro, 1982, che tra
neutralità dei vecchi schemi e alleanza a un dire nuovo, segna sulla carta della
quotidianità le tangenziali dell’esistenza e le cifre del vissuto,
tratteggiando il ricordo e il sogno verso punti di fuga e di morte, secondo
suggestioni letterarie ben precise (Whitman e Rimbaud sono solo alcuni dei
poeti presi a riferimento), tra motivi ora ironici, ora delicatamente
memoriali, al di fuori di ogni riconferma e restaurazione di modelli archetipi
senza, tra l’altro, sconfinare nei territori degli squilibri formali, per
lasciare, come dice l’autore, le sue poesie alle spalle, per perderle e,
secondo l’insegnamento di quel prete di un libro di Borges, Bioy Casares, che
insisteva sulla necessità di perdere l’anima per salvarla, ritrovarle,
all’interno del rapporto odio-amore, fino a dilacerare il tessuto esistenziale
e ricucirlo da ogni strappo e ferita, prima della inevitabile resa o sconfitta.
Quanto
alle ulteriori prove o verifiche, a livello di consistenza, di cui parlava
Pasquale De Lisio, recensendo Senza recita su Proposte molisane 82/1, pag, 197,
non crediamo che esse debbano costituire delle condizioni essenziali per
riconfermare giudizi e chiavi di lettura. Senza recita resta, al di là delle
(im)probabili sortite poetiche dell’autore, un momento altro o a sé di quel
fervore letterario, come esperienza parallela degli avvenimenti culturali
prodotti negli anni Settanta-Ottanta.
Con molta
probabilità il documento poetico di Colangelo sta a indicare il rifiuto di una
Forma declamata e artefatta, ovvero, la negazione al bel canto e allo stile
delle cifre di Cocteau.
Senza
recita propone nella sua struttura, momenti di vita vissuti nel silenzio e
nella emarginazione, nel quadro delle varie esperienze fatte dall’autore. Da
qui l’uso di una parola poetica che rifiuta il ninnolo tradizionale, l’idillio
e l’arabesco, e che pure sta a dimostrare e a indicare una delle tante strade
percorse dalla poesia nel conflitto dei segni e dei significati.
DEDICATO A
UN PURO AMICO IMMAGINARIO
Ci siamo
cacciati in un brutto pasticcio Fred,
non vedo
come faremo a venirne fuori!
Queste
ombre sanguinolente non ci mollano più,
il
capezzale di morte è lì sul nostro cammino,
alla foce
del fiume ci attendono, non ci andremo!
Ti dedico
questi granuli di sabbia,
sabbia del
deserto, deserto della mia stanza,
mentre
fuori mille cervelli
stanno
esplodendo in orgasmi di utopie,
domatori
inferociti divorano i leoni,
(moro in
facoltà fa l’occhietto al collettivo),
hare
krishna infangato da calessi in corsa
piange sul
ciglio della strada,
James
Joyce urla nella tomba:Rivoglio le mie lettere,
Monsieur
Bernard applaudito al comitato
rimpiange
vecchie glorie,
“have a
good time, baby” lanciato nello spazio
rientra
dall’uscita d’emergenza,
“lascia
andare le parole” sussurrato all’orecchio,
non ho
molto tempo vuole dire.
Quest’ultima
visione,
non mi rimane
altro prima di partire.
Una stanza
illuminata,
Mary col
suo adolescente nudo sulle ginocchia,
“altri
quindici giorni e poi sono fuori”,
un vecchio
cortile circondato d’aiuole,
ci siamo
lui io e tanti altri,
Mary col
broncio perché si ride di lei;
-cento
anni per capire che la chiave delle Illuminazioni
era lì,
dietro la porta -.
Lui in
divisa, intossicato di vita, sorride all’amico,
gli
promette bevendo un lunghissimo spleen.
(Genzano
27.2.76)
Stanotte
son di guardia alle stelle,
la luna
non c’è,
se la son
pappata rabbiosi sergenti.
Il gatto
nel cortile
gioca a
rincorrere il coniglio,
mentre
l’uccellino incollato
sta
morendo sul muraglione.
Stanotte
son di guardia alla luna,
le stelle
non ci sono,
se la son
pappata rabbiosi sergenti.
In una
simile notte
senza
lucciole
dev’esser
morto Esenin,
in una
simile notte
sul
muraglione scuro
il mio
passerotto muore.
Ufficiale
di picchetto chiudi bene
il
cancello stanotte,
non
lasciar passare i ricordi.
*
Ospemiles
di Firenze
ad
attendermi tutti burloni fiorentini.
il primo
accenno a Ciapaqua
e i libri
di Burroughs nella borsa.
Gli amici
mi venivano a trovare.
Nicola mi
portò l’assassino,
ne fumammo
insieme
e ridemmo
di Mary.
Vecchia
Olanda nella mente.
Mary era
sempre lì
col suo
adolescente nudo sulle ginocchia.
La notte
copulavamo felici.
Telecuore
con esofago barrierato
dette
esito negativo
e glicemia
e azotemia
erano solo
una scusa per succhiarmi del sangue.
Bronchite
catarrosa subacuta
fu la
carta vincente.
Con i miei
quattordici giorni di convalescenza
nel
taschino della giacca
salutai
gli amici burloni e Firenze,
Nicola
dietro il bancone e Mary.
“Altri
quindi giorni e poi sono fuori”
furono le
sue ultime parole.
Finalmente
novembre,
sono quasi
alla Fine.
-Bisogna
aver rispetto
per tutto
ciò che finisce -
Il mese è
dedicato ai morti,
anche a te
Pier Paolo
ucciso
dalla tua sessualità.
Me l’ha
detto quest’oggi
la mia
radiolina,
è successo
dalle parti di Ostia,
e pensavo
che solo a gennaio
stavo in
biblioteca, seduto, a parlare di te.
“ Non ho
paura della morte, ne avevo
solo da
ragazzo” allora dicevi.
E Cimo che
continuava a ripetermi:
“ Deve
essere proprio un intellettuale pazzo”.
“Era un
trasgressore di tutti i codici”
scriverà
di te un tuo amico.
Ora quest’Italia
furfante
si è
persino dimenticata di te,
che facevi
tanto per scuoterla.
Ma non
temere l’oblio,
i poeti
vivranno in eterno,
e tu
certo, non eri da meno..
*
Me chi mi
ama? Dannazione!
Rinchiuso
fin dall’infanzia in galere scolastiche
ad
affogare il cervello nella noia
tamburellando
masturbazioni
rincorrendo
la vita, irragiungibile.
Sogno di
essere felice ma non lo sono.
Me chi mi
ama?
Trobar
clus nella notte buia.
Lucio
nella latrina di servizio a salmodiare poesia.
Dopo la
sua partenza per Lucca non mi ha più salutato.
Ed ora…un
cranio pieno di libri,
senza
valore ormai.
Nei sogni
pieni di incubi possono riviverli, se voglio.
Fantastiche
storie dell’Aldilà.
