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mercoledì 22 ottobre 2008

EUGENIO MONTALE

(1896-1981)






La casa di Olgiate


In quel tempo era ancora vivo
il piccolo Tonino nella casa
alta sul cavalcavia.
Io la vedevo, la casa, dall’autostrada,
ignorando te e lui: non mi balzava
il cuore come adesso. L’ignoranza
mia occultava l’avvenire, il fil-
di-ferro del domani, là giunti, si troncava.

V’entrai molti anni dopo
(il bimbo era morto da tanto,
sussurrando”mi duole per te, mamma”),
conobbi l’orto, il giardiniere, il tuo
boudoir di diciottenne, disammobiliato,
l’impronta appena visibile di un cerchio sul muro –lo specchio-,
e non potevo parlare. Tra quelle stanze
una parte alitante di te mi bastava.

Il trillo del tuo cardellino più tardi si spense
all’ombra del giglio rosso da me lasciato.
Famelico delle tue tracce mi affaccio su rettangoli
di verze, su cespugli di dalie impolverate,
e il vecchio custode mi segue, più inebetito di me
nei corridoi, nel solaio mentre dal basso giunge
un crepitare isocrono di macchine,
ma non bava d’aria nell’afa.

Così i destini s’annodano, mia tigre, e intanto tu
dietro le lenti affumicate spii
nugoli pigri e sull’Olona putrido
l’efflorescenza dei disinfestanti.
Si snodano i destini. Mai da me intraveduta,
la tua casa friulana ora s’allarga
nel desiderio, l’aia dove incontro al futuro
irruppe la tua infanzia, e già volava.
Eugenio Montale

(da: La casa di Olgiate e altre poesie, Mondadori, 2006)


Portami il girasole ch’io lo trapianti

Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
Eugenio Montale
(da “Ossi di seppia” Mondadori, 1972)



La Casa dei Doganieri

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende….)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Eugenio Montale
(da: “Le occasioni” Mondadori, 1976)






CAMILLO SBARBARO

(1888-1967)



Versi a Dina


La trama delle lucciole ricordi
sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(trasognato paese dove fui
Ieri e che già non riconosce il cuore).

Forse. Ma il gesto che ti incise dentro,
io non ricordo; e stillano in me dolce
parole che non sai d’aver dette.

Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s’anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che non giungono a toccarsi.

Ognuno resta con la sua perduta
felicità, un po’ stupito e solo,
per mondo vuoto di significato.
Miele segreto di che s’alimenta;
fin che sino il ricordo ne consuma
e tutto è come se non fosse stato.

Oh come poca cosa quel che fu
a quello che non fu divide!
Meno
che la scia della nave acqua da acqua.

Saranno state
le lucciole di Nervi, le cicale
e la casa sul mare di Loano,
e tutta la mia poca gioia – e tu –
fin che mi strazi questo ricordare.
Camillo Sbarbaro

(da:”Rimanenze” Scheiwiller, Milano 1955, su –La poesia italiana contemporanea- di G.Cavallini e L. Marguati, Editore Bulgarini, 1972)


VINCENZO CARDARELLI
(1887-1959)

ESTIVA
Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
delle albe senza rumore-
ci si risveglia come in un acquario-
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’ oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.
Vincenzo Cardarelli da:”Poesie, Mondadori, 1971)
AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento di agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
Vincenzo Cardarelli, da Poesie, Mondadori, 1971)


GUIDO GOZZANO
(1883-1916)




Signorina Felicita

Signorina Felicita, a quest’ora

scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora.
E Ivrea rivedo e la cerula Dora
E quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai?,Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno!
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.
Pensa i bei giorni d’un autunno addietro:
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
Coi suoi ciliegi e la sua Marchesa
Dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….
Vill’Amarena! Dolce la tua casa
In quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
Di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.
Bell’edificio triste, inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fruga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!
Ercole furibondo e il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
D’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, tramutata in lauro
Tra le braccia del Nume ghermitore….
Penso l’arredo – che malinconia! –
Penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!
Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
Che tu rammendi paziente…Avita
Semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II


Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….
E rivedo la tua bocca vermiglia
Così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
Rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo volermi piacermi!
Ogni giorno salivo alla tua volta
Per soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.
Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….
Per la partita verso ventun’ore
giungeva tutto ì’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma- poiché trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….
M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vivi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico, d’aglio, di cedrina…
Maddalena con sordo brontolio
Disponeva gli arredi ben decenti,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo uguale dell’acciottolio.
Sotto l’immensa cappa del camino
( in me rivive l’anima d’un cuoco
Forse…) godevo il sibilo del fuoco,
la canzone d’un grillo canterino
mi dicevi parole, a poco a poco,,
e vedevo Pinocchio e il mio destino….
Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi, tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori da quell’altra stanza.