Me chi mi
ama?
Solo il
gatto Manoski. Quando ha fame.
A chi mai
confessarlo?
Il mio
pensiero — precursore del vento —
mia sola
dama di compagnia,
Sto
vivendo nella mia mente.
Questo (ed
altro) aspettando l’autobus
In un
frizzante mattino autunnale,
a Roma.
A M.
Chi
ucciderai ancora? Chi porterai alle stelle?
Che altre
menzogne inventerai?
(Osip
Mandelstam)
FIGHT ON
RITMO è la
percussione
di questo
pezzo di Peter Tosh
un reggae
arrangiato
da musici
e pittori fiamminghi del Cinquecento
Lacrima è
quella che non hai versato
per me
Drogato è
il ricordo
delle estenuanti
attese
dagli
addii di sasso
dalla tua
lacrima non versata
ma non
questo ritmo
oh come
vorrei essere io l’alchimista
e a notte
tarda dopo la serata
rincasare
verso la mia donna di colore
io il
giamaicano
l’arabo
che languisce nel metrò parigino
il vecchio
alcolizzato con l’armonica
che ogni
sera suona alla Station olandese
giocondo
colangelo figlio di Michelangelo
murato in
queste quattro (mila) mura di libri
che se
scrive una canzone per domani
è solo per
ritrovare il fanciullo che era ieri.
Quanto al
”Taccuino del sognatore ” accluso a “Senza recita “, qualche tavola di lettura
riteniamo di doverla recuperare, anche a costo di trasgredire sul piano
metodologico, ma è un peccato veniale che vale la pena di commettere. In altri
termini si vuole riportare in superficie da “Le impressioni parigine” tutto “
l’humus poetico” e il “ sentimento critico “ del poeta in relazione alla sua
visita al Louvre e alla chiesa di Notre-Dame di Parigi , In effetti opera anche
qui un vagabondaggio culturale sul mondo esterno, con una minuziosa descrizione
sui fatti e gli avvenimenti che si presentano durante il giorno nella
cosmopolita Parigi popolata di ambulanti e giocolieri, di colonie di arabi e di
venditori di quadri e oppio, di clochard e di miserie grandi e piccole che si
consumano all’ombra delle rues e delle bidonvilles:
da : “
IMPRESSIONI PARIGINE “
TUTTI
VOGLIONO VEDERE
Tutti
vogliono vedere . Alla chiesa di Notre-Dame la gente si accalca per vedere il
Tesoro. L’ingresso è di tre franchi. Per gli studenti niente riduzione. Ai due
lati della chiesa, dentro la basilica del Sacrè-Coeur si vendono i ricordini.
Piccole dosi di religione da riportare a casa, agli amici. La chiesa di Cristo
è trasformata in un mercato. Turisti dappertutto, i giapponesi con le macchine
fotografiche perfino nelle orecchie. Fotografano Cristo. Una vecchina domanda a
un sacerdote, nel suo strano dialetto spagnolo dove vendono dei crocifissi
“Comment ?” è la risposta. La vecchina insiste:” por comprar de los crucifijos,
por comprar Jesucristo “. Il prete capisce, sorride. Glielo indica. Questo
secolo consumistico ha trovato il sistema di commercializzare pure Cristo. Lo
si vende, si compra, si paga per guardarlo. Ce n’è per tutti i gusti. Il Cristo
per i poveri, di pochi franchi, e il Cristo per i ricchi. Una massa di venduti
che vendono. Ma , a parte il mercato, la basilica del Sacrè-Coeur ti colpisce
per la grandiosità della rappresentazione religiosa. Entrando, di fronte a te,
in alto, un Cristo immenso con le braccia allargate ti domina. Ai suoi lati,
papi, santi. Sono molto piccoli rispetto a Lui. Però sempre più grandi di altri
personaggi che seguono. L’autore di questa rappresentazione ha voluto creare
una scala di valori nella gerarchia religiosa. L’ordine d’importanza nella gerarchia
è dato dalla grandezza. Rappresentazione alquanto banale, ma efficiente. Si è
dominati da questo Cristo immenso. In questa chiesa l’uomo non esiste. La prima
volta che vi entrai stavano celebrando una messa. Il prete all’omelia dava
l’idea di voler fare un discorso politico. Parlava con lo stesso ritmo e timbro
di voce con cui si fanno i comizi. La politica in chiesa? Non c’è da stupirsi.
Durante le guerre i francesi, popolo di nazionalisti, si radunavano in chiesa
per pregare. Finite le guerre eccoli di nuovo in chiesa per “ celebrare “ la
vittoria. Amen.
Barboni
nella metropolitana, agli angoli delle strade, sdraiati nei giardini pubblici.
Sembra la città dei pezzenti, Parigi. Puzzano d’alcool lontano un miglio,
puzzano di morte. Tanti arabi. Vengono dalle ex - colonie. Fanno i lavori più
umili. Uomini delle pulizie nel mètrò. Non vedono mai la luce. L’altro giorno
al Jardin des plantes un arabo sdraiato su una panchina, solo. Triste, già
morto. Consumava così le sue ore, i suoi giorni, i suoi anni. Sarebbe venuta
voglia di andargli incontro, abbracciarlo. “Fratello, non lasciarti morire!
Ritorna nella tua terra, sii felice”. Non l’ho fatto. Come potevo.. Sono andato
via. E’ rimasto come l’avevo trovato. Un pezzo di Marocco venuto a morire in
terra straniera, in terra francese.
Niente. E’
proprio vero, hanno trasformato le loro chiese, i francesi, in mercato.
Mercoledì 22 agosto alle venti e trenta concerto per organo di Lionel Rogg.
Prezzo quindi franchi. Portano Bach in chiesa e lo vendono, loro. Proprio come
Cristo. Non c’è che dire. Mi sono imbucato. Non c’è che dire. Giorni fa per
farmi i capelli, senza shampoo, nella lontana periferia, in un umilissimo
coiffeur, 33 franchi ha voluto, lui, il barbiere. Trentatrè franchi, che
equivalgono a seimilatrecentosessantanove dannate lire. Niente. E allora mi
sono imbucato in chiesa. Bisogna rubare ai ladri, è l’unico sistema per
sopravvivere, in un posto di ladri.
Esco dallo
Studio Saint - Sèverin dopo aver visto per l’ottava volta il film - concerto di
Bob Marley, quello del giugno 77 al Raimbow. Ho fumato nella toilette del
cinema con due ragazzi arabi di Algeri. Prendo Rue Saint- Saint-Sèverin e
taglio per Rue de la Harpe così sono subito a Boulevard St. Germain. Sono le
venti circa. E’ l’ora in cui cominciano ad affluire sul boulevard i venditori
ambulanti di oggetti fatti a mano, braccialetti, collanine, orecchini. Arrivano
anche i venditori di quadri, di posters e i suonatori ambulanti, o occasionali,
che cercano di svoltare la serata. Ogni sera così. Davanti alla chiesa St.
Germain - des - Prés il circo. Il lanciatore di fiamme, il mimo, gli acrobati,
il prestigiatore e l’uomo delle catene. E’ un ragazzo biondo ,quello. L’ho
osservato per alcune sere. Sempre la stessa scena. Ogni sera. Si fa legare dai
passanti una lunga catena di ferro intorno al corpo. La fa incastrare con due
lucchetti e dopo dieci minuti, con le contorsioni del corpo, riesce a
sfilarsela. La gente applaude. Poi è la volta dei vetri rotti. Vi si sdraia
sopra con la schiena e si fa salire sul corpo dieci persone. Voilà. Il gioco è
fatto. Nemmeno un taglio. Altri applausi. E’ infine la volta delle fiamme. La
gente è contenta. Finito il numero passa con un cappello tra il pubblico, sono
generosi. Lui ringrazia per ogni monetina che riceve. Dopo il tin metallico
china la testa e cinguetta un merci. Se ne va. Anch’io. Faccio la rue de
Rennes. All’angolo, davanti alla farmacia, i soliti invertiti. Sono ragazzi, si
baciano e abbracciano tra di loro, per provocare i passanti. Ci sono anche
lesbiche. Per strada sono come cullato dalla musica. Cammino come in un sogno
di Dalì. Timothy Leary dice che è l’unico pittore dell’LS.D., senza L.S.D..
Sono solo e felice.Una volta tanto. E’ per via del fumo. Tutt’intorno è un
luccicare di colori. Le macchine sfrecciano, superbamente. Le sento amiche.
Sono arrivato in un attimo, in albergo. La musica si dissolve in ascensore,
come in un sogno. Il Raimbow, Bob Marley, scomparsi. Però ogni tanto qualche
nota ritorna. Mi aspettano ora il vino e il formaggio. Anche una pesca. E’ da ‘
sta mattina che non mangio. Sono fortunato. In Giamaica hanno qualcosa come
meno di niente. L’ho visto al cinema. Solo la musica e tanto sole. Il resto è
miseria. Bidonvilles.
Per ora
basta. Spegnerò la luce su questo giorno. Leggerò Céline prima. Forse.
Volevo
vendere due libri ai bouquinistes. Un totale di novantadue franchi. Non l’ho
fatto. Volevano darmi massimo venticinque franchi, per i due libri, quei
rabbini. Volevano speculare sulla mia miseria. In parole povere truffarmi. Quei
ladri. Il furto legale è più schifoso di quello illegale. Ha le spalle coperte.
Al sicuro.
L’ho
scrutati subito, in fondo all’anima. Hanno pensato: “Ha bisogno di soldi, lo
prenderemo alla gola“. Ma io non glieli ho dati. Ho intuito il gioco. Me ne
sono andato. Prima li ho esaminati bene, però. Sono una marea di persone
anziane, tra cui una buona metà ha superato l’età della pensione. Pochissimi
giovani. La gran parte è composta di vecchie che non hanno alcuna intenzione di
mollare. Se ne potrebbero stare tranquille in pensione, ma non lo fanno. Se ne
stanno lì a farfugliare prezzi, a vendere cartoline sbiadite dal tempo e libri
scritti da fantasmi. La morte le coglierà sul lungosenna, aggrappate all’ultimo
franco, all’ultimo respiro. Una prece. Che tristezza. Nessuna mi ama. Sono
piombato in un abisso di solitudine.
PIER PAOLO
GIANNUBILO
(12) La
metamorfosi dei segni e dei significati, continua in Pier Paolo Giannubilo
(1971), nel volume Ariascensione e Oltraggi, dove si fa più chiara la sensazione
estetico-culturale di un copioso approvvigionamento di echi e richiami, in
cui”la letteratura dei classici diventa punto di riferimento, se non proprio
una bussola, un buon libro di preghiere cui affidarsi in caso di smarrimento
lungo la strada”, come ci informa l’autore, a conclusione della sua nota al
volume. Da qui il prevalere di un discorso, che libera la propria corporeità in
un viaggio antropologico e spirituale, e nell’appartenenza biogenetica ad una
identità psichica.
Nella
vertigine di una poesia etico-esistenziale e nel tragitto verso una cybercittà
del paradiso si compie il progetto ideologico-poetico di Pier Paolo Giannubilo
che si porta autonomamente su posizioni neometafisiche, istituendo momenti di
sincera ansia spirituale e di ricerca dell’Assoluto. In questo senso vanno
interpretati alcuni passaggi poetici, che attraverso l’ipostasi e il carattere
metaforico del significante, si aprono ad una dimensione metastorica
dell’esistente. E’ un discorso che si snoda attraverso scatti illuministici e
dichiarazione di eventi, che lasciano trasparire il desiderio di intraprendere
la scalata dell’aria verso una Gerusalemme Celeste, vista come luogo di
Speranza e di Salvezza, lontano dagli oltraggi e dai carnefici, per un
rinascimento cristiano, sempre idealizzato e tutto da scoprire attraverso una
ipotesi di poesia intesa come estrema giustificazione della Creazione e,
contemporaneamente come j’accuse, rimostranza, come capacità di materia e
percorso atmosferico,smaltimento di scorie”.
L’Io
metafisico ferito dalla realtà quotidiana si smarrisce in cupe riflessioni,
percorre i sentieri del dubbio, pone cocenti quesiti:”Ma a che servì questo
viaggio? / a chi? / se in parte il mio cuore si è sfilacciato strada
facendo/”), portandosi, subito dopo, su posizioni imprevedibili che mettono
fine al rovello spirituale. Torna così la luce sull’ombra, mentre si dischiude
il terreno nel quale giace “il pallido primogenito”, lasciando intuire con
questa Resurrezione, un nuovo approdo salvifico.
SUSPICIUNT
Fiocchi di
loto e di soffice spugna
Precipiti
sulle zolle riarse nuova manna
Riabilitano
i sensi andati perduti.
Un’altra
possibilità, un altro tentativo
Per una
seconda creazione.
Ma è
evidente che il profeta rimborsi
Col suo
sangue l’aver dirottato le cose.
Tiepida
pioggia senza sali ci risveglia.
Ma fate
largo, fate aria.
Il
primogenito muore come un frutto sepolto.
Ma fate
largo, fate ancora un po’ d’aria.
Respira .
.
Stazione
di servizio Flaminia Ovest.Febbraio /96
SAN MARCO
(O ALTROVE), ULTIMO ATTO
Fuggo
l’officina della misericordia
edificata
sulle lagune
e come
questa anche tante altre.
Meglio
sarebbe assistere al pasto
che ne
farebbero alghe muschi
buste di
plastica piuttosto
che al
mercato di libercoli
videotelefonini
parietali
inframmezzati
agli affreschi,
a guided
tours di improvvisati agiografi
sulle soap
opera dei santi.
Centinaia
di luddisti ispirati
rieseguiranno
forse un giorno
come in
una moviola il gesto atletico
di Gesù
nel Tempio.