IV


Bellezza riposata dei solai

dove il rifiuto secolare dorme”!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò che è stato e non sarà più mai,
bianca e bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:
“E quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno….E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…L’han veduta alcuni
lasciare il quadro, in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….”
Il nostro passo diffondeva l’eco
Tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano
si riposa all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.
Intorno a quella che rideva illusa
Nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili.. ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!
Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle fronde regie
v’era Torquato nei giardini d’Este
“Avvocato perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?”
Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimé la Gloria! un corridoio basso,
tra ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!
Allora quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.
Non vero(bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese,
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso e alto.
Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù oltre i colli dilettosi
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei “ cosi
con due gambe” che fanno tanta pena…
“ Avvocato, non parla che cos’ha?”
“ Oh, Signorina! Penso ai casi mie,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei….” –
“Qui nel solaio?...” Per l’eternità!” –
“Per sempre” Accetterebbe?....- “Accetterei!”
Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
Si librtò con un ronzo lamentoso.
“Che ronzo triste!” – “ E’ la Marchesa in pianto….
La Dannata sarà, che porta pena…”
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino, tu mi piaci tanto
siccome piace al mar una sirena….
Un richiamo s’alzò querulo e tòco:”
“E’ Maddalena inquieta che si tardi;
scendiamo; è l’ora della cena”- “ Guardi,
guardi il tramonto là… Com’é di fuoco!...
Restiamo ancora un poco!” – “Andiamo, è tardi!”
“Signorina, restiamo ancora un poco…!”
Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a fronte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il ssle fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana…
“Una stella!....”- “Tre stelle!...” – “Quattro stelle…”
“Cinque stelle!...” – “Non sembra di sognare?....”
Ma ti levasti su quasi ribelle
Alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo!” E’ tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle…”

VI


Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi

luceva una blandizie femminina,
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Unite la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….
Oh! Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sfrenati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…
Mi piaci, Mi faresti più felice
d’un intellettuale gemebonda…
Tu ignori questo male che s’apprende
In noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
…Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma tendere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….
Ed io non voglio più essere io!

VIII


Nel mestissimo giorno degli addii

mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
In quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.
Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.
“Viaggio con le rondini stamane….”-
“ Dove andrà?” – “Dove andrò! Non so. Viaggio.
Viaggio per fuggire altro viaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….
Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarò d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.
Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.
Le rondini garrivano assordanti
,garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…..
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…
“Un altro stormo s’alza!....” “Ecco s’avvia!” –
“Sono partite…..” – “ E non le saluti!....”
“Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….”
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando….
diligenze che andavano al confine….
M’apparisti così come in un cantico
Del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovane romantico
quello che fingo d’essere e non sono!

Guido Gozzano
(da:”Poesie “, La Signorina Felicita ovvero la Felicità”, Editore Garzanti. 1948)


GABRIELE D’ANNUNZIO
(1863-1938)

La sera fiesolana

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,

o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera

ti sien come la pioggia che bruiva
tiepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su’l grano che non è biondo ancora
e non è verde,
e su’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fa di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,

o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami

d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incurvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,

o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle.

Gabriele D’Annunzio

(Da:”Alcyone”, Poesia Italiana del Novecento a cura di Edoardo Sanguineti, Volume Primo, Einaudi, 1969)



GIOVANNI PASCOLI
(1855-1912)




Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala

l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala

l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’é spento….

E’ l’alba: si chiudono i petali,

un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Giovanni Pascoli

(da:”Canti di Castelvecchio” 1903, Mondadori, luglio, 1958)





La mia sera

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!


Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

E’ quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io…e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
Là, voci di tenebra azzurra…
che fanno ch’io torni com’era….
Sentivo mia madre….poi nulla….
sul far della sera.

Giovanni Pascoli

(Da: “ I canti di Castelvecchio”, 1903, Mondadori, 1958)






Mia madre

Zitti, coi cuori colmi,

ci allontanammo un poco.
Tra il mereggiar degli olmi
brillava il cielo in fuoco.

…Come fa presto sera,

o dolce madre, qui!

Vidi una massa buia

di là del biancospino,
vi ravvisai la thuia,
l’ippocastano, il pino….

… Or or la mattiniera

voce mandò di lui;

Tra i pigolii dei nidi,

io vi sentii la voce
mia di fanciullo: e vidi
nel crocevia, la croce.

…..Sonava a messa, ed era

l’alba del nostro dì:

E vidi la Madonna

dell’Acqua, erma e tranquilla,
con un fruscio di gonna,
dentro, e l’odor di lillà.

….pregavo… E la preghiera

di mente già m’uscì!

Sospirò ella, piena

di non so che sgomento.
Io me le volsi: appena
vidi il tremor del mento.

…..Come non è che sera,

madre, d’un solo dì?

Me la miravo accanto

esile sì, ma bella:
pallida sì, ma tanto
giovane! una sorella!

Bionda cos’ì com’era

quando da noi partì.

Giovanni Pascoli

(da: Canti di Castelvecchio, 1903, Mondadori luglio 1958)








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