Ma adesso
a Te che sei immagine roteante
in eterno
elastica impalpabile,
che ci
donasti di un corpo molliccio
eppure
glorioso, sconquassato,
a
sfiancare su una croce.
- Dì
soltanto una parola -
un gesto
leggero che riconduca
la carne
ai suoi sentieri naturali,
soltanto
uno sguardo che stilli
pioggia
tiepida a rinverdire
i fiori
secchi del mio cuore
- ed io
sarò - un uomo, basta poco - salvato -
DESPICIUNT
Tutto il
martirio si era compiuto.
Dalla
nostra visuale angolare
il
petrolio in mare verde mutato
al largo
di piattaforme d’acciaio.
Acido denso
grumo da quassù la terra.
Ma a che
servì questo viaggio? a chi?
Se in
parte il mio cuore si è sfilacciato
strada
facendo, e brandelli ne ricadono
come
meteoriti sulle teste dei giustiziati,
pere
acerbe pendenti da lampioni
che
grattano il cielo - A che servì? - mi interrogo.
Servì.
Ho visto
il pallido primogenito
Riesumato
dall’interramento
Cercare
con gli occhi suo padre.
“ Ho tutte
le mani sporche d’inchiostro
ho tutte
le mani sporche di sangue” cantava.
Incurante
del primo abbandono
subìto sul
colle a forma di Teschio.
LE VOCI
Il sangue
delle arance
gocciola
sulla ceramica
l’impugnatura
dello stiletto
calcia lo
sguardo all’indietro di anni
sull’antica
chiamata
sulle voci
terminali
cui mi
sottrassi per tempo
( a
scadenze poco più che semestrali
s’arrampicava
lungo il petto
fino alle
narici di me bambino
un odore
trasparente.
Lo
chiamavo l’odore dell’anima,
interpretandolo
esalazione
dovuta
alle scosse d’assestamento
prodotte
nella struttura
dall’intrusione
di nuovi peccati)
Più bello,
più bello se mi ritraggo
nell’umida
valva del sogno
dove
ristagnano a pelo d’acqua
i
pellicani morti e gusto
l’intrecciarsi
di serpi e ragazzine
TERRE
CHIARE
A lungo
accartocciato sulla carne
sugli
inquieti fianchi latini
di donne
svogliate
Che erano
un denso ondeggiare di piaghe,
E più
spesso nel ricondurre
in un solo
intricato viluppo
i lacerti
dapprima spersi
Cedetti
alla stanchezza che mi sfece,
scomponendo
ricomponendo
riaffrescandomi
a tinte più gaie.
Ora Ti
sarò accanto, mi appresserò
alle
distese indistinte,
Rincuorandomi
al dolce mormorio
delle
brigate di adolescenti
scaldati
al tepore del suolo
che
condivisero ciò che non è più:
Il
soldatino catturato
e fucilato
alla schiena
il
prigioniero in silenzio
il bavoso
tossico.
Sarò
compagno non insidioso
alle
rasserenate madri
Come
lucertole immobili
Brillanti
ai sassi levigati e bianchi.
Ecco, un
frammento di Te si protende
Sulle
penne dello Spirito Santo,
viene a
mostrarci la scia
a
riproporre il futuro
che alcuni
fra noi
Ebbero il
coraggio di reclamare,
Ed altre
ancora nuove terre chiare.
DUE
MILLENNI
O: Un
colore di cui fiorisce la molle armonia del Paradiso
Specchiava
nell’aria la carne della femmina cherubino:
I poeti
accanto a me morivano in comunione con le prostitute:
1/1916 Per
sottrarci allo strazio degli untori celebravamo
nelle
catacombe,
Ma alla
fine affogati di sterpi battemmo cespi d’erba abbarbicati
sui
picchi,
Cogliendo
una parziale e sanguinosa, quanto inutile, vittoria.
1917/1989
Come in principio fu il sovvertimento, le cose
sovvertì
il cupo comunismo
- la
catastrofe che sciogliesse il nodo, lo strappo necessario
(così
credemmo) - fasciandoci il cuore di una speranza.
199°/1995
Al culmine della storia, il Tuo accordo mi prese
poco
avanti negli anni.
La
delirante adolescenza mi avrebbe sommerso. Fui salvo
nella
misura in cui
Sperimentai
massiccia quella Croce di cui tanto
S’era
profetato all’anno trentatre del primo dei due millenni.
JAUFRE’
RUDEL
Le aule
non ancora scandagliate
in qualche
spigolo certo nascondono
madonna
Federiga folignate.
(Leggevamo
insieme Jaufrè Rudel,
le doglie
del notaro di Lentini...
elettrizzati
non solo al desuescere
di quelle
forme verbo/nominali
rimpastate
nel magma delle nostre
ma anche
da colpevoli sfioramenti.
Piccola
ingorda - ci sperava molto:
-D’aquest’amor
suy tan cochos- un bald(o)
bardo le
avrebbe riproposto in qualche
verso
dedicatorio a quel bel volto
per
vassallaggio alla sua vanità)
(13)
PRESENZE NEOREALISTE
GENNARO
MORRA
(14)
Nell’esercizio delle scelte operative,e delle presenze neorealiste, segnaliamo
l’opera di Gennaro Morra (1922), la cui produzione poetica è stata saggiamente
calibrata più nella qualità che nella quantità, allineandosi a quanto ha
luminosamente scritto Roberto Bertoldo in Nullismo e Letteratura, Novara 1998,
ovvero che la pudicizia, rispetto alla propria opera, è la più bella dote di
uno scrittore. E’, altresì, il segno che quando si scrive sa di non mentire a
se stesso.Ed è ciò che troviamo nella poesia di Gennaro Morra, assieme ad una
non rinnegata sacralità delle corrispondenze umane e familiari, che danno il
giusto tono all’eloquio narrativo, chiamato a rivitalizzare un volto o una
storia, nella circolarità di un sentimento, che unisce il ricordo alle
proiezioni dell’anima. Paesaggi e figure interagiscono attraverso le
immagini-racconto, per la ricerca dell’altro di sé del poeta, il quale si trova
a suo agio quando i riferimenti poetici s’identifichino con il segno di una
cultura periferica, che fornisce le ragioni di una incomunicabilità di tipo
esistenziale. Il risultato, alla fine, è un insieme di monografie dell’anima
nei campi della memoria. L’esperienza poetica di Gennaro Morra si circoscrive
nell’area del neorealismo degli anni 1953-1957: un quinquennio in cui
comparvero una cinquantina di volumi che massicciamente consacrarono e nello
stesso tempo esaurirono il tentativo di imporre questo tipo di poesia, con i suoi
temi riguardanti la miseria, lo sfruttamento, il folklore e la rivolta del
contadino meridionale, anche se il Falqui definisce questi autori marxisti o
poeti dell’istanza sociale, la cui avventura poetica terminò a causa della
situazione poltico-sociale del paese che andava rapidamente cambiando. (Sergio
Turconi, La poesia Neorealista Italiana, Mursia, Milano 1977, pp. 58-59-60), ma
anche dall’avvicendarsi di una generazione poetica che non aveva vissuto le
esperienze dell’antifascismo e della Resistenza, e che si indirizzava verso
nuovi modelli di cultura neocapitalistica. Né vanno considerati in chiave
riduttiva e marginale gli impulsi del cuore, che sono poi quelli che danno un
senso al dire poetico di Morra, come una griglia capace di ospitare nelle sue
maglie elementi condensativo.metaforici, come ha giustamente rilevato Walter
Siti ne Il Neorealismo nella poesia italiana, 1941-1956, Einaudi Editore, 1980,
pag. 44: Dietro ai carrozzoni della carovana / l’infanzia gioca a rimpiattino,
/ o mio cuore turbato, e nell’ombra ridesta / ansia di fanciulli e limpidezza
di grida / per il dolce carillon delle giostre / nel gorgo delle lenti
stagioni. / (da Un grido tra le mani, pag. 11). Per i neorealisti il sentimento
finisce per essere niente più che uno strumento difensivo di compattezza, un
evitare nello stesso tempo la distanza fisica e la difficoltà intellettuale,
secondo il giudizio di Mario Cerroni il quale mette in evidenza alcuni versi di
Morra, visti come temi-chiave del cuore, luogo privilegiato della condensazione,
dove si concentra tutta la natura. Da qui nasce il patrimonio poetico di
Gennaro Morra, che con Solstizio d’estate ,— Gastaldi, 1951, Parole udite
domani, Schwartz, 1953, si fa più cospicuo in Un grido tra le mani, Rebellato
Editore, 1959, seguito da Memoria di lei, (1972); un libretto in edizione
privata di 100 esemplari numerati, con lo pseudonimo di Andrea Morghen e che
pochi, come Zagarrio e noi che l’abbiamo ricevuto, hanno avuto la fortuna di
leggere. Si tratta, in particolare, di un libretto di 26 pagine, contenenti
cinque poesie di cui solo l’ultima ha il respiro di un poemetto dedicato alla
donna amata, al centro di un discorso elegiaco, e di un nuovo petrarchismo
novecentesco. Ad apertura del volume sono riportati due versi di Langston
Hughes: My baby lives across de river / An’ I aint got no boat, e infine con
Viaggio nel deserto, Firenze Libri, 1988.
Morra
occupa un ruolo di protagonista all’interno della generazione dei neorealisti
nel Molise, tanto è vero che fu incluso nell’antologia di Enrico Falqui: La
giovane poesia, limitata a pochi validi, poeti, non rientranti nel periodo di
nascita tra il 1922 e il 1930: (quelli della quarta generazione del Macrì), ma
con opere pubblicate tra il 44 e il 55 e cioè: Fortini, Fiore, Piovano, Cerroni,
Manichini, Zagarrio, Frattini, Pasolini, Accocca, Scotellaro, Di Ruscio e
Morsucci, rilevando il carattere distintivo di Morra nel segno crepuscolare e
pascoliano, il che rende il giudizio esatto, ma distante poi dalle altre
soluzioni linguistiche innervate nel corso del tempo e che emergono nei testi
inclusi in Viaggio nel deserto, sotto forma di stilemi, e intrusioni lessicali
di tipo anglosassone, come a voler incorporare qualche suggestione
metalinguistica, anche se il discorso è prevalentemente lirico-mitopoietico,
ancorché fonico e musicale, ma di una musicalità in sintonia con la tradizione,
per perdersi e ritrovarsi in essa. E’ una poesia dai toni discorsivi tra
tristezza e pacata nostalgia, dove non manca la presenza della morte, che
secondo un pensiero di Cioran, spesso si pensa senza tregua e vi si è
rassegnati, e che in Morra si trasfigura in un’immagine antropologica,
domestica e metamorfica, senza sconfinare nella documentazione del negativo.
Come per Montale, anche per Morra il ricorso ai ricordi diventa condizione
essenziale per esistere, perché solo nella memoria c’è il presente.
Questa
tendenza regressiva a spaziare nel passato è dichiarata nei primi versi del
testo: Il paese di mio padre, in Parole udite domani, ed esemplifica il percorso
lungo il quale si formulano gli imput che danno spazio ai sentimenti, misurati
nelle esposizioni e nei transiti memoriali: Da quando son tornato / a starmene
in questo paese / mi sono fatto estraneo / a tutto il resto del mondo. /
E’ il
primo segnale di isolamento e di ritorno in un paesaggio privato, proposto in
ristretti nuclei oggettivi nei quali convergono miti e affetti familiari; che
costituiscono gli unici agganci con l’ambiente rurale, visto come pausa
d’isolamento e di fuga dalla città. Questa realtà per Morra è il Molise
dell’infanzia e del ricordo, della coscienza amara del dramma collettivo del
Sud. La poesia sociale di Morra, evidentemente definibile nell’area del
neorealismo, col suo timbro epico, con il suo tono iterativo, cantilenante, secondo
schemi tipicamente popolari, ha i suoi principali referenti nella desolata
cognizione di un paesaggio geografico e umano irredimibile dalla sua condizione
disperata, dove gli uomini non hanno neanche volti umani.(da: Letteratura delle
regioni d’Italia —Storia e testi —di Sebastiano Martelli e Giambattista
Faralli, Editrice La Scuola, Brescia, 1994, pag.54). Sul terreno specifico
delle corrispondenze semantiche e dei correlativi oggettivi emerge il distacco
tra letteratura e classe popolare, ovvero, tra innesto letterario e coscienza
politica, così importanti nel dibattito culturale ed etico civile promosso
negli anni 45.47 da Il Politecnico, per cui il termine sociale, coniato anche
dal Manacorda alla poesia di Morra,va riferito, probabilmente, ad un contesto
provinciale nel quale il poeta compila un repertorio di sensazioni umbratili,
tra ermetismo e neorealismo, dove lo spostamento in avanti del dato
sentimentale, figurativo, geografico ed esistenziale, trova una giusta
collocazione nelle tematiche provenienti dal binomio città-campagna, che creano
momenti di raccordo con un certo romanticismo isolato e maudit.
Ma è
l’adesione ad un ambiente primitivo ad instaurare un rapporto confidenziale con
la Natura, che diventa il luogo privilegiato della ricomposizione dei
sentimenti, che si organizzano in un paese dell’anima nel quale trovano spazio
tante piccole isole di solitario abbandono e di piacevole sopravvivenza.
E’
probabile che in questo perdersi e ritrovarsi si circoscriva la cifra poetica
di Gennaro Morra, col suo tipico movimento sintattico, che si associa ad una
struttura ritmica comprensiva di più simboli del mondo arcaico, recuperati da
un abilissimo gioco di proiezione delle retrospettive mentali, che rimuovono
radicalmente ogni connessione e rapporto con la vita urbana.
Si pensi,
soprattutto a questa operazione di transfert, come condizione mimetica con la
terra-madre, che non diventa mai elemento marginale, ma avventura della
coscienza oscillante tra assopimento e risveglio, di fronte ad un mondo
inalterabile e, per questo,, meno ostile, perché depositario di richiami
ancestrali.
Quello che
emerge è un reportage di scontri e incontri sul dato reale e immaginario in cui
si inseriscono alcuni elementi mitici, ricostituiti da una memoria distaccata
dalla letteratura dell’oggettività. E’ quanto si rileva nei primi documenti
poetici caratterizzati da una duplice operatività linguistica, collegata più ad
una gestione autonoma del significante che a vere e proprie fratture
dicotomiche.
E’
un’operazione che può far nascere sospetti di ambiguità estetica, ma le
intermittenze e i rovesciamenti formali, che si susseguono in una costante
concatenazione e successione, sono consequenziali all’urto delle cose e al
riaffacciarsi costante del confronto antitetico tra mondo periferico e mondo
centrale: da qui le scelte linguistiche spostate sul versante dell’ermetismo e
del neorealismo.
Ma è con
la silloge Parole udite domani che si viene a realizzare un maggiore effetto
nell’ambito della maturità stilistica e della più generale acquisizione del
significante spostato in area neorealista. Morra, pur essendo un poeta del Sud
ha saputo evitare le facili maledizioni che hanno accompagnato la poesia
meridionale, mitigando le storie di miserie e di dolore,attraverso il recupero
delle proprie radici, bruciando sul nascere, qualsiasi operazione di malumore e
d’invettiva nei confronti dell’emarginazione e del potere.
Superato,
così, il rischio d’un epigonismo di maniera, proprio di tanti poeti
meridionali, prende forma e si consolida la poetica della memoria, fino ad
approdare ad una solitudine campestre, che è amore per i propri campi e per le
sere d’estate che giungono improvvise / sotto i lampioni delle piazze / dove i
ragazzi imparano a chiamarsi / con nomi inventati nella rissa (Parole udite
domani, pag. 12) . Dominano nel contesto poetico analisi e piccoli credi di
fronte ad un’esistenza, dura e implacabile, in una policromia semantica
supportata da una musicalità profonda e cameristica.
Vi sono
poesie che mettono in rilievo il senso effimero del tempo, che muta e cambia il
volto degli uomini e la vita stessa, rivisitati nel rapido scatto del pensiero,
che traccia i contorni di un paesaggio immutabile negli anni, nell’impulso
della riflessione e dell’autocompiacimento della propria misantropia. E’ in
sintesi, lo stesso alibi poetico che portò Pavese a riconoscere nella campagna
i luoghi originari di una interazione fisica e psicologica, dopo aver percepito
un diverso rapporto con la vita e la natura.
Ed è
quanto si rileva in Morra con i suoi centrifughi paesaggi mentali, che
affiorano in un’atmosfera poetica, fortemente umana, e intimistica, nell’attimo
stesso in cui vengono a frapporsi gli arretramenti psicologici volti alla
ricerca del tempo perduto: Ritorno d’epoche sgomente / e adolescenza precoce, /
avete preso il pallore del tempo. / Come un pensiero obbligato / la memoria mi
stanca / questo costringermi / a indovinare il passato. / (da Parole udite
domani, pag. 7).
C’è in
questo esporsi nel mondo della memoria, una percezione acuta del senso del
nulla, subito ripopolato da situazioni e fatti collocabili nel paradigma di
storie che si evolvono nel rinnovato rapporto con le cose, quando subentrano i
ritorni psicologici a ricostruire un tessuto umano dilacerato dalle contraddizioni
quotidiane: Io qui vengo ad incontrarmi / con la notte e faccio barricate / per
difendermi dal vuoto / ch’esse portano dietro di sé / finché il canto dei galli
/ non chiami l’alba sui monti. / (da: Parole udite domani, pag. 10).
Il
meridionalismo di Morra è essenzialmente iconografico: da qui le celebrazioni
dell’ambiente rurale, visto come luogo d’identificazione culturale e
sentimentale, per meglio attingere ad un bacino di memorie recuperato
attraverso un monolinguismo tematico di straordinaria innocenza e malinconia,
che spontaneamente si manifesta quando il poeta si lascia alle spalle la città,
per riconquistare vecchi sogni e nuove emozioni.
Si
costituiscono così gli elementi connotativi di un discorso modellato dal senso
della vita e della morte, col ripristino di storie d’epoche sgomente,) dove i
morti li seppellisci a fior di terra / fuori la porta dell’orto, /e continui a
portarli presenti, / li senti respirare nella polvere / accendi i lumi ai loro
piedi / e li chiami come da un balcone. / Ciò è evidente in Parole udite domani
nel quale il discorso si fa sommesso parlato, cadenza musicale e trascrizione
fedele di un ambiente; un libro che a rileggerlo non sembra aver smarrito
l’originaria forza evocatrice, quella che porta il poeta a scrivere, in maniera
impareggiabile, qualche lettera al caro Velso Mucci, che è un gioiello di
suasiva affabulazione alla luce del sacrificio della memoria, che si scioglie
in una delicatissima short story. C’è un’oggettivazione quasi umana, fraterna
di cose, come di persone che vivano e soffrano: è dolorante realismo che geme
in versi scabri, dove si sente il soffocato singhiozzo, l’affanno di una “terra
di pianto nato da occhi aperti a sorrisi di dolore”. Leggendo questi versi si
prova la stessa impressione che si ha davanti alle sofferte figure umane
ritratte da Carlo Levi (da Il Presente-poesia e critica, anno II°, n. 7, 196,
di Oronzo Giordano), quel Levi con il quale il Morra fu in amicizia negli anni
56 e 57.
Viaggio
nel deserto è l’ultimo volume di Gennaro Morra, dopo un silenzio durato sedici
anni.
Vi appare,
ancora una volta, l’impegno morale nel quale il poeta si è sempre affidato nel
corso degli anni, inaugurando nuovi stilemi e neologismi, come collegamento
alle forme meno scissioniste, ma pur sempre innovative nel linguaggio rispetto
ai primi rapporti poetici.
Certo non
emerge molto sul piano della resa sperimentale, tenendo presente il cauto
equilibrio formale al quale si è sempre attenuto l’Autore, anche se l’esigenza
di adeguarsi a nuove letture e temi, appare lodevole negli inserti e squarci plurilinguistici,
che qui e là affiorano come segnali di frattura e di movimento lessicale.
Sono
lontani i tempi delle suggestioni letterarie di Parole udite domani e di Un
grido tra le mani. Il discorso è diventato più libero e meno elegiaco. Sembra
questo Viaggio un ampio giro intorno al mondo nella violenza della Storia.
Riappaiono
i tumulti di Piazza Venceslao e la Primavera di Praga, una e cento città
dell’Europa e dell’America, il fiume Neva, Broadway e Wall Street.
“ A
Broadway si beve ghiaccio e bourbon / misto all’acqua dell’Hudson / e le
insegne che incendiano la notte / si spengono come candele, pag, 29, asienme a
tutta una descrizione topografica di New York, con il Palazzo di Vetro e
Manhattan e gli opachi quartieri di Brooklin.
“ Nel
quartiere di Queen / un’ora d’amore / costa dai venti ai trenta dollari, / nel
Bowery, invece, al suicida / ne bastano tre per una corda /”, pag. 31.
E’ un
discoso che si evolve con assoluta coerenza e fdeltà di fronte alla elencazione
di fatti e al collasso di una civiltà: una testimonianza altamente sofferta di
un umanista che ritrova nela catastrofe il senso profondo della propria
fragilità e impotenza, attraverso una autonomia testuale che affronta i
riferimenti storici con un forte impegno critico e civile.
Questa
presenza di temi sociali e resistenziali, disseminati nel corpus dell’opera, ci
ricordano un altro protagonista della nostra poesia: Vittorio Sereni, che con
Frontiera e Diario d’Algeria, ha tradotto con lucida trasparenza, il teatro di
guerra che investì e bruciò l’Europa intera.
C’è in
effetti una posizione critica e ideologica, tutt’altro che marginale di fronte
al potere dei colonnelli in Grecia e dei carri armati in Ungheria.
Si tratta
di una breve informazione poetica, inserita in un contesto strutturale che
lascia spazio nella seconda parte della raccolta a interventi elegiaci e
autobiografici; tuttavia è innegabile la sua partecipazione con voce dolorosa a
sé stante.
Oltre le
sigle del ricordo e della speranza di ricucire i drammi e le violenze di popoli
e civiltà, nasce il Viaggio, che il poeta stesso riconosce come un transito nel
deserto dei giorni bui e che potrebbe essere, fuori della metafora, il luogo
della follia e della morte, e chissà, forse anche il passaggio nel deserto
della poesia, che sembra aver fallito il suo compito di salvezza, da qui
l’opinione ricorrente della sua inutilità.
IL PAESE
DI MIO PADRE
Da quando
son tornato
a starmene
in questo paese
mi son
fatto estraneo
a tutto il
resto del mondo.
Una notte
vidi
portarmi a sepoltura:
compresi
allora
che urgeva
il bisogno
di farmi
amico l’olivo e la vite,
di porgere
il cercine
alla donna
della fonte.
Allora
compresi
che la
mandria si sarebbe affacciata
sul muro
di cinta al mio sepolcro.
E
dimenticai i pinnacoli barocchi,
i
pescatori col pileo,
i palazzi
tinti di rosa.
Ora
resisto al bruciore
che il
fumo delle stoppie
mi fa
nelle narici aperte
e, come un
fanciullo, aspetto le giostre
somiglianti
a case cupolate.
Quegli
altri paesi esistono
soltanto
nei libri;
li ricordo
come una lezione
bene
imparata
e mi
riempie di meraviglia
il
sentirli chiamare.
Attenderò
il giorno
in cui mi
infosseranno i piedi
in questa
terra
perché vi
metta le radici,
mangerò
fave fresche
e
pannocchie bollite,
mi
guarderò dai cani dei pastori,
le notti
d’estate le passerò a cantare
sopra
mammelle di grano
questo è
il paese di mio padre.
(da:
Parole udite domani,1953)
LETTERA
Caro Velso
qui dove
mi esilio
per
fuggire ai tramonti improvvisi
ai raggi
obliqui senza luce,
agli
orizzonti proibiti
da pareti
che si restringono,
qui la
notte viene di lontano
fors’anche
da Brà
o da un
meraviglioso paese;
qui la
notte la portano i buoi
nei neri
occhi assonnati
e il
gracidare dagli stagni
che non
hanno riflessi di stelle.
Ancora
qualche muro mi difende
dalla
paura che recano
le notti
senza annunzi di sere,
eppure
ogni volta è un inganno
di ombre
rapide dietro alle quali
i prati
affondano come il passo
nella mota
di certi temporali.
Dove
s’ancori il silenzio
non saprei
confidarti;
io spoglio
mi sento e non tocco
da questi
contagi.
Se mi
sporgo
l’occhio
annega e nel lento cammino
riconduce
al tatto ogni cosa smarrita.
Di sotto
alla casa
l’asina
percuote il selciato
con un
ritmo di trance
i cani,
stizziti, abbaiano
all’eco
dei propri latrati
o al
lamento che fanno lontano
gli
organetti di Barberia;
nella
stanza accanto, in alto
stanno il
cappello ed il bastone
con il
quale mio nonno
rimuoveva
la terra
alle
radici delle piante.
Se volessi
scavare
il seme
che ho interrato stamane
saprei
dove ritrovarlo ad occhi chiusi.
Io qui non
vengo a riposare:
m’affaticano
le veglie
sul
saccone riempito
con
cartocci di granturco,
io qui
vengo ad incontrarmi
con la
notte e faccio barricate
per
difendermi dal vuoto
ch’esse
portano dietro di sé
finchè il
canto dei galli
non chiami
l’alba sui monti
(da:
Parole udite domani, 1953)
PAESE
Le tue
spalle di roccia,
le mura
senza tempo,
i santi
immobili alle cantonate,
il
silenzio che stagna
dentro una
cerchia d’ulivi.
Ecco i
miei luoghi dove hanno voce
soltanto
le campane
e il tempo
fa ressa
attorno
alle sue mura.
Le donne
sulla soglia delle case stanno
a
scaldarsi con il fiato negli scialli;
gli uomini
sotto le arcate, chiusi
con i visi
nascosti nel silenzio triste
e
nell’ozio di mantelli scuri.
Tu dici
che la vita è una veglia
ma il
sonno nasce sotto le ciglia
di questa
mia gente stenta.
Lo porta
il sole della meridiana,
l’uggia
della nebbia dagli orti,
il lamento
della tramontana.
Oh non è
qui la vita, in questa cava
che i
secoli assediano e la noia
fa
profonda; non è
in questo
silenzio indolente.
(da:Parole
udite domani, 1953)
PIANTO PER
IL SUD
Tu, terra
appena scalfita dai solchi,
terra
battuta da piedi mai calzati
che ti
camminano sul cuore antico,
che ti
affondano il sasso nella carne
e non ti
lamenti le ferite
e se
gridi, la voce
ti si
stanca nella gola,
terra di
pianto nato da occhi
scoperti a
sorrisi di dolore.
Nel tuo
ventre di cenere
è briglia
la radice dell’acacia
e
dell’agave
e del
cardo dove dirupa l’abisso.
Le tue
case diroccate
sono denti
di un teschio;
come
capestri vi pendono ancora
le funi
che tenevano al collo
i muli
nutriti di gramigna.
E i cani
smagrati
ancora vi
fanno la guardia.
Nel tuo
cielo inarcato le campane
suonano
sempre a martello
paese di
chierici in processioni
e di
salmodie mormorate
per vicoli
storti.
I morti li
seppellisci a fior di terra
fuori la
porta dell’orto
e continui
a portarli presenti,
li senti
respirare nella polvere,
accendi i
lumini ai loro piedi
e li
chiami come da un balcone.
La tua
ventura è d’oziare
per le
strade di questa prigione
urlanti di
scritte sui muri delle case
che hanno
le spalle volte al mondo
da dove
nessuno ti chiama,
nessuno
risponde all’amaro richiamo
paese di
fuori legge per fame.
Oh, nel
Sud risalgono i monti
e si
chiamano a viva voce
da un
paese all’altro.
Nel Sud vi
sono soltanto
chiese e
pagliai
e strade
senza sbocchi,
strade
allargate
dalla
carraia dei barocci.
Nel Sud si
muore depredati,
anche
senza la camicia.
Che cosa
sarebbe il Sud
senza la
malaria nei pozzi
e le
carestie,
senza il
gallo che al mattino
ti sveglia
dalla spalliera del letto,
senza le
cantilene nelle aie.
Che cosa
sarebbe se i suoi abitanti
avessero
volti di uomini.
(da:Parole
udite domani,1953)
SULLA
COLLINA DEI VENTI
Non v’è
riposo sotto le croci
confitte
nel cuore dei morti;
qui, sulla
soglia del mondo,
non dà
luce il chiarore dei lumi.
L’erba sui
tumuli che i morti
inarcano
con il loro respiro
l’ha
bruciata il gelo di novembre.
Novembre è
sceso nelle tombe ,
dentro i
sarcofagi di cenere
attraverso
le crepe della terra
per dove
passano le nostre voci
d’uomini a
gridare nomi vani
sulla
collina dei venti.
(da:Parole
udite domani, 1953)
RITORNI
D’EPOCHE SGOMENTE
Ritorni
d’epoche sgomente
e
adolescenza precoce,
avete preso
il pallore del tempo.
Come un
pensiero obbligato
la memoria
mi stanca
questo
costringermi
a
indovinare il passato.
................................................
Oh, ignoti
profumi di giugno
io non
seppi mai che foste voi
ad
imbiancare l’olivo.
E a
grattare la terra,
non le
corolle cadute cercavo
ma il
lombrico nascosto,
la tana
della talpa.
E’ la
quotidiana ferita
la portavo
come un premio
assaporando
l’acredine
del sangue.
(da:
Parole udite domani, 1953)
ESTATE
Bianca
estate, alla tua luce inerte
cerco gli
archi delle schiene, piegate
a tentare
il sapore della terra
sulla
destra del fiume di pietre;
dall’alto
scopro le mie strade
distese in
un riposo insonne
laggiù
oltre l’aie polverose
tra la
radura di stoppie dove
la terra
grida sete ed arso vento
sotto
cieli distanti, perduti
agli
impalpabili orizzonti.
Pigro
nell’aria assolata è il silenzio
che nasce
qui; da queste antiche tombe,
tra le
foglie d’ulivo immote,
fuori dai
chiusi spazi delle case
dove la
gente si muove senz’ombra,
dove il
sole s’adagia indolente e il fumo
dei
secciai s’annida nelle crepe
a
preparare l’autunno.
(da:
Parole udite domani,1953)
SENTO IL
CUORE DELLA TERRA
Lasciatemi
andare per queste strade,
lasciate
che il piede affondi
nel solco
che traccia la ruota,
nei fossi
che la pioggia fa colmi,
lasciate
che pesti l’erba
riversa
nella mota.
Una
guancia accosto alle crepe
che
s’aprono nei prati
e sento il
cuore della terra
inviolato
alitare il suo male.
Non voglio
più tornare
sulle
strade catramate:
i miei
passi qui hanno
dolce
riposo e m’è guanciale
l’afflitto
verde del trifoglio.
(da:Parole
udite domani, 1953)
ED IO A
FARMI SCHIAVO
Ed ora
viene la pioggia (affrettato
questo
rosario d’acqua sonante
rotto
dagli embrici sconnessi delle foglie
aperte
come palmo di mano
lacere), a
lavare le fogne,
a nutrire
i miei spazi d’ombra
(fragili
spazi d’occulte stagioni)
a far
germogli di radici attorno
al tempo
che fa spreco di noia,
ad
ammucchiar rovina di pensieri
in un
angolo battuto dall’ombra
qui dove
un grido sarebbe un pavese
sugli anni
privi di memorie.
Ma
l’inverno è presagio di sgombri relitti:
fumano le
mura degli squarci
dove
sterile il muschio intristisce;
madidi
pendono i fiori alle finestre,
come un
rogo si spengono le case.
Nel cuore
del mattino m’ha destato
questa
pioggia d’acqua e di voci,
deludendo
un desiderio di sole
forbito
d’abbagli sul granito
che suda
in lontane città di nebbia;
ed io a
farmi schiavo di liquido
pianto
nella domenica insulsa,
a
prepararmi un limite scoperto
oltre il
viaggio indifeso, oltre il suono
d’una
mattutina fanfara di campane.
(da:Parole
udite domani, 1953)
NEL
TRAGITTO DEL TEMPO
E’ il
tempo delle vigne devastate.
Per le vie
già l’odore di vinacce
che i
carri recano nell’aria
mossa dal
vento dei canneti.
.................................................
In
nessun’ora come in questa,
rapida e
indecisa nel vespro,
ho
scoperto nelle voci stenuate
un pianto
remoto di sgomento
che geme
sotto il peso della creta
trascinata
come un segno per le strade.
E scalzi
piedi calcano
il debole
tepore dei selciati;
diluvia la
sera nei cortili,
negli
occhi chiari di sdegno,
nel seme
duro a aprirsi,
nei tini
rossi di mosto, sulle mani
colorate
come di sangue stinto.
Annotta
nei cuori vinti dalla sorte
ma spazio
c’è in me per quest’ombre,
per questi
convogli d’uomini
perduti
nel tragitto del tempo.
(da: Parole udite domani, 1953)
1 commento:
Messaggio rivolto a tutti quelli che lavorano nel campo dello spettacolo e intrattenimento musicale,associazioni, circoli, club e altro.
Vorremmo sottoporre alla vostra cortese attenzione la proposta di una nostra collaborazione-gemellaggio musicale, in occasione di feste, eventi, manifestazioni e altro,organizzati nel 2016 .IL nostro gruppo è della regione molise casacalenda provincia di campobasso, il nome è GLI AMICI DEL BUFU DI CASACALENDA DI ANTONIO COLONNESI.Il comune intento è quello di suonare musica folk,popolare e altro,tutta musica dal vivo, divertimento assicurato.I concerti sono esguiti live e senza l'ausilio di supporti tecnico-musicali.Proponiamo le nostre serate- concerto nelle piazze, teatri, locali, come ristoranti,pub e altro.Abbiamo un repertorio standard per un concerto della durata di circa 2 ore.Il gruppo è formato da vari strumenti musicali acustici della tradizione pastorale, contadina.Sono disponibili anche dei video su youtube, google,google+, facebook, myspace.
Siamo disponibili a fornirvi qualsiasi ulteriore informazione
In attesa di una vostra risposta, vogliate gradire i nostri piu cordiali saluti.
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ANTONIO Antonio Colonnesi
339-8211558
